5.a.14 – Pubblico o privato?

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25 Settembre 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

Pubblico o privato?

Le varie forme di associazione degli esseri umani dipendono dalle attività per le quali esse sono state create. Un fattore quindi di fondamentale importanza, che non può essere trascurato, è l’aspetto economico.
In precedenza abbiamo definito la ricchezza come l’insieme dei beni, ovvero tutto ciò che utilizziamo per vivere al meglio; ne sono un esempio i nostri vestiti, gli elettrodomestici, la nostra casa, ma rientrano in questa definizione anche beni pubblici come le strade, la rete idrica e le scuole. Possiamo notare come alcuni beni siano per loro natura personali ed altri di tipo collettivo: quale senso avrebbe considerare come bene collettivo le mie scarpe o il mio spazzolino da denti se sono ovviamente il solo ad usarli? Un bene è per definizione qualcosa che aiuta la vita, ma se svolge questa funzione solo per un singolo individuo non può essere considerato un bene collettivo. Questo tipo di considerazioni possono certo essere utilizzate per giustificare il concetto di proprietà privata, ma con la stessa logica si può fare lo stesso anche con il concetto di proprietà collettiva e poi di quella pubblica: se infatti prendiamo come esempio una sorgente d’acqua potabile, questa sarà un bene prezioso per tutta la popolazione locale ed è quindi ragionevole considerarla un bene di tutta la comunità del territorio circostante. Con un ragionamento simile un qualunque bene di interesse nazionale andrebbe considerato pubblico, ovvero di proprietà di tutti i cittadini, ma si può andare anche oltre: se pensiamo all’inquinamento dell’aria, questo non rispetta i confini nazionali, ma si diffonde ovunque, sotto questo aspetto l’aria si comporta come un bene unico per tutta l’umanità.
Ne segue che i concetti di pubblico e privato non sono in contrasto, ma entrambi necessari alla natura umana; sono tradizionalmente presentati come contrastanti a causa dello storico conflitto fra le due principali ideologie economiche e politiche del passato, quella liberale e quella socialista, rivelatesi entrambe fallimentari. Esaminando tali concetti con obiettività, tale contrapposizione appare oggi del tutto priva di fondamento e questo anche se non è sempre facile stabilire a quale categoria assegnare un dato bene; un ospedale ad esempio può essere sia pubblico che privato, dipende da chi ne ha finanziato la costruzione o l’acquisto. Inoltre lo stesso bene può svolgere funzioni diverse: una foresta può essere vista come una risorsa dalla quale ricavare del legname per la popolazione che vive nei suoi pressi, ma è anche una fonte di ossigeno per tutto il pianeta; un ghiacciaio può essere una attrazione turistica per praticare degli sport invernali, ma anche una riserva d’acqua che alimenta per tutto l’anno i fiumi a valle. Non è dunque sempre facile distinguere il pubblico dal privato, ma non è neppure un’impresa difficilissima quando si hanno le idee chiare.
Su ragionamenti simili oggi si basano le tasse ecologiche, le quali mirano a scaricare sui consumatori di un prodotto i costi indiretti dovuti ai danni ambientali provocati dalla produzione di tale bene, come le spese ospedaliere per malattie dovute all’inquinamento, quelle per le ricostruzioni a seguito di inondazioni dovute ai mutamenti climatici o al disboscamento e simili. Questi costi di norma pesano su tutta la collettività che viene in questo modo danneggiata due volte, prima subendo il danno e poi ripagandolo; la suddetta forma di prelievo fiscale tende allora a colpire le industrie, i cui cicli produttivi sono ben noti sia nelle risorse che impiegano, sia nelle scorie che creano, in proporzione ai rispettivi impatti ambientali; tali oneri fiscali, che verranno inevitabilmente riversati nel prezzo dei prodotti, hanno il pregio di rendere evidente direttamente sul prodotto il costo che esso comporta per la comunità in termini monetari e svolge almeno tre funzioni positive:
• rende meno convenienti le attività che danneggiano l’ambiente scoraggiando l’acquisto del prodotto finale;
• induce a spostare i consumi su prodotti ecocompatibili, incoraggiando un’economia rispettosa dell’ambiente e la ricerca tecnologica in tal senso;
• consente di risarcire almeno in parte la collettività dei danni subiti.
Sebbene tale sistema non possa compensare i danni difficilmente calcolabili in termini monetari come quelli morali, esso è un importante passo nella giusta direzione; inoltre è il caso di ricordare che i sistemi tradizionali per controllare la compatibilità ambientale dei cicli di produzione, oltre a portare risultati assai scarsi, sono anche molto più costosi, basandosi su una complicata burocrazia collegata a ispettori per i controlli, processi in tribunale, spese carcerarie per i condannati e simili. Tutte queste spese invece vengono ridotte al minimo con tale sistema, il quale è oggi universalmente conosciuto fra i politici e gli economisti, ma applicato solo in casi sporadici; questo rivela una mancanza di volontà politica in aperto contrasto con gli interessi della popolazione ed a favore delle grandi lobby economiche che non mancano mai di finanziare i politici corrotti. Di nuovo dobbiamo constatare la necessità di un sistema realmente democratico che possa applicare simili strategie su larga scala.
All’interno di un villaggio moderno, si dovrà pertanto stabilire di volta in volta come valutare una data risorsa e come gestirla, scegliendo fra un approccio di tipo pubblico, collettivo o privato.

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2 Commenti per “5.a.14 – Pubblico o privato?”

  1. Alafrida dal Lago ha detto:

    Quando realizzo che ci sono sistemi molto più efficaci e allo stesso tempo economici di quelli tradizionali basati sul controllo da parte di controllori controllati da supercontrollori che rispondono non si sa a chi, comunque corruttibili e spesso inconcludenti, mi si alza la pressione!

  2. Morias Enkomion ha detto:

    Che le politiche basate su livelli di controllori siano inefficaci non c’e’ dubbio. Ma nutro altresi’ grossi dubbi sull’efficacia dei diritti ad inquinare, ed eccone i motivi: chi inquina di piu’ sono le grandi imprese, soprattutto petrolifere e chi ne usa i derivati, buona parte dell’industria di ogni nazione. Si tratta di potentati economici per i quali un incremento dei costi si riversa totamente sul consumatore finale, il quale non potra’ scegliere un’industria piu’ attenta al’ambiente perche’ in certi settori non ve ne sono dato che non hanno incentivi a farlo poiche’ pagano i politici per non promugare leggi che vadano contro gli interessi di tali potentati. Si tratta di un settore dove vi sono monopoli di fatto e di diritto, altissime barriere d’ingresso ed uscita, che impediscono il funzionamento del libero mercato, anche ammesso che non vi siano politici corrotti; ma senza concorrenza il sistema della vendita dei diritti ad inquinare serve solo a creare una nuova tassa indiretta sui cittadini.

    Aggiungo un altro fattore: anche nei settori dove la concorrenza e’ maggiore, per esempio in agricoltura, tassare le imprese che fanno uso di diserbanti inquinanti aumenta il costo di produzione. In teoria le imprese biologiche ne sarebbero avvantaggiate, ma in pratica succede che queste vendano i loro prodotti ad un prezzo troppo alto, con margini di guadagno maggiori delle imprese ‘inquinanti’, perche’ sfruttano l’elemento psicologico: noi siamo ‘pulite’ quindi i nostri prodotti valgono di piu’. Valgono si’, ma nn significa che costino di piu’ al produttore. Il consumatore, quindi, acquista i soliti prodotti tranne la fascia a reddito piu’ alto. Si crea quindi, esclusivamente, una remunerativa nicchia di mercato con zero vantaggi per il consumatore medio.

    Qui ritorniamo al nocciolo del ‘mio’ problema, che finora non ho visto trattato: come agire con i potentati economici e relativi monopoli, oligopoli e cartelli, oltre che con le organizzazioni criminali. Chiunque sia il rappresentante, comunque eletto, col sistema attuale tale personaggio sara’ avvicinato e ricattato, con le buone o con le cattive. Dalla mia esperienza posso affermare che di Falcone e Borsellino, pronti a farsi uccidere per le proprie idee, ce ne siamo in giro pochi, molto pochi.

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