3.a.9 – Dove è finita la nostra comunità?

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9 Giugno 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

comunitàDove è finita la nostra comunità?

Oggi sappiamo che l’umanità ha vissuto per almeno il 97% della sua esistenza in villaggi tribali, come presumibilmente hanno fatto anche molti dei nostri antenati ominidi; da sempre quindi siamo animali sociali che per natura formano delle comunità. In questo contesto per comunità si intende un gruppo di individui che non solo condividono lo stesso territorio, ma vivono vicini l’uno all’altro conducendo una vita in comune, interagendo continuamente fra loro.
Sappiamo anche che un grande villaggio, al crescere nel tempo della popolazione, poteva suddividersi in vari villaggi che, mantenendo fra loro contatti di buon vicinato, formavano delle alleanze a scopo sia militare che commerciale; si può allora osservare il passaggio da una popolazione riunita in un unico villaggio, ovvero da una piccola comunità con fortissimi legami di parentela e amicizia al suo interno, nonché con una ben precisa identità culturale (linguistica, religiosa, ecc.) ad una popolazione con la stessa identità culturale e facente parte di una stessa entità politica (la federazione di villaggi) che però risulta suddivisa in varie comunità.
I legami di parentela fra membri di villaggi diversi sono in genere meno stretti o possono non esistere affatto, gli incontri sono necessariamente occasionali e le amicizie assai più difficili da coltivare, alcuni membri possono essere fra loro estranei e quindi non vi è dubbio che si tratta di comunità separate, sebbene facenti parte della stessa società unita politicamente e culturalmente; manterremo quindi distinti i concetti di comunità e di società poiché la popolazione di una società umana, anche nel mondo tribale, non vive sempre in comune, ma in genere è suddivisa in comunità diverse.
Una caratteristica che ritroviamo sia nelle comunità tribali, sia in quelle agricole, è una complessa organizzazione interna con una rigida gerarchia, basata su clan familiari o altri sottogruppi (contadini, artigiani e mercanti; anziani, adulti, giovani e bambini; maschi e femmine, ecc.); una seconda proprietà che possiamo osservare nelle comunità è la loro autosufficienza, cioè la loro indipendenza le une dalle altre.
Nei piccoli centri urbani moderni, composti da poche migliaia di abitanti, ritroviamo alcuni aspetti tipici delle comunità umane: tutti i membri si conoscono personalmente; la reputazione del singolo viene spesso estesa alla sua famiglia ed è ben nota a tutti, in quanto le voci corrono in fretta; vivendo a stretto contatto si forma una sorta di opinione pubblica che osserva e giudica tutti, rivelandosi spesso fin troppo invadente e oppressiva; vi è una notevole uniformità culturale; in caso di necessità si manifesta una grande solidarietà collettiva.
I piccoli paesi però non sono più autosufficienti in quanto sono ormai strettamente legati da un punto di vista economico e politico al resto della società. Il concetto di società può ancora essere identificato con quello di nazione da un punto di vista politico, ma da quello economico è necessario estenderlo almeno a tutto il mondo occidentale se non a tutto il globo terrestre. Oggi si parla infatti di economia globale e nessuno si sorprende di trovare in un paesino sperduto una varietà di prodotti costruiti in Cina, Giappone e Stati Uniti, con materiali provenienti magari dall’Africa, dall’India o dal Sud America.
Nelle grandi città moderne troviamo cambiamenti ancora più profondi: data la grande concentrazione di persone, le risorse locali sono sempre insufficienti e la dipendenza economica dall’esterno diviene totale. Il grande numero dei cittadini rende impossibile che tutti si conoscano di persona, ma anche il vicino di casa può essere un perfetto sconosciuto, i contatti personali sono limitati al proprio nucleo familiare, ai colleghi di lavoro ed a un ristretto gruppo di amici provenienti dall’infanzia, dalla scuola, dalla palestra e di nuovo dal lavoro. In una società di estranei nessuno è interessato alla vita privata degli altri, nessuno perde tempo a giudicarti e quindi si è totalmente liberi dall’oppressiva invadenza dell’opinione della comunità; chi da un piccolo paese di provincia si trasferisce in una grande città, spesso viene preso da un esaltante senso di libertà. Chi si trasferisce dalla grande città al piccolo paese rimane invece colpito dalla sua tranquillità, dall’assenza di traffico e dal fatto di non sentirsi più soli; tutti ti conoscono e ti salutano; il cittadino ha finalmente trovato una comunità, perché evidentemente la città non lo è. Nelle grandi metropoli i contatti con i nostri amici sono frequenti, ma per vederli abbiamo bisogno di cercarli e di un pretesto per incontrarli: una serata al cinema, una pizza in compagnia, la discoteca, una partita a calcetto; queste attività esistono anche nelle comunità, ma non sono necessarie per vedersi, anzi il problema potrebbe essere quello di evitare di incontrarsi.
La differenza più sorprendente fra la vita metropolitana e quella di paese consiste nel vivere accanto ad una moltitudine di estranei che rimangono tali con il passare degli anni. Considerando che per nostra natura siamo animali profondamente sociali, è legittimo chiedersi come mai non stringiamo amicizia con i vicini di casa per formare una comunità; la risposta è che per vivere insieme è necessario svolgere delle attività in comune e non solo vivere in prossimità. In un villaggio tribale è inevitabile svolgere delle attività con i propri vicini così come in un piccolo paese forzatamente si frequenta lo stesso bar, la stessa parrocchia, la stessa piazza e gli stessi negozi; inoltre se lavoriamo in paese, anche colleghi e clienti apparterranno quasi sempre alla comunità.
In una metropoli il vicino del piano di sopra parla la nostra lingua, veste come noi e mostra la nostra stessa identità culturale, ma è un estraneo con il quale non svolgiamo nessuna attività e con cui non frequentiamo gli stessi luoghi, esattamente come se fosse un membro di un lontano villaggio alleato della nostra tribù; lo trattiamo pertanto esattamente come tale, salutandolo formalmente le rare volte che lo incontriamo per strada.
Con i nostri amici, anche se abitano lontano, il rapporto è molto diverso: rapporti informali, manifestazioni di affetto, collaborazione in attività divertenti e ludiche svolte nel tempo libero. Per certi aspetti tale rapporto è simile a quello che si avrebbe con i membri del nostro villaggio ideale, ma con alcune differenze significative:
• con i nostri amici siamo per definizione sempre in buoni rapporti, mentre nel villaggio troviamo anche profondi rancori e terribili rivalità;
• i nostri amici non si conoscono tutti reciprocamente, cosa impossibile in un villaggio.
Con i colleghi di lavoro, se facciamo parte di una grande azienda sviluppiamo un rapporto molto simile a quello del villaggio naturale, come in una tribù ci si ritrova in una condizione di necessaria ed inevitabile convivenza e ci si divide in piccoli gruppi di amici in perenne rivalità fra loro, spesso troviamo rancori e solidarietà nello stesso ambiente e tutti conoscono tutti proprio come nella vita tribale; tuttavia questo accade solo nelle aziende con decine di dipendenti e comunque i rapporti terminano alla fine dell’orario di lavoro. Di norma sul lavoro non ci si considera, giustamente, una comunità di colleghi.
La nostra natura ci porta quindi a ricostruire in qualche modo il nostro ambiente sociale naturale, ma questo è limitato all’ambiente di lavoro o frammentato in diversi circoli di amici; da questo possiamo dedurre che appartenere ad una comunità è una nostra profonda esigenza psicologica, è una necessità che costituisce quindi un valore ancora attuale, sebbene in evidente crisi.
Ancor più della famiglia il nostro villaggio sociale ha perso molte delle sue funzioni: non ha più alcun ruolo politico, non è più una unità economica autosufficiente, non è più in grado di avvolgerci ed influenzare la nostra vita, sia nel bene che nel male, spesso non è in grado di offrirci nemmeno una gerarchia da scalare, lasciandoci in un inevitabile stato di subordinazione sociale. La comunità è stata soppiantata in molte delle sue funzioni da quella che chiamiamo società e nelle città ha perso la sua identità e il suo ruolo sociale, si tratta di un valore quasi del tutto scomparso, estremamente vulnerabile, che va tutelato con particolare attenzione come le specie in via di estinzione.

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2 Commenti per “3.a.9 – Dove è finita la nostra comunità?”

  1. Gerulfo delle Milizie ha detto:

    Grande Jimmy Wales e grande Wikipedia! Wikipedia è uno strumento incredibile, sviluppato in tempi impensabili con la collaborazione di un numero indescrivibile di persone. E’ un esempio per tutti di come con la giusta idea e la giusta organizzazione oggi con internet si possano concretizzare quelli che ieri potevano essere solo sogni.

    • Leonardo il Grosso ha detto:

      E pensare che c’é ancora chi storce il naso, tanto per rifiutare per l’ennesima volta il nuovo che avanza (ma qui ci dicono che è un fenomeno fisiologico selezionato dalla natura… boh!)

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