Capitolo 2.a

2 Aprile 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

                                    

L’EVOLUZIONE CULTURALE

Riflettiamo insieme; se ripensiamo ai tempi in cui andavamo a scuola, ricorderemo che i libri di storia erano un susseguirsi di guerre e di sovrani, ma anche di usanze, di credenze e di progressi tecnici, scientifici ed economici.
L’esistenza dell’evoluzione biologica e la comprensione dei meccanismi che la regolano sono stati scoperti molto recentemente; l’evoluzione culturale è invece nota agli storici da molti secoli. Il fenomeno dell’evoluzione culturale si è inoltre prepotentemente manifestato a tutti nel corso del ventesimo secolo: nell’arco della propria vita, le ultime generazioni hanno infatti potuto osservare notevoli cambiamenti culturali come, solo per citarne alcuni, la diffusione dell’istruzione pubblica ed il conseguente declino dell’analfabetismo, l’avvento delle democrazie a scapito delle monarchie e delle dittature, l’affermazione dell’emancipazione femminile e del suffragio universale, nonché la diffusione della radio, dell’automobile, della televisione, dei computer e dei telefonini.
Ognuno di noi è consapevole dell’esistenza dell’evoluzione culturale, ma non è altrettanto noto che essa segua delle leggi simili a quelle dell’evoluzione biologica. Per capire come lo sviluppo della cultura sia avvenuto ad integrazione del patrimonio genetico e quindi come anche l’evoluzione culturale sia soggetta alla selezione naturale, è bene approfondire le analogie fra le caratteristiche fisiche e culturali.

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2.a.1 – Anche la cultura dipende dalla selezione naturale?

3 Aprile 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

lavagna

         

Anche la cultura dipende dalla selezione naturale?

E’ a tutti noto che alcune caratteristiche fisiche individuali vengono ereditate dalla prole. Tale fenomeno è dovuto a dei microscopici elementi materiali, definiti geni, che vengono trasmessi dai genitori ai figli.
Allo stesso modo, determinati comportamenti, come l’uso di semplici strumenti da parte di alcuni animali, vengono insegnati dai genitori ai figli divenendo una caratteristica propria della discendenza. Tali elementi culturali vengono trasmessi di generazione in generazione e possono influire sul successo riproduttivo della discendenza esattamente come i geni.
In modo analogo ai geni, anche gli elementi culturali che risultano vantaggiosi in un dato ambiente si diffondono sempre più nella popolazione fino a diventare una caratteristica comune. Ne segue allora che gli elementi culturali sono soggetti a selezione naturale proprio come le caratteristiche fisiche e tale analogia appare così stretta da poter definire le componenti del patrimonio culturale come geni culturali.

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2.a.2 – La cultura è un patrimonio individuale o collettivo?

4 Aprile 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

cornamuse

         

La cultura è un patrimonio individuale o collettivo?

La cultura di un individuo nel suo complesso è unica e come tale è quindi paragonabile al patrimonio genetico dello stesso. Due esseri umani, benché fratelli, non possono aver ereditato la stessa sequenza genetica ed analogamente non potranno esattamente disporre delle medesime conoscenze, credenze, tradizioni, ecc…
Come il patrimonio genetico, anche quello culturale è allora chiaramente un patrimonio individuale.
Se non si considera il patrimonio genetico nel suo complesso, ma si prende in esame una sequenza parziale dello stesso, si potrà invece individuare un alto numero di individui che possiedono tale sequenza e in questo caso si parlerà di patrimonio collettivo comune a una data famiglia o a una data popolazione locale (si pensi ad esempio ai molteplici tratti di somiglianza fra cugini o a una popolazione dagli occhi a mandorla).
Se poi si considerano delle parti sempre più piccole fino ad arrivare a un singolo gene, probabilmente si scoprirà che si tratta di un bene genetico condiviso da tutta l’umanità ed anche da altre specie. Bisogna infatti sapere che oltre il 90% dei geni umani è comune a tutte le scimmie antropomorfe.
Allo stesso modo anche il patrimonio culturale può essere suddiviso in parti più piccole e tanto minore sarà la parte considerata, tanto maggiore sarà la popolazione che la condivide (si pensi alla professione di una data religione e all’usanza di indossare i pantaloni).
Se dunque è vero che ognuno di noi ha caratteristiche culturali uniche si deve anche riconoscere che una parte notevole del nostro bagaglio culturale è un patrimonio collettivo.

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2.a.3 – In che modo la cultura aiuta a sopravvivere?

5 Aprile 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

 

saldatore

         

In che modo la cultura aiuta a sopravvivere?

Di norma i cuccioli apprendono molte cose dai genitori, ad esempio come cercare il cibo, come prenderlo, come comportarsi con i propri simili, ecc.; anche noi esseri umani teniamo un analogo comportamento con i nostri figli a cui insegniamo a parlare, a relazionarsi e a rendersi indipendenti.
È stato osservato che i gatti, come i leoni, insegnano ai loro cuccioli le tecniche di caccia in fasi progressive: quando sono molto piccoli i genitori macellano per loro le prede; in seguito non lo fanno più, lasciando che imparino a farlo da soli; successivamente portano le prede ancora vive, sebbene ferite gravemente, per indurli ad imparare ad azzannare per uccidere ed infine, raggiunta la giusta età, li portano a caccia con loro come osservatori; dopo questa fase i cuccioli, ormai grandi, sono pronti a imparare a procurarsi il cibo in completa autonomia.
Gli animali pertanto non si limitano a insegnare cose utili ai loro figli, ma sono in grado di farlo con un tirocinio piuttosto complesso. La caccia infatti non è una cosa semplice: appostarsi, inseguire, aggredire e uccidere sono tutte attività complesse e aspettare che i cuccioli imparino tutto ciò da soli vuol dire esporli al rischio di morire di fame. I predatori che lo fanno sono infatti costretti a fare molti più figli per non estinguersi.
I cuccioli dei gatti allevati in cattività mostrano una inclinazione innata all’inseguimento, alla lotta e ad azzannare, ma devono esercitarsi molto in queste attività per combinarle nel modo migliore ed eseguirle con efficacia. Quello che viene definito istinto innato della caccia è in realtà una complicata combinazione di vari istinti diversi (inseguire, lottare azzannare, mangiare), di apprendimento personale (dovuto alle esperienze passate in tal senso) e di apprendimento culturale (trasferito dai genitori). Il ruolo della cultura risulta dunque chiaro nel mondo animale: essa aiuta l’apprendimento personale e l’istinto.
Come i vari organi del corpo collaborano l’un l’altro per svolgere le attività fisiologiche dell’organismo, così istinto, esperienza e cultura contribuiscono insieme alla formazione del comportamento adatto alla sopravvivenza.
Per capire se nel mondo animale un particolare modo di agire è un istinto oppure è stato appreso culturalmente, gli studiosi a volte usano separare i cuccioli dai genitori e da ogni altro loro simile alla nascita, allevandoli poi personalmente; in questo modo i cuccioli non avranno modo di apprendere la cultura tipica della loro specie e presenteranno solo atteggiamenti istintivi o appresi dall’esperienza. I risultati di tali esperimenti furono sorprendenti, per esempio si scoprì che i luì (passeriformi canterini) cresciuti in questo modo cantano istintivamente, ma in modo molto diverso dai loro simili in libertà; ogni specie di luì ha un suo canto caratteristico che dunque viene appreso culturalmente, mentre la tendenza a cantare è innata. Come la caccia dei leoni, anche il canto dei luì è frutto della collaborazione fra istinto e cultura.
La complicità fra patrimonio genetico e culturale si spinge però oltre: è infatti evidente che gli uccelli non potrebbero cantare senza un apparato vocale geneticamente evoluto a tale scopo e lo stesso si può dire del linguaggio umano. A questo punto è importante notare che tali organi sono così importanti e specializzati che non possono essersi evoluti in questa forma né prima, né dopo la comparsa del canto o del linguaggio, in quanto prima sarebbero stati inutili ed è impossibile che si siano sviluppati dopo a delle funzioni che dipendono da essi. Linguaggio e apparato vocale devono quindi essersi evoluti insieme, mutazione dopo mutazione, influenzandosi reciprocamente ed integrandosi perfettamente.
Analoghi esperimenti con le scimmie hanno mostrato che il loro modo di comunicare, di gestire i rapporti sociali e di prendersi cura dei piccoli presenta anche una fortissima componente culturale; cresciute in isolamento, esse infatti rifiutano di unirsi ad un branco, di accoppiarsi e di prendersi cura dei piccoli. Esperimenti più accurati hanno mostrato che sia nelle scimmie, sia nell’uomo, i comportamenti sociali e sessuali hanno un’origine non solo genetica, ma anche culturale.
Nel mondo animale, evoluzione genetica ed evoluzione culturale dunque non solo si somigliano, ma appaiono indissolubilmente legate, tanto che cercare di distinguerle può essere fuorviante. Ciò vale anche per l’uomo, ma non sempre; vi sono dei casi, come vedremo, in cui è invece indispensabile considerare separatamente le due tipologie evolutive al fine di un corretto esame del fenomeno.

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2.a.4 – Qual è il vero fine dell’evoluzione biologica?

6 Aprile 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

 

rugby

         

Qual è il vero fine dell’evoluzione biologica?

Esaminando il meccanismo della selezione naturale si può osservare come l’ambiente favorisca quei geni che hanno il pregio di tramandarsi in esso con più facilità. Per i geni tramandarsi significa duplicarsi e diffondersi nell’intera popolazione.
I geni non si riproducono in modo indipendente l’uno dall’altro, ma tutti insieme durante la duplicazione della molecola del DNA. Per favorire la propria diffusione devono dunque agevolare la moltiplicazione del DNA dove sono inseriti; si tratta di una sorta di gioco di squadra nel quale i giocatori devono vincere la partita della riproduzione in concorrenza con altre squadre. Ogni squadra è costituita da giocatori specializzati nel proprio ruolo e quasi tutte le squadre dispongono degli stessi giocatori per i vari ruoli; ciò avviene proprio perché i geni che risultano più adatti a svolgere una data funzione sono quelli più in grado di duplicarsi e diffondersi, sono cioè i giocatori più apprezzati sul mercato della selezione naturale, quelli che vinceranno il campionato e saranno promossi alle generazioni future. Si tratta inoltre di squadre molto numerose, composte da migliaia di geni, nelle quali vi sono sottogruppi con ruoli specifici. Per costruire un organo complesso come un occhio è infatti necessaria l’associazione di molti elementi diversi, ovvero la collaborazione di molti geni.
Vincere la partita vuol dire produrre una discendenza, vincere la concorrenza significa invece essere presenti nel maggior numero di squadre a ricoprire il proprio ruolo. In ogni caso a superare la selezione naturale sono i singoli geni o gruppi di essi, non tutta la squadra che viene leggermente modificata ad ogni partita, grazie all’incrocio sessuale. L’insieme dei giocatori comuni a tutte le squadre costituisce il patrimonio genetico della specie, la restante parte rappresenta la diversità genetica interna della specie, la quale si aggiunge al patrimonio comune aumentando la capacità di adattamento e quindi di sopravvivenza degli altri giocatori nelle generazioni future. La selezione tende naturalmente a formare la squadra migliore per giocare su uno specifico campo che è la nicchia ecologica.
Alla base di tutto vi è dunque la sopravvivenza dei singoli geni e non della prole; ciò viene confermato dall’osservazione di popolazioni di animali come per esempio le api. Le api operaie costituiscono infatti delle popolazioni specializzate all’interno della loro comunità detta alveare; esse sono tutte sterili, non si riproducono mai e tuttavia non si estinguono, il loro patrimonio genetico non scompare. Le nuove generazioni di api, come tutti sappiamo, sono generate dall’ape regina che svolge la funzione di organo riproduttore per tutto l’alveare, il quale a sua volta è una sorta di organismo dove le api operaie svolgono il ruolo delle cellule. Il patrimonio genetico delle api, come quello delle nostre cellule, si tramanda anche senza discendenza diretta e ciò significa che quest’ultima è allora solo uno dei modi possibili per realizzare la sopravvivenza dei geni.
Nel caso in cui i geni di un individuo si tramandano per discendenza diretta la loro sopravvivenza equivale alla sopravvivenza della discendenza; è il caso di gran lunga più comune, ma non l’unico: tutte le specie di formiche e di api usano un sistema alternativo. Vale la pena di sottolineare che la sopravvivenza della discendenza risulta così subordinata a quella dei geni.
Analogamente si può dire che la sopravvivenza del singolo individuo risulta a sua volta subordinata alla sopravvivenza della discendenza; qualunque mutazione che aiuti la capacità di vivere del singolo senza incrementare il suo successo riproduttivo non avrà infatti modo di diffondersi. Il singolo individuo deve vivere il tanto che basta per mettere al mondo un adeguato numero di discendenti e per renderli autonomi; è esattamente quel che accade nel mondo animale, la selezione naturale non richiede nulla di più.
Secondo la logica della selezione naturale, noi esseri viventi non siamo dunque altro che complesse macchine di conservazione, trasporto e duplicazione di geni. Tale logica mostra nuovi vantaggi nella generazione di nuove specie o varietà, poiché tanto maggiore sarà il successo evolutivo della specie originaria, tanto maggiore sarà il numero delle specie che ne deriveranno e tanto minore sarà la probabilità che il patrimonio genetico comune scompaia. Gli scimpanzé condividono circa il 98% dei geni con gli esseri umani; se si dovessero estinguere, il 98% dei loro geni sopravviverà grazie agli umani (e viceversa…).
Il vero fine dell’evoluzione biologica è dunque quello della sopravvivenza dei geni selezionati, mentre la sopravvivenza dell’individuo, della discendenza e perfino della specie sono fenomeni secondari e non sempre necessari.
Tale visione della natura umana, asservita alla sopravvivenza dei geni, è sicuramente in contrasto con la nostra vanità che ci induce a considerarci come la massima espressione del creato a cui si devono sottomettere tutte le altre forme di vita; tuttavia nulla obbliga le aspettative umane a coincidere con quelle della selezione naturale: anche la legittima aspirazione dell’uomo a proteggere la propria individuale sopravvivenza si basa su istinti naturali; bisogna essere consapevoli che non sempre la natura lavora per il nostro bene: tutti sappiamo da sempre che esistono la vecchiaia, le malattie ed i predatori e tutti da sempre ci adoperiamo per difenderci da questi mali naturali considerando ciò come una cosa altrettanto naturale.
Capire qual è il fine dell’evoluzione biologica non deve dunque deprimere l’uomo nella nuova consapevolezza del proprio ruolo nella natura, ma anzi deve costituire un’importante lezione di umiltà che lo stimoli ad adoperarsi con tutte le proprie forze per focalizzare prima e perseguire poi tutti quegli obiettivi che sono necessari per vivere e vivere meglio come individuo, come discendenza e come specie, valorizzando ciò che la natura biologica ritiene secondario. Gli esseri umani dovrebbero trarre ispirazione dal comportamento dei geni e decidersi a giocare nella stessa squadra, con maggiore sinergia e quindi con maggiore velocità nel raggiungere i suddetti obiettivi.

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2.a.5 – A cosa serve la maggiore complessità delle specie?

7 Aprile 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

pavone

         

A cosa serve la maggiore complessità delle specie?

Pur accettando che il fine dell’evoluzione biologica è quello della sopravvivenza dei geni e che la diffusione di questi in molteplici specie diverse rappresenta una strategia per il raggiungimento del suddetto fine, ci si può chiedere perché tale evoluzione abbia portato a forme di vita non solo diverse, ma sempre più complesse. La risposta si può trovare tornando alla metafora del campionato a squadre: quando le squadre sono equilibrate, ma sempre in competizione, cercheranno di mettere a punto delle nuove strategie per battere la concorrenza. Prima o poi una squadra svilupperà una nuova tecnica di gioco, più corale, più veloce, più estrosa, comunque spesso più complessa; se tale tecnica avrà successo, presto si diffonderà nelle altre squadre fino a riportare una situazione di equilibrio e allora si renderà necessario sviluppare un’ulteriore e più complessa tecnica che indurrà i competitori a fare altrettanto e così via. Le squadre che non riescono a recuperare lo svantaggio sono destinate ad estinguersi o a sopravvivere in un altro campionato a giocare con i pari livello, ma comunque in un sistema interdipendente fra tutti i livelli. E’ dunque la concorrenza che muove il meccanismo dell’evoluzione dai batteri all’uomo, portando all’attuale sinergia fra tutte le specie viventi.

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APPROFONDIMENTI
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2.a.6 – La cultura favorisce sempre la sopravvivenza?

8 Aprile 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

frate

         

La cultura favorisce sempre la sopravvivenza?

Abbiamo detto che la cultura nasce come integrazione del patrimonio genetico e che anch’essa è soggetta alla selezione naturale; dato che, per la selezione naturale, la sopravvivenza del singolo, della discendenza e della specie sono secondarie rispetto a quella dei geni, analogamente lo saranno anche rispetto ai geni culturali.
Quanto appena affermato ci porta a ribaltare il normale concetto di cultura intesa come strumento al servizio della nostra vita e tuttavia, anche in questo caso, l’importante è sapere che non sempre la cultura, in quanto selezionata dalla natura, lavora per il nostro bene, poiché in tal modo potremo difenderci in modo adeguato.
Vediamo ora come si evolve la cultura nella società umana ed esaminiamo un caso limite: in alcune tradizioni religiose i sacerdoti fanno un voto di castità che impedisce loro di riprodursi e tuttavia essi non si estinguono. Da millenni apposite scuole formano nuove generazioni di sacerdoti che non sono la discendenza genetica delle precedenti, ma che costituiscono la loro discendenza culturale; i nuovi sacerdoti nascono come tali grazie all’insegnamento dei loro professori, i quali svolgono un ruolo analogo all’ape regina, cioè quello di organo di riproduzione, in questo caso culturale, dando origine a una nuova generazione di sacerdoti; questi ultimi a loro volta non si riprodurranno, esattamente come le api operaie, ma alcuni di essi ricopriranno il ruolo di nuovi professori che assicureranno il futuro della categoria.
Tale fenomeno non è ristretto ai soli sacerdoti, anzi oggi è esteso a quasi tutte le categorie della complessa società umana, tanto che ogni anno le scuole e le università formano nuove generazioni di professionisti. Per esempio i medici spesso non sono figli di altri medici e allo stesso tempo, non facendo voto di castità, avranno dei figli i quali a loro volta sceglieranno il mestiere che preferiranno. Lo stesso possiamo dire dei commercialisti, dei poliziotti e di ogni altra categoria professionale.
Passando dal mondo animale a quello della società umana siamo perciò obbligati a distinguere fra discendenza genetica e discendenza culturale poiché spesso non coincidono.
Nel mondo animale le due forme di discendenza coincidono quasi sempre e quindi geni e cultura si integrano a vicenda: la selezione naturale premia il successo riproduttivo genetico, tale successo permette di tramandare la cultura di famiglia, come per esempio le varie tecniche di caccia, la cultura tramandata a sua volta agevola una nuova riproduzione e così via in perfetta armonia.
Si può allora concludere che nel mondo animale le componenti culturali giocano la stessa partita e nella stessa squadra delle componenti genetiche; esse producono infatti la stessa discendenza e saranno di conseguenza selezionate in modo da integrarsi perfettamente. Dato che entrambe le componenti hanno sempre lo stesso fine, esse in modo coerente sosterranno sempre insieme sia la sopravvivenza individuale, sia quella della specie.
Nel caso dell’uomo invece, quando la discendenza genetica è diversa da quella culturale, tale sinergia può venir meno: per esempio, un aumento della fertilità degli ingegneri non è detto che aiuti il progresso tecnologico e a sua volta un incremento della tecnologia non è detto che favorisca la fertilità degli ingegneri. Queste banalità, pur indubbiamente risibili, devono far riflettere su come, nella società umana, le componenti culturali possono rompere l’originario legame con quelle genetiche e avere fini diversi; si può persino giungere ad un netto contrasto fra le due necessità riproduttive, come nel caso dei sacerdoti la cui tradizione culturale impone il blocco della riproduzione genetica.

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2.a.7 – La velocità di diffusione della cultura incide sul legame con la sopravvivenza?

9 Aprile 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

fumatore

         

La velocità di diffusione della cultura incide sul legame con la sopravvivenza?

Quando la cultura non si trasmette lungo la linea di discendenza familiare, ma si diffonde liberamente all’interno della comunità, la selezione naturale della cultura favorirà il proliferare della sola discendenza culturale, la quale risulterà indipendente da quella genetica; inoltre, in base alla velocità della diffusione della cultura, si perde anche il legame con la sopravvivenza fisica dei discendenti culturali.
Sappiamo già che, da un punto di vista genetico, la selezione naturale richiede che il singolo esemplare viva quel tanto che basta per generare un buon numero di discendenti; vivere più a lungo può essere utile per avere più figli e analogamente, per diffondere una tradizione culturale complessa che implica lunghi tempi di apprendimento, come nel caso delle arti marziali, l’allungamento della vita dell’insegnante incrementerà la discendenza culturale. In questa situazione la selezione naturale agevolerà tutte quelle varianti culturali che favoriscono la vita dell’insegnante al fine di espandere la discendenza culturale. Se invece si considera una innovazione semplice e banale, facile da imitare come l’uso di un nuovo tipo di profumo, allora la novità potrà diffondersi a tutto il gruppo in breve tempo e una lunga vita sarà inutile per aumentare i seguaci della nuova moda.
In caso dunque di componenti culturali dalla rapida espansione, la selezione naturale non avrà motivo di privilegiare quelle che favoriscono la vita dell’individuo; in alcuni casi potrà anzi agevolare quelle che portano alla morte dell’individuo pur di assicurare la diffusione di una data componente culturale che, in quanto scollegata dal fine genetico della sopravvivenza e della riproduzione dell’individuo stesso, tende a perseguire con ogni mezzo la propria sopravvivenza e la propria diffusione. Si pensi al caso del fumo: l’uomo fuma per dipendenza psicofisica, ma inizia a fumare a causa della componente culturale che identifica nella sigaretta il concetto di passaggio all’età adulta, quello di appartenenza a un gruppo, quello di ribellione ai divieti imposti, ecc.; il fine della cultura della sigaretta è quello di sopravvivere e diffondersi senza curarsi delle statistiche sui morti per fumo. Ecco trovato un esempio in cui la cultura non è subordinata e al servizio della nostra sopravvivenza, ma è la nostra vita che è subordinata e al servizio della diffusione di un data cultura.
Le mode che si diffondono con rapidità hanno pertanto un legame con la nostra vita simile a quello delle malattie: esse hanno bisogno che i malati siano vivi, ma solo per il tempo necessario a contagiare altre persone. Per un’antilope, un virus influenzale può essere letale in pochi giorni perché la espone maggiormente all’attacco dei predatori, ma ciò non impedisce al virus di diffondersi, vista la sua elevata velocità di contagio; al contrario, il temutissimo virus dell’aids ha bisogno di tempi molto più lunghi per contagiare lo stesso numero di individui e allora non è un caso che abbia un periodo di incubazione di oltre dieci anni: non può permettersi di ucciderci più rapidamente, se lo facesse si estinguerebbe subito come un fuoco di paglia, non avrebbe il tempo di diffondersi.
Nella società umana la cultura si può dunque espandere come un’epidemia, il suo successo non dipende dal successo riproduttivo dei geni, essa non gioca più nella loro stessa squadra; di fatto tutto procede come se tali usanze vivessero di vita propria, ma l’analogia con i virus e le epidemie, pur molto calzante per spiegarne i meccanismi di diffusione, non deve indurre a pensare che il fenomeno sia sempre e solo negativo. La veloce diffusione di una data cultura può essere nociva alla sopravvivenza dell’uomo, ma un’altra può essere innocua o addirittura benefica; sappiamo tutti che l’usanza di assumere droghe porta ad una morte prematura, che un cambio di stile nell’abbigliamento è una moda culturale fondamentalmente innocua e che una quotidiana pulizia dei denti è una sana abitudine, ma in tutti i casi tali componenti culturali si sono diffuse con successo e soprattutto con grande rapidità, indipendentemente dal loro impatto sulla sopravvivenza dell’individuo o della specie e a riprova del completo scollegamento con i fini biologici.

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2.a.8 – Cosa dirige la rapida diffusione delle novità culturali?

10 Aprile 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

tatuaggi

         

Cosa dirige la rapida diffusione delle novità culturali?

Dato che le usanze culturali godono di vita propria, per studiare l’influenza sulle stesse da parte della selezione naturale, si deve esaminare il loro ambiente di vita e non il nostro; nell’evoluzione genetica l’ambiente è ciò che determina il successo o il fallimento delle mutazioni biologiche e analogamente, in ambito culturale, è ciò che determina il successo delle innovazioni nelle usanze.
Per definizione, il successo di una nuova moda è dato dal gradimento che incontra nella popolazione; in altre parole, se la nuova usanza piace si avrà un successo nella diffusione della stessa. È interessante notare che le nostre scelte, così come i nostri comportamenti, dipendono sia da fattori genetici, sia da esperienze personali, sia dal retaggio culturale. Per esempio, l’uso dell’aria condizionata si è diffuso grazie all’istintivo desiderio di sfuggire al caldo opprimente delle estati afose; chi ha avuto una brutta esperienza in aereo preferirà viaggiare in treno; un musulmano, scegliendo il cibo in un ristorante, scarterà la carne di maiale come richiede la sua religione. Ecco dunque individuato l’ambiente dove vivono gli usi e i costumi umani: è il contesto socio-culturale del quale facciamo parte.
È importante notare che non effettuiamo collettivamente una selezione intenzionale sulla cultura, bensì operiamo delle scelte personali per soddisfare delle esigenze individuali ed in questo modo partecipiamo inconsapevoli alla selezione naturale.
Il caso della selezione artificiale dei moderni allevatori è ben diverso: essi effettuano le loro scelte in base ad obiettivi finali ben chiari e successivamente operano la selezione con coerenza e continuità fino a raggiungere il loro scopo. La selezione artificiale non è dunque la combinazione casuale delle scelte, magari operate una volta sola, di tanti allevatori diversi, ma esattamente l’opposto.
Bisogna però riconoscere che da qui ad una vera e propria selezione artificiale della cultura il passo è decisamente breve: è ciò che si cerca di fare con le campagne di sensibilizzazione contro il fumo o contro l’uso di superalcolici il sabato sera; è ciò che da sempre si fa con la pubblicità in ambito commerciale, cercare cioè di diffondere l’uso dei nuovi prodotti. Numerosi studi sono stati fatti dagli psicologi per rendere la pubblicità sempre più efficace e non vi sono dubbi che per lanciare un nuovo prodotto una buona tecnica è fare leva su emozioni primordiali come l’attrazione sessuale, la paura, la vanità o persino l’altruismo; si noti però che con queste tecniche si possono vendere tanto i prodotti di ottima qualità quanto quelli di pessima.
Gli stessi fattori emotivi influenzano naturalmente il successo delle nuove varianti culturali: l’uso delle sigarette e delle bevande alcoliche si fonda sulla naturale tendenza al rituale sociale dell’essere umano; l’uso degli antibiotici sulla paura della morte e del dolore; il fenomeno delle adozioni a distanza sul senso di protezione verso i bambini. È interessante ricordare che nei secoli passati molte pratiche mediche non avevano alcun effetto sulle malattie o addirittura peggioravano la situazione; tuttavia esse venivano accettate perché comunque aiutavano a trovare conforto e speranza contro la paura della morte alimentando l’effetto placebo. Persino varianti culturali che si diffondono grazie all’istinto di autoconservazione e al desiderio di benessere possono quindi risultare dannose per la sopravvivenza dell’individuo.
In molti casi però tali varianti soddisfano correttamente le nostre aspirazioni; ne sono una prova le cure della scienza medica attuale ed innumerevoli innovazioni tecnologiche che hanno elevato la qualità della nostra vita; in questi casi possiamo dire che veramente la cultura è al servizio della nostra vita, ma ricordiamoci che non si tratta di una regola generale e sempre valida.

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2.a.9 – La cultura è legata al gruppo?

11 Aprile 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

alveare

         

La cultura è legata al gruppo?

Esaminiamo il caso di una popolazione di branchi di scimmie e poniamo che siano isolati culturalmente; una nuova variante culturale che comparisse in uno di essi, come un nuovo segnale di pericolo, potrà espandersi velocemente in tutto il branco, ma a questo punto dovrà fermarsi per l’ipotesi di isolamento culturale; per espandersi ulteriormente dovrà attendere che il branco, divenendo sempre più numeroso, si divida in due gruppi più piccoli. Una variante negativa porterà il branco verso l’estinzione mentre una positiva favorirà la sua crescita e moltiplicazione. Questo caso è dato dalla combinazione delle due modalità di trasmissione della cultura già esaminate (la tradizione familiare e la libera diffusione) e merita di essere esaminato a parte in quanto questi geni culturali risultano legati alla sopravvivenza del gruppo, non sono indipendenti, giocano nella squadra della comunità e non dell’individuo; essi sono un patrimonio sociale, ma non si curano del singolo individuo se non in funzione della comunità. L’equivalente genetico è dato nuovamente dalle api e dalle formiche: esse non esitano a sacrificare la propria vita per proteggere la propria comunità ad ogni accenno di pericolo; esse si riproducono per via indiretta, i loro geni giocano tutti nella squadra della comunità e passano alla generazione successiva quando si riproduce l’alveare od il formicaio; le api vivono per l’alveare e non viceversa e lo stesso avviene per le nostre cellule per lo stesso motivo. Questa forma di cultura si può dunque definire come cultura della subordinazione alla comunità.
Un totale isolamento culturale è un caso assai raro, invece è molto frequente che una componente culturale non possa facilmente uscire dal gruppo, tanto che la sua diffusione sia affidata principalmente alla riproduzione della comunità; in questo caso essa subirà una selezione analoga al caso dell’isolamento totale.
Per gran parte della sua storia l’umanità è vissuta in tribù con un notevole isolamento culturale ed ancora oggi la cultura della subordinazione al gruppo è parte integrante del nostro patrimonio culturale: il patriottismo e il nazionalismo ci guidano verso il sacrificio estremo per la patria; l’eroe guerriero è una figura onorata nella stragrande maggioranza delle culture. Nell’era industriale le cose sembrano essere anche peggiorate: nel periodo nazista, la cultura del cittadino che vive per lo Stato fu talmente estremizzata che, per il bene dello Stato, cioè delle sue capacità produttive e belliche, si stabilì politicamente che i medici dovevano sopprimere i bambini tedeschi di salute cagionevole, ovviamente all’insaputa dei genitori per evitare disordini e proteste nocive allo Stato stesso. Concezioni di questo tipo in realtà sono molto antiche: è noto che nell’antica Sparta i neonati venivano esaminati per stabilire se fossero promettenti soldati e, in caso negativo, venivano eliminati. Dopo tale selezione tutta la vita era comunque concepita in funzione del servizio per la patria come militari.
La cultura della subordinazione alla comunità si è però sviluppata anche per esigenze economiche oltre che militari: con il primo sviluppo industriale presto si teorizzò che lo sfruttamento degli operai fosse un sacrificio necessario per il benessere della società e per lo sviluppo economico del Paese; lo schiavismo negli Stati Uniti venne giustificato in modo assai simile.
Un analogo modello di diffusione culturale si può presentare anche in piccoli sottogruppi di una grande comunità: lo sviluppo di una nuova tecnologia sostiene l’azienda che l’ha prodotta, la quale a sua volta la diffonderà a fini commerciali; una tecnologia che non incrementa gli affari non aiuta la propria azienda e questa non la diffonderà; ecco che un fenomeno culturale, la nuova tecnologia, è legato alla sopravvivenza della sua azienda e viceversa.
Le aziende sono piccole comunità che difendono la propria sopravvivenza dalla spietata concorrenza nell’ambiente chiamato mercato e allora non è un caso che nelle aziende di successo sia comune una cultura di dedizione nei loro confronti da parte dei dipendenti. Questa cultura viene premiata dalla selezione naturale operata dalla concorrenza e, nella propria evoluzione, porta allo sfruttamento dei dipendenti e dopo anche a quello dei proprietari: è oramai un classico la figura dell’imprenditore di successo che dedica la sua vita al lavoro sacrificando tempo libero e famiglia; egli ha identificato la sua sopravvivenza con quella della sua attività, il successo imprenditoriale ha dunque preso il posto di quello genetico ed il benessere personale è stato sostituito dal benessere dell’azienda.

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2.a.10 – Qual è il ruolo della consapevolezza umana?

12 Aprile 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

analisi

         

Qual è il ruolo della consapevolezza umana?

Vi è una notevole differenza fra l’evoluzione genetica e quella culturale nell’uomo: il necessario coinvolgimento nella seconda della coscienza umana; le innovazioni spesso non sono mutazioni casuali, ma ragionate risposte che un individuo ha dato ai problemi che gli si sono presentati; il successo di tali innovazioni dipende poi dalle scelte volontarie, sebbene poco consapevoli, che altri esseri umani faranno.
L’accumulo di conoscenze, pur essendo una tendenza naturale dell’umanità, viene anche incentivato culturalmente: il sapere, la scienza, lo studio e l’istruzione sono ormai valori consolidati della nostra tradizione culturale. Oggi il progresso scientifico ci permette di capire meglio l’evoluzione della cultura e la consapevolezza circa la sua dipendenza dalle nostre scelte ci dà la possibilità di guidarla facilmente a nostro vantaggio, operando una sorta di selezione artificiale.
Utilizzare la cultura per soddisfare esigenze personali è una pratica antica quanto l’uomo e forse anche di più: sappiamo oggi con certezza che anche gli ominidi avevano sviluppato una tecnologia di un certo livello, per quanto oggi appaia rudimentale; con l’esaltazione degli opportuni ideali, quali il patriottismo, la devozione religiosa, il razzismo e il campanilismo, i capi politici da sempre cercano di guidare culturalmente il proprio popolo per rafforzare il proprio potere e le proprie ricchezze: ne sono un esempio le guerre di conquista in nome della religione, del prestigio nazionale e, in tempi più recenti, della democrazia. Anche il metodo scientifico sperimentale può essere visto come una selezione volontaria fra diverse teorie per descrivere correttamente la natura.
Il maggior grado di istruzione che si è andato diffondendo dopo la rivoluzione industriale, in particolare lo studio della storia, della filosofia, della biologia e della psicologia, può consentire oggi a larghe fasce della popolazione di poter scegliere fra modelli culturali diversi per tutelare i propri interessi personali ed anche di studiarne di nuovi; tuttavia le frequenti guerre, la mancanza di reale democrazia, l’inquinamento e lo sfruttamento economico dei paesi poveri mostrano che la cultura della subordinazione alla comunità è ancora dominante rispetto a quella del benessere personale.

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2.a.11 – Quali sono le vie lungo le quali si sviluppa l’evoluzione culturale?

13 Aprile 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

pompieri

         

Quali sono le vie lungo le quali si sviluppa l’evoluzione culturale?

Possiamo dire che abbiamo individuato quattro vie principali sulle quali si sviluppa l’evoluzione culturale:
• La via della tradizione familiare, che porta la cultura ad integrarsi perfettamente con il patrimonio genetico e a tutelare con esso la sopravvivenza della discendenza;
• La via della diffusione sociale tendenzialmente epidemica, che porta le componenti culturali a vivere di vita propria come virus culturali;
• La via della diffusione tribale o di subordinazione alla comunità, che porta gli individui a dedicare la vita al gruppo sociale;
• La via dell’uso consapevole o della selezione artificiale della cultura, che può sfruttare la cultura per qualunque fine, compreso il benessere individuale (oppure il male altrui…).
La conoscenza di questi quattro binari fondamentali su cui corre l’evoluzione ci può aiutare a capire in quale squadra giocano le nostre abitudini, le nostre credenze e i nostri ideali e quindi ad operare a nostra volta una selezione con cognizione di causa per curare anche i nostri interessi personali.

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Capitolo 2.b

14 Aprile 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

                                    

LA STORIA CULTURALE

Guardiamoci ancora indietro; se proviamo a fare una ricostruzione storica dell’evoluzione culturale, come è stato fatto per l’evoluzione biologica, scopriremo con sorpresa delle difficoltà ancora maggiori, in quanto la cultura non lascia tracce fossili o genetiche. Capire come si è sviluppato questo patrimonio, così importante per la nostra vita, ci può aiutare a capire la sua natura, il suo ruolo, i suoi limiti e le sue potenzialità per il futuro.

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CONCETTI IN MUSICA
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2.b.1 – Quali sono le origini della cultura?

15 Aprile 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

 

imitazione

        

Quali sono le origini della cultura?

Dall’osservazione della trasmissione culturale negli animali si possono sviluppare delle ipotesi su come sia nata la nostra storia culturale: sappiamo che gli animali imparano dal mondo che li circonda; i cuccioli dei mammiferi imparano anche dai genitori e ciò può avvenire perché la madre, e a volte anche il padre, passano molto tempo con essi dopo la nascita per nutrirli e proteggerli. Il rapporto genitore-figlio, nato per la protezione ed il nutrimento, ha assunto poi anche un ruolo educativo.
È noto che, nelle tradizioni familiari, il patrimonio genetico e culturale evolvono assieme integrandosi perfettamente; ciò nel tempo ha portato a sviluppare una predisposizione genetica dei cuccioli ad imparare dai genitori e dei genitori ad insegnare alla prole.
Dall’innata curiosità dei cuccioli, dalla voglia di giocare (esercitandosi al movimento, alla lotta, ecc.), dall’istinto di esplorare il mondo e dalla necessità di seguire i genitori in cerca di sicurezza, si sono sviluppati nuovi comportamenti: esplorare il mondo sotto la guida dei genitori, curiosare su quello che fanno ed infine imitarli.
Lo sviluppo dell’imitazione non è stato un passo semplice; molti animali, pur dotati di buone capacità di apprendimento derivato dall’esperienza, si trovano in grandi difficoltà ad imitare le strategie degli altri; ciò induce a pensare che l’imitazione sia un’attività molto più complessa di quanto non sembri e che pertanto richiede lo sviluppo di nuove capacità da parte del cervello. Alcuni studi inoltre mostrano che, nel mondo animale, all’imitazione viene in genere abbinata una forte componente di sperimentazione personale, si imita cioè il minimo indispensabile per poi procedere da soli; ciò dimostra come l’imitazione sia per gli animali una attività molto impegnativa e costosa che va limitata il più possibile.
Quando si svilupparono i primi branchi di mammiferi, si aprirono nuove frontiere per l’imitazione e lo sviluppo della cultura: da allora infatti i cuccioli ebbero la possibilità di imparare da tutti i membri del branco e non solo dai genitori; questa opportunità, che nella maggioranza dei casi viene sfruttata solo occasionalmente ed è quindi rimasta una risorsa marginale nel mondo animale, è invece alla base di molti sviluppi della cultura umana.
Anche nei genitori si svilupparono dei cambiamenti: alle amorevoli cure parentali verso i cuccioli si aggiunsero nuove capacità di insegnamento; i mammiferi infatti giocano spesso con i loro piccoli rendendo così il gioco ancora più istruttivo; durante il gioco i genitori hanno la possibilità di mostrare, anzi ostentare, i giusti atteggiamenti e comportamenti, come i papà che giocano a palla con i propri figli o li aiutano nelle costruzioni con i mattoncini di plastica; va inoltre ricordata l’importantissima capacità di premiare o di punire i cuccioli secondo la loro condotta: i premi discendono direttamente dalle coccole delle cure parentali; le punizioni derivano invece dagli atteggiamenti aggressivi, tipici degli scontri fra adulti, opportunamente e profondamente modificati per non ferire gravemente i piccoli.
Nelle scimmie i piccoli vivono la prima parte della vita perennemente aggrappati alla madre; durante questa fase, con un contatto così intimo e fisso, i cuccioli hanno modo di imparare molte cose: come interpretare il comportamento della madre e dei membri del branco, come gestire le pubbliche relazioni e la convivenza nella comunità, quali sono i frutti migliori, come costruire un riparo, come usare alcuni strumenti, come riconoscere e produrre i segnali tipici della propria specie fino ad usare un vero e proprio linguaggio fatto di gesti e suoni, sebbene non articolati in modo tale da formare un discorso complesso.
Gli animali che dimostrano più capacità di imitazione, più capacità di comunicazione e anche una maggiore intelligenza, come i pappagalli, i delfini e le scimmie, sono tutti animali sociali; questo indica che la socialità e la vita di branco sono premesse importanti e necessarie, anche se non sufficienti, per lo sviluppo delle suddette capacità. Queste risultano peraltro strettamente collegate: nelle comunità la comunicazione viene spesso realizzata con un codice convenzionale, trasmesso culturalmente, che richiede una qualche forma di imitazione e di intelligenza.
Dall’osservazione del mondo attuale non possiamo osservare le fasi successive della nostra storia culturale in quanto tutti i nostri parenti più stretti, gli ominidi, sono estinti da tempo. 

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2.b.2 – Cosa è cambiato passando dalla cultura animale a quella umana?

16 Aprile 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

espressione

        

Cosa è cambiato passando dalla cultura animale a quella umana?

Anche se non siamo in grado di ricostruire con precisione i passaggi evolutivi della cultura umana in era preistorica, è di fondamentale importanza riflettere sulle peculiarità culturali che ci distinguono dagli animali, con particolare riferimento ai nostri cugini più prossimi, cioè alle scimmie:

• le innovazioni nella cultura umana si accumulano con facilità; per esempio, la prima lampadina fu frutto del genio di Edison, ma anche di chi ha inventato e perfezionato la lavorazione del vetro e dei metalli, nonché di chi ha scoperto l’elettricità; tutte queste conoscenze, accumulandosi, hanno permesso a Edison di creare la sua più celebre invenzione. Un aspetto specifico e fondamentale della cultura umana è dunque quello di essere una cultura cumulativa; negli animali tale fenomeno risulta essere un evento sconosciuto o eccezionale;

• nell’uomo lo sviluppo fisico dei piccoli è molto più lento e ciò obbliga i genitori a prendersi cura di loro per molti anni; durante questo lungo periodo i bambini hanno però il tempo di imparare il grande e complesso patrimonio culturale accumulato dalla propria comunità; per l’insegnamento viene inoltre impiegato anche del personale specializzato al di fuori della famiglia;

• le comunità umane sono molto più numerose di quelle delle scimmie ed in esse troviamo numerose forme di specializzazioni culturali che formano un sistema molto complesso basato sulla collaborazione lavorativa;

• la struttura sociale del gruppo umano è molto diversa da quella delle scimmie; non si tratta di un unico grande nucleo familiare, ma di un aggregato di piccoli nuclei, in genere formati da un solo maschio e una sola femmina con un numero limitato di figli.

• un aspetto importante della cultura umana è dato dalla creazione di strumenti sofisticati in continua evoluzione; si ricordi che ciò è possibile grazie alla capacità di manipolazione;

• una parte notevolissima della cultura umana è formata da concetti astratti come i numeri, l’onore, la giustizia e la responsabilità;

• gli esseri umani comunicano con le parole; il linguaggio è il principale canale di trasmissione con cui si tramanda il patrimonio culturale umano fatto di concetti complessi e astratti;

• un’altra forma di comunicazione particolarmente sviluppata è quella basata sulla mimica facciale; il viso umano si è modificato per essere usato come strumento di segnalazione: gli occhi umani mostrano la parte bianca attorno all’iride e ciò consente di seguire lo sguardo e le sfumature delle espressioni anche a notevole distanza; le sopracciglia folte ed isolate sulla pelle glabra sono usate come bandierine di segnalazione visiva in mille espressioni; lo stesso vale per le labbra che hanno un confine e un colore nettamente marcati e permettono di esaltare ogni loro piccolo movimento.
Al momento non sono note le esigenze evolutive che hanno causato questi cambiamenti, possiamo solo fare congetture in base all’uso che viene fatto attualmente, o veniva fatto in un recente passato, di queste innovazioni.

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2.b.3 – Quale cultura avevano i primi ominidi?

17 Aprile 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

 

savana

        

Quale cultura avevano i primi ominidi?

Una struttura sociale complessa in genere corrisponde a delle forme di comunicazione elaborate e queste, a loro volta, stimolano lo sviluppo delle capacità di imitazione e dell’intelligenza. Anche a parità di numero, una piccola comunità umana appare più complessa, socialmente parlando, di un branco di scimmie: essa infatti è formata da vari nuclei familiari ben distinti; il capo branco non coincide più con il capo famiglia; maschi e femmine formano coppie fisse e collaborano nelle cure parentali durante la lunghissima infanzia dei loro bambini; i maschi dominanti, sia pur mantenendo una certa rivalità, collaborano regolarmente fra loro in varie attività come la caccia o il lavoro. Durante l’evoluzione degli ominidi si è verificata quindi una vera e propria rivoluzione sociale.
I più antichi resti fossili di ominidi indicano che il loro sviluppo potrebbe essersi separato da quello delle scimmie antropomorfe in seguito ad un radicale cambiamento climatico nella Rift Valley in Africa. Da una foresta di tipo tropicale si passò ad una savana e, nonostante la presenza in quella zona di alcuni grandi laghi, presenza che attenuò molto il problema della siccità, un cambiamento alimentare e quindi anche del comportamento fu inevitabile. La presenza dei laghi in una regione relativamente povera di acqua potrebbe inoltre aver indotto i nuclei familiari ominidi a concentrarsi attorno ad essi, ma questa convivenza forzata può aver causato una minore disponibilità di cibo e aver dato origine a una successiva riduzione delle dimensioni dei nuclei familiari e alla collaborazione fra gli stessi per sfruttare al meglio le risorse disponibili, a cominciare dalla caccia di gruppo. Dalla loro dentatura si può dedurre che erano onnivori e quindi si arrangiavano a mangiare un po’ di tutto, mentre il rinvenimento di utensili in pietra scheggiata, risalenti alla loro epoca, conferma l’ipotesi di una loro attitudine all’uso di strumenti; nulla sappiamo però delle loro tecniche di caccia o della loro struttura sociale; possiamo, come sopra, solo fare delle ipotesi fantasiose, ma al momento non verificabili.
L’uso di semplici strumenti di pietra viene attribuito anche all’homo habilis, i cui resti più antichi risalgono a quasi due milioni di anni fa e che rappresenta uno dei primi ominidi del genere homo. Dalla forma del suo cranio possiamo dedurre che il suo cervello era più grande di quello degli australopitechi e che forse erano già presenti le aree cerebrali dedicate al linguaggio. Se accettiamo l’idea che l’intelligenza e il linguaggio sono legate alla collaborazione e a una struttura sociale complessa, risulta plausibile che l’homo habilis praticasse la caccia di gruppo e che vivesse in una comunità multifamiliare tipicamente umana; si tratta, ancora una volta, di ipotesi tutte da verificare.
Dai resti fossili sappiamo invece che le altre due specie umane, di poco più recenti, l’homo ergaster e l’homo erectus, avevano entrambi sviluppato vari adattamenti anatomici alla corsa: gambe e tendini di Achille più lunghi, un appropriato arco plantare, un tallone più grande e un’apposita cresta nucale per la stabilità del cranio durante la corsa. I loro strumenti in pietra risultano più raffinati, grazie a una lunga e impegnativa lavorazione e sembra inoltre accertato che l’homo erectus riuscisse a controllare il fuoco. Il loro cervello era nettamente più grande e il loro viso era molto più simile a quello dell’uomo attuale avendo perso molte caratteristiche scimmiesche. È stato inoltre possibile stabilire che lo sviluppo dei piccoli dell’homo erectus era nettamente più lento rispetto agli australopitechi, sebbene più rapido che nell’uomo attuale. Tutti questi dati oggettivi suggeriscono che molti dei cambiamenti socioculturali di cui abbiamo fatto cenno si siano storicamente verificati fra i primi ominidi e l’homo erectus; quest’ultimo infatti aveva già il fisico e gli strumenti per essere un buon cacciatore di gruppo; la lunghezza della sua infanzia, nonché la grandezza e la forma del suo cervello, ci indicano che avesse un notevole patrimonio culturale da imparare e una complessa vita sociale da gestire; la struttura ossea del suo viso, simile alla nostra, lascia supporre che avesse anche una simile espressività facciale e ciò sarebbe una ulteriore conferma di relazioni sociali molto complesse. Oltre alla caccia di gruppo anche la necessità di difendere il territorio da gruppi rivali può aver alimentato il bisogno di una maggiore collaborazione all’interno del gruppo.
Nell’homo erectus troviamo anche un’altra caratteristica in comune con l’uomo attuale: la sua distribuzione geografica, che dall’Africa si estese fino alla Cina mentre, per quanto ne sappiamo, gli ominidi precedenti vissero in regioni molto più limitate come le attuali scimmie antropomorfe; anche questa può essere considerata una conferma dell’alto livello di efficienza di queste antiche società umane. La stretta collaborazione che doveva esistere all’interno di questi gruppi tribali rese più utile e più facile la circolazione della cultura entro la comunità e da questa base si sviluppò quel tipo di cultura che oggi consideriamo tipicamente umana.

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2.b.4 – Lo sviluppo della cultura cumulativa è dovuto all’instabilità climatica?

18 Aprile 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

ghiacci

        

Lo sviluppo della cultura cumulativa è dovuto all’instabilità climatica?

Con una datazione di circa 500 mila anni fa si iniziano a ritrovare tracce di manufatti nettamente più complessi dei precedenti, in quanto composti di più parti (come lance dalla punta di pietra oppure asce con manico); questi utensili presentano inoltre delle differenze secondo la regione e secondo l’epoca e ciò rivela che erano frutto di un susseguirsi di modifiche operate da artigiani diversi. L’accumularsi di mutazioni culturali, fenomeno prima assente o eccezionale, da allora sembra diventato una regola fissa nella cultura umana.
Si ignora la causa di questo importantissimo cambiamento, ma sappiamo che gli ominidi di questo periodo mostrano un ulteriore sviluppo della massa cerebrale e dei cambiamenti alla base del cranio che rendono plausibile uno spostamento della laringe e una modifica dell’apparato vocale.
Dall’esame dei ghiacci polari risulta inoltre con certezza che tale periodo storico fu caratterizzato da una grande instabilità climatica; cambiamenti relativamente rapidi alternarono periodi glaciali con altri temperati ed anche all’interno di questi periodi vi furono grandi oscillazioni della temperatura media; questi repentini cambi climatici potrebbero aver costituito un impulso decisivo a sfruttare al massimo le capacità di adattamento culturale in quanto molto più rapido di quello genetico.
Possiamo comunque notare tre importanti caratteristiche della cultura cumulativa:
• consente un adattamento culturale più comodo e rapido, poiché modificare strumenti ed usanze già esistenti è più facile che crearne di nuovi;
• la combinazione di elementi culturali semplici permette di formare una grande varietà di nuove soluzioni per nuovi problemi, esattamente come con le lettere dell’alfabeto si possono comporre un numero enorme di parole; il vantaggio evolutivo è enorme e porta il patrimonio culturale a diventare da semplice integrazione di quello genetico a colonna portante dell’evoluzione successiva;
• le innovazioni culturali cumulative dipendono sempre meno dalle mutazioni genetiche e sempre più dalla precedente storia culturale accumulata; si ha quindi la tendenza ad una maggiore autonomia rispetto al patrimonio genetico.
Tutto ciò ha avuto anche un costo: dallo studio delle ossa sappiamo che, nel periodo storico considerato, il tempo necessario per raggiungere la maturità si allungò ulteriormente fino a raggiungere, con l’uomo di Neanderthal e l’uomo attuale, i venti anni circa. Tale lunghissimo periodo di apprendistato impone ai genitori un sacrificio maggiore in termini di tempo ed energie.

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Domenica 19 aprile 1309

19 Aprile 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

chiarine e gagliardetti

SQUILLINO LE TROMBE!

Oggi è festa nel Villaggio di Ofelon!

A due mesi dalla fondazione del Villaggio di Ofelon
oltre undicimila “viandanti telematici”
hanno visitato il Villaggio.
vi aspettiamo tutti con piena cittadinanza, muniti del vostro avatar,
per ampliare sempre di più la nostra tavola rotonda
in cui vogliamo confrontarci su temi importanti,
ma sempre divertendoci insieme
e fino a raggiungere risultati concreti
per un effettivo, diffuso e percepito miglioramento
della qualità della nostra vita.

Ofelon per tutti
e tutti per Ofelon!

logo_ofelon_60_colore

 

2.b.5 – I rituali e le parole sono degli strumenti culturali?

20 Aprile 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

rituali

        

I rituali e le parole sono degli strumenti culturali?

La crescente importanza della trasmissione del sapere ha stimolato l’evoluzione di due fondamentali strumenti specifici: i rituali e il linguaggio verbale.
Gli antropologi dell’ottocento e del novecento hanno svolto numerosi studi sulle comunità umane di stampo più antico, cioè quelle con un’economia basata ancora sulla caccia e la raccolta come le tribù del Nord America, della foresta amazzonica, dell’Indonesia e dell’Australia. Venne osservato che una caratteristica comune di tali culture era l’organizzazione di celebrazioni rituali a cui partecipava tutta la comunità; sebbene ogni popolazione abbia un suo modo particolare di celebrare feste o cerimonie religiose, tutte lo fanno con una enorme varietà di riti, preghiere, balli, canti, banchetti e anche gare sportive.
La moderna psicologia ci dice che questi rituali rafforzano l’identità di gruppo e aiutano a sviluppare la solidarietà, la collaborazione e l’amministrazione della vita sociale. La loro importanza è tale che spesso assumono un carattere sacro.
Molti rituali richiedono doti notevoli di affiatamento, imitazione ed apprendimento, doti che sappiamo essenziali per la vita dell’essere umano; per esempio, nei balli di gruppo si possono ostentare le suddette qualità assieme ad altre doti fisiche come forza ed agilità. Oltre ad essere spettacoli divertenti, utili a rinsaldare i rapporti sociali, si prestano spesso a svolgere un ruolo nel corteggiamento.
I rituali che coinvolgono tutta la comunità hanno un ruolo prevalentemente sociale e sono appunto detti riti sociali, ma in ogni attività umana possiamo trovare dei piccoli rituali che possiamo chiamare procedure di lavoro: un cuoco che prepara un piatto di spaghetti secondo una precisa ricetta, ripete fondamentalmente sempre lo stesso procedimento, esegue cioè una sorta di rituale di lavoro; lo stesso fanno dei muratori per costruire un muro o dei contadini per coltivare il grano o raccogliere le olive. Queste attività vengono tramandate principalmente grazie all’imitazione diretta, esattamente come i rituali sociali; in esse il linguaggio ricopre un ruolo secondario come in tutte le attività basate sul movimento: tutti abbiamo fatto l’esperienza di trovarci in difficoltà davanti alle istruzioni scritte per installare un televisore nuovo o un altro elettrodomestico e tutti sappiamo quanto le istruzioni risultino più chiare se accompagnate da disegni illustrativi nei quali un fumetto ci mostra come si fa, sebbene ancora meglio sarebbe una persona in carne ed ossa.
Il linguaggio verbale diviene invece lo strumento principale quando è necessario raccontare esperienze o eventi passati, oppure quando bisogna tramandare concetti astratti. La comparsa della parola ha segnato una tappa fondamentale nella cultura: le esperienze potevano ora essere raccontate e non solo mostrate; con la parola si possono esprimere anche concetti astratti, idee, opinioni; grazie alla parola la circolazione delle idee fu molto facilitata e la cultura ebbe un nuovo strumento, estremamente preciso, per trasmettersi e conservarsi.
Il linguaggio attuale è un altro tipico esempio di cultura cumulativa: varia in continuazione da regione a regione e di generazione in generazione. È bene ricordare che anche nel mondo animale, in particolare nelle scimmie, esistono rituali sociali, segnali vocali e fabbricazione di utensili e di certo esistevano anche nelle forme più antiche di ominidi; la cultura cumulativa ha solo portato a un loro ulteriore sviluppo sia culturale (varietà di forme ed applicazioni) sia genetico (modifiche dell’apparato vocale, delle capacità logiche e di imitazione).

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2.b.6 – Quali forme di cultura hanno lasciato una traccia tangibile?

21 Aprile 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

   

preistoria

        

Quali forme di cultura hanno lasciato una traccia tangibile?

A differenza dei rituali e del linguaggio verbale, vi sono forme di cultura cumulativa che hanno lasciato una traccia: una è data dalla produzione di utensili, nei quali si può osservare una graduale evoluzione; un’altra è data dalle arti figurative quali la pittura e la scultura. Nelle culture tribali è documentata una notevole attività artistica: tatuaggi, pitture sul corpo, disegni su pelli o tende, bracciali, collane ed ornamenti vari fino a statue in pietra, legno, corno, osso, ecc. Ogni tribù ha i suoi segni e oggetti tipici che acquistano un valore simbolico di appartenenza alla tribù stessa.
L’uso di simboli per ostentare l’appartenenza a un clan, a una famiglia, a una casta o a una particolare categoria sociale è molto comune in moltissime culture e altrettanto comuni sono i simboli religiosi con funzioni cerimoniali; si tratta di un vero e proprio linguaggio fatto di simboli: l’anello nuziale indica che si è sposati, il sacerdote durante la cerimonia religiosa indossa una particolare veste, ai funerali si indossano abiti neri, la corona e lo scettro del Re indicano la sua regalità, ecc. In tutte le culture umane ritroviamo questo tipo di linguaggio simbolico che deve dunque avere origini antichissime. Di particolare interesse è l’uso di simboli disegnati o intagliati che può aver dato origine alle forme d’arte che oggi chiamiamo pittura e scultura. I resti più antichi di pittura e scultura vengono dall’Africa e risalgono a circa 70 mila anni fa, ma considerando che anche in tempi moderni l’arte tribale fa un uso moderato della pietra, è ragionevole supporre che degli antichi pittori e scultori usassero materiali più deperibili anche molto tempo prima. L’arte della pittura ed il disegno simbolico sono la base da cui, molto tempo dopo, si svilupperà la scrittura. 

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2.b.7 – Cosa ci distingue dal primo homo sapiens?

22 Aprile 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

 

dubbio

        

Cosa ci distingue dal primo homo sapiens?

I resti più antichi rinvenuti dell’uomo attuale risalgono a 195 mila anni fa; da allora il nostro scheletro non ha subito modifiche rilevanti, ma non è detto che questo valga anche per il resto della nostra anatomia e, in particolare, eventuali cambiamenti nelle nostre capacità intellettuali ben difficilmente sarebbero rivelabili dalla forma del cranio. Considerando però che tale forma umana ha iniziato ad espandersi fuori dall’Africa circa 125 mila anni fa, si può dedurre che le attuali differenze etniche devono essersi formate necessariamente dopo di allora. Dato che tali differenze possono essere osservate nei lineamenti del viso, nel colore dei capelli o nella statura, ma non nelle capacità intellettuali, si può affermare che queste ultime fossero già state sviluppate in precedenza alle migrazioni nei continenti. Dato che ogni generazione umana si sente molto più intelligente di quelle precedenti, a cominciare da quella dei propri genitori, risulta difficile immaginarsi seduti su una panchina in giacca e cravatta, con in mano un telefonino, a fianco di un homo sapiens di 125 mila anni fa in pelle di lupo, con in mano una clava e convincersi di avere un cervello dalle medesime capacità genetiche; la verità è che le differenze riscontrabili sono solo il frutto dell’evoluzione culturale, di quella cultura cumulativa che contraddistingue la nostra specie e che, sviluppandosi sempre più velocemente, può davvero oggi portare a una sensibile differenziazione fra due generazioni successive.

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2.b.8 – La guerra è una prerogativa della cultura umana?

23 Aprile 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

       

La guerra è una prerogativa della cultura umana?

Un fenomeno molto antico nella storia culturale umana è sicuramente la guerra. La guerra richiede grande organizzazione, affiatamento ed identità di gruppo e gli studi sulle popolazioni che negli ultimi due secoli ancora vivevano di caccia e raccolta mostrano che in tutte vi era il ricorrente ricorso alla guerra per risolvere le dispute territoriali (anche quattro volte in un anno).
Una simile attività bellica non ha eguali fra le scimmie, dove gli scontri di gruppo sono eccezionali, a differenza di quelli fra singoli maschi dominanti; la guerra sembra dunque essere una necessità tipicamente umana. In natura le popolazioni animali rimangono stabili, nonostante il grande numero di figli, a causa dei predatori, delle malattie, degli incidenti, della siccità, del freddo e della fame; essere uccisi dai propri simili è un evento piuttosto raro che, tuttavia, diviene più comune in condizioni artificiali di sovrappopolazione come può accadere negli zoo.
Nell’uomo, lo sviluppo del comportamento bellico è dovuto con ogni probabilità alla minore incisività dei suddetti fattori di stabilizzazione, al conseguente aumento della popolazione e alla successiva minore disponibilità di cibo che inevitabilmente comporta un incremento dei conflitti territoriali.
Nel mondo animale possiamo osservare due forme fondamentali di lotta:
1. lotta fra predatori e prede, il cui scopo è uccidere o evitare di essere uccisi; è la forma più violenta di lotta per la sopravvivenza;
2. lotta fra rivali; il caso più classico è dato dai maschi che si battono per il possesso delle femmine, in cui lo scopo non è la morte, ma la sottomissione dell’avversario (che potrebbe essere anche un membro del proprio branco e magari un parente stretto).
Nella prima forma, un predatore, se vuole nutrirsi, non può evitare di uccidere la propria preda e per la preda, d’altro canto, nessuna difesa è troppo rischiosa, visto il pericolo che corre; nella seconda forma, invece, l’uccisione dell’avversario non solo non è necessaria, ma se si tratta di un membro del proprio gruppo sarebbe addirittura dannosa; è inoltre evidente che anche per il soccombente risulta conveniente ritirarsi prima di farsi veramente male o rischiare di essere ucciso.
L’insegnamento che ancora una volta dobbiamo trarre dalla natura è il seguente: nella lotta fra rivali lo scontro, anche violentissimo, è una prova di forza e non un attentato alla vita dell’avversario, il quale in genere ne esce un po’ malconcio, ma vivo. Si noti inoltre che in natura spesso sono presenti precisi rituali di minaccia per evitare, quando possibile, lo scontro fisico.
Nelle comunità umane di tutti i tipi, comprese quelle tribali, ritroviamo queste due forme di lotta: le prede vengono uccise senza pietà come fanno tutti i predatori e le loro spoglie vengono divise fra i cacciatori e le loro famiglie, mentre all’interno della comunità non mancano scontri anche molto violenti, però regolati da precisi rituali, nei quali si evita di uccidere l’avversario.
Se ora consideriamo una guerra, è subito evidente che i due schieramenti combattono fra loro non come rivali in amore o avversari sportivi, ma come se appartenessero a specie differenti; in guerra si combatte per uccidere oppure si verrà inevitabilmente uccisi. Le popolazioni cannibali addirittura mangiavano i loro avversari sconfitti, dividendone i resti come si usa con le prede animali; in casi meno estremi, gli sconfitti venivano comunque spogliati dei vestiti, delle armi e di tutto ciò che potesse avere un valore; uno stesso atteggiamento predatorio si riscontra poi durante i saccheggi ai villaggi o alle città nemiche.
Numerosi dunque sono gli atteggiamenti che indicano che il rapporto con il nemico è del tipo uomo-animale (intendendo per animale sia una preda che un predatore) e non uomo-uomo.
Continuando a dimostrare come la guerra sia un fenomeno tipicamente umano, in cui si riscontrano tutte le strategie evolutive e culturali, sorge però un problema: come è possibile che l’uomo, selezionato da milioni di anni di evoluzione naturale per vivere socievolmente in comunità, abbia combattuto e continui a combattere tante sanguinosissime guerre fratricide? La risposta va cercata nella natura della cultura umana e nelle differenti vie attraverso le quali si esprime. Per trascinare un popolo in guerra è necessario sviluppare un sistema che inibisca i suoi naturali istinti sociali; il sistema più semplice, da sempre praticato, consiste nell’identificare i nemici con animali di una diversa specie, comunque con animali pericolosi. A tal fine vengono sfruttate tutte le possibili varianti culturali: i nemici non sono come noi, tanto è vero che parlano una diversa lingua, hanno un diverso colore della pelle, indossano un diverso abbigliamento, praticano una diversa religione, ecc.; di conseguenza assume fondamentale importanza l’esaltazione di quanto può servire a identificarsi nel proprio gruppo ed ecco che ogni tribù sviluppa presto un suo accento particolare, ha i suoi colori di guerra (o una sua divisa), i suoi simboli religiosi, le sue particolari acconciature dei capelli, i suoi caratteristici tatuaggi, ecc.; chi non ha questi segni di riconoscimento viene considerato un animale da abbattere.
La guerra sfrutta tutte le strategie fondamentali dell’uomo: l’organizzazione e l’affiatamento di una comunità sono infatti elementi indispensabili per qualunque attività bellica, la specializzazione di alcuni membri della comunità in guerrieri è altrettanto necessaria, così come lo è la manipolazione tesa a realizzare armi sempre più potenti.
Anche la cultura cumulativa ha sempre dato il proprio contributo alla guerra: con il passare del tempo le comunità sono cresciute di dimensione e ben presto si formarono alleanze fra comunità distinte; all’interno della comunità specializzata dei guerrieri si sono formati sottogruppi sempre più specifici (arcieri, cavalieri, artiglieri, ecc.); nel caso degli armamenti l’apporto della cultura cumulativa è ancor più evidente, essendo passati in poco tempo dalla spada alla bomba atomica.
Il ritrovamento di resti di uomini di Neanderthal con delle punte di lancia conficcate nello scheletro lascia intendere come la guerra abbia accompagnato e influenzato l’intera evoluzione culturale dell’uomo.

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2.b.9 – Agricoltura e allevamento: due tappe fondamentali?

24 Aprile 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

aratura

       

Agricoltura e allevamento: due tappe fondamentali?

Circa 12 mila anni fa ebbe fine l’ultima glaciazione; oggi sappiamo che, fino a quel tempo, profondi e repentini cambiamenti climatici rappresentavano la regola e che gli esseri viventi, compreso l’uomo, vi erano da sempre abituati; il periodo di stabilità che è seguito all’ultima glaciazione, e che tuttora perdura, rappresenta dunque una breve quanto eccezionale parentesi di quiete nella lunga quanto turbolenta storia climatica. Il clima divenne durevolmente più caldo, più piovoso e con minori differenze di temperatura fra inverno ed estate. Cambiò di conseguenza la distribuzione della vegetazione e della selvaggina, i ghiacci scomparvero dalle zone temperate e queste mutarono radicalmente aspetto; ciò diede a tutti, uomini e animali, nuove opportunità di nutrimento. La nostra specie si era ormai diffusa da tempo su tutto il pianeta, ma mai prima di allora vi era stata una così regolare disponibilità di risorse vegetali e di animali erbivori.
È assai probabile che la nuova situazione portò ad un aumento della popolazione fino a raggiungere un nuovo equilibrio: quantità di cibo pro capite pari al tempo della glaciazione, ma con spazi disponibili più ristretti. A questo punto vi erano due possibili vie da percorrere per migliorare le proprie condizioni di vita: estendere il territorio con la guerra oppure sfruttare in modo più efficace le nuove ricchezze disponibili, approfittando al massimo della stabilità del clima; furono seguite entrambe.
Osservando le moderne società tribali, specialmente quelle delle foreste pluviali meno interessate dalla fine della glaciazione, possiamo supporre che i cacciatori proteggono da sempre la selvaggina del proprio territorio da altri predatori, compresi i cacciatori delle altre tribù che sconfinano e da sempre praticano forme di aiuto verso le piante commestibili nei confronti delle cosiddette erbacce. Da queste basi si svilupparono, in vari luoghi temperati del mondo, le prime forme di allevamento ed agricoltura.
È plausibile che le antiche tribù di cacciatori, legate da vincoli di parentela o derivate da una medesima tribù di origine, avessero degli accordi di reciproco aiuto in tempi di carestia o di guerra, che portavano alla divisione della selvaggina e alla formazione di eserciti comuni, esattamente come avviene fra le tribù moderne; da queste usanze si svilupparono i grandi eserciti delle grandi civiltà agricole.
Lo sviluppo dell’agricoltura e dell’allevamento portò ad un radicale cambiamento nella società umana, paragonabile solo alla discesa dagli alberi dei primi ominidi; la disponibilità di cibo aumentò considerevolmente, specialmente quando iniziò la coltivazione dei cereali come il grano, l’orzo, il riso: queste piante infatti producono semi molto nutrienti che si conservano anche per anni e quindi, coltivate in larga scala, permisero di accumulare grandi riserve di cibo vegetale. Allo stesso modo l’allevamento del bestiame permise di fare affidamento su una fonte continua di risorse animali e a rafforzare la cultura delle scorte; disporre di scorte significò potersi permettere una vita più stanziale che, nel tempo, portò alla formazione dei primi centri urbani. I campi, coltivati con tecniche sempre più accurate, producevano molto più di quanto fosse necessario al mantenimento dei contadini che li coltivavano e lo stesso avvenne con i grandi allevamenti di bestiame; tale rivoluzionaria situazione portò allo sviluppo della cultura del risparmio, che permette di poter disporre in un secondo momento delle risorse non consumate, e permise alla popolazione non solo di crescere, ma di avere la possibilità di dedicarsi a tempo pieno anche ad altre attività, specializzandosi in varie forme di artigianato tra le quali ricordiamo i falegnami, i fabbri, i vasai e i tessitori, ai quali presto si aggiunsero i commercianti.
Nelle comunità tribali vi era una netta separazione dei compiti solo fra maschi e femmine, con gli uomini dediti alla caccia di gruppo, alla guerra ed alle attività ad esse collegate come la costruzione delle armi, mentre le donne erano dedite alla raccolta del cibo vegetale ed alla cura dei bambini. Nel nuovo contesto urbano si svilupparono invece diversi compiti e conoscenze non solo in base al sesso, ma anche al tipo di lavoro. Da piccoli villaggi di cacciatori di 60 o 70 individui si passò inoltre a cittadine di 7.000 abitanti.

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2.b.10 – Che ruolo ha il commercio nell’evoluzione culturale?

25 Aprile 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

  

merci

       

Che ruolo ha il commercio nell’evoluzione culturale?

La grande varietà di prodotti dell’agricoltura, dell’allevamento e dell’artigianato portò a uno scambio di merci all’interno della comunità e favorì quello esterno alla comunità stessa; si formò quindi anche la categoria dei commercianti a tempo pieno.
Il commercio consiste in uno scambio di beni che nelle sue prime applicazioni assunse la forma del baratto, cioè dello scambio di un bene che si vuol cedere con un altro che si vuole acquistare; i beni da cedere erano inizialmente quelli vegetali, animali o artigianali che eccedevano le proprie necessità di consumo o di scorta e quindi i primi baratti avvenivano fra produttori. I limiti di tale tipo di baratto sono immediatamente evidenti, in quanto circoscrivono la possibilità di scambio a quanto offerto dalla propria comunità o da quelle vicine, ma ben presto si formò la figura del commerciante, cioè di colui che barattava dei beni con altri di cui non aveva bisogno personalmente, ma che intendeva scambiare in comunità più lontane dove tali beni, in quanto carenti, assumevano maggior valore. Nel baratto il valore dei beni oggetto dello scambio viene considerato equivalente dalle parti in base a considerazioni quantitative e qualitative dei beni stessi; tali considerazioni vengono naturalmente influenzate dal bisogno che si ha di quel tale bene e dalla difficoltà che si incontra nel procurarselo.
Anche nelle forme indirette, cioè tramite commercianti, il baratto presenta però dei grandi limiti: i beni deperibili, come i generi alimentari, devono essere consumati in breve tempo e quindi non possono essere oggetto di molteplici scambi successivi; altri beni, come i capi di bestiame vivi, sono indivisibili e devono perciò essere scambiati con quantità di altri beni superiori a quanto necessario (obbligando il cedente a ulteriori scambi di quanto ottenuto in cambio). Il baratto può pertanto essere applicato solo in economie semplici e a base ristretta.
Il nuovo ambiente economico che si era formato, cioè quello basato sugli scambi, provocò naturalmente degli adattamenti da parte dell’uomo che ne rendessero più fruibili le opportunità e, in particolare, bisogna ricordare l’invenzione della moneta, cioè di un oggetto che allo stesso tempo svolga sia la funzione di quantificazione del valore, sia quella di costituire un mezzo di scambio, un mezzo peraltro accumulabile senza problemi di deperibilità e di spazio, nonché di divisibilità.
Lo sviluppo degli intensi traffici commerciali che conseguirono all’avvento della moneta portò ad un ulteriore sviluppo economico: ogni città, per importare i prodotti tipici di un’altra, doveva infatti scambiarli con i propri, rendendo vantaggioso un aumento di produzione altrimenti inutile e aumentando la ricchezza complessiva delle comunità; questo fenomeno portò anche all’interdipendenza delle città prima economicamente e poi politicamente, stimolando alleanze, fusioni o invasioni.
Grazie a pacifiche alleanze o a violente conquiste, a partire da 6 mila anni fa, si formarono grandi comunità umane su vasta scala territoriale, cioè i grandi imperi delle antiche civiltà: gli Egizi, i Sumeri, gli Assiri, i Babilonesi, i Persiani, i Romani e i Cinesi; tutte queste civiltà si distinsero per la loro ricchezza alimentata da prosperi traffici commerciali, per favorire i quali furono realizzate grandi reti di comunicazioni e trasporti: strade, ponti, navi, canali navigabili, fari e perfino servizi postali. Le città più grandi come Roma o Cartagine arrivarono ad oltre 700 mila abitanti e tale aumento della popolazione, unito alla necessità di distribuire una grande quantità e varietà di merci, spiega il crescere delle difficoltà ad amministrare queste metropoli.  

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2.b.11 – La scrittura ha permesso un salto di qualità?

26 Aprile 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

ideogrammi

       

La scrittura ha permesso un salto di qualità?

Tra le prime forme di scrittura bisogna ricordare le pittografie, cioè dei sistemi in cui ciò che si vuol comunicare è rappresentato da un disegno più o meno stilizzato. Per essere efficace, la scrittura pittografica ha bisogno che si conosca il contesto e gli oggetti materiali a cui le immagini si riferiscono (un uomo che corre appresso a una freccia non è sinonimo di uscita di emergenza per tutti e ovunque), ma quando ciò accade, la comprensione è immediata e supera il problema della diversità delle lingue (si pensi alla segnaletica usata nelle stazioni, negli stadi, ecc.)
Le tracce più antiche di scrittura risalgono a oltre 6.000 anni fa; sembra che il passaggio da un linguaggio simbolico basato su disegni a dei disegni rappresentanti delle parole sia dovuto alla necessità di contabilizzare gli scambi commerciali o altri adempimenti burocratici tipici delle grandi città agricole. Così come una complessa vita sociale ha favorito lo sviluppo del linguaggio articolato, una intricata burocrazia ha richiesto lo sviluppo di un linguaggio di simboli altrettanto efficiente di quello verbale.
La scrittura fu dunque uno strumento necessario per l’archiviazione dei dati contabili inerenti all’inventario delle riserve, all’esazione dei tributi e alle transazioni commerciali, ma venne usata poi per altri fini come testimoniare la forza e il potere dei re; ciò avvenne con scritture pubbliche e solenni, realizzate in modo che la forma, i materiali e le dimensioni le possano conservare nel tempo a perenne simbolo del potere da cui provengono (si pensi alle scritte incise sulle porte di accesso alle città e a quelle celebrative su facciate o monumenti).
Con il passare del tempo, alle originarie scritture per immagini, in cui ogni simbolo rappresentava una parola e in cui i segni hanno una funzione essenzialmente mnemonica, si aggiunsero le scritture fonetiche, cioè sistemi di scrittura che riflettono specularmente la lingua parlata. La scrittura fonetica ha permesso la formazione di un sistema di pochi segni, ma componibili in innumerevoli combinazioni: l’alfabeto. Quest’ultimo, essendo assai più facile da imparare e da gestire, costituì anche una premessa fondamentale per lo sviluppo della stampa in tempi molto più recenti.
La scrittura permette di fissare le parole su un supporto materiale, il quale diviene così una espansione della memoria umana, in grado di conservare parole, pensieri e conoscenze per secoli. Con la scrittura il patrimonio culturale umano può essere depositato in una cassaforte più affidabile della mortale e a volte imprecisa memoria umana. La scrittura rese dunque la cultura umana ancora più accumulabile, in modo tale che l’esperienza di un singolo individuo poté superare i limiti della sua vita personale. Abbiamo detto che la ricostruzione della storia culturale è difficile e imprecisa perché la cultura non lascia tracce fossili o genetiche, ma questo è vero fino all’invenzione della scrittura; con il rinvenimento dei più antichi testi scritti la nostra conoscenza del passato compie un enorme salto di qualità, la scrittura segna il passaggio dalla preistoria alla storia.
Il linguaggio simbolico scritto ebbe nello stesso periodo un secondo notevole ramo evolutivo, lo sviluppo dei simboli matematici; in fondo si tratta sempre di una forma di scrittura, ma che non rappresenta parole, bensì concetti astratti relativi alla misura ed alla quantità di oggetti: i numeri. Bisogna quindi riconoscere alla scrittura il merito di aver permesso lo sviluppo della fondamentale attività del calcolare (che non si può sviluppare oltre una certa complessità senza un supporto scritto). La scrittura permette inoltre la costruzione di tabelle a due o più colonne, cioè la formazione di un ordinamento visivo che non è possibile fare verbalmente.
Le possibili applicazioni in ambito commerciale ed amministrativo sono facilmente intuibili e tuttora in uso, ma vi è un’applicazione ancora più strettamente legata all’agricoltura: la misurazione dei campi che portò allo sviluppo della geometria nell’antico Egitto; in Egitto, dopo ogni inondazione del Nilo, dato che tutti i confini risultavano cancellati, era necessario che gli stessi venissero ridisegnati; questa particolarità ambientale rese gli Egizi dei maestri nella geometria e nella matematica.
Attualmente la capacità di scrivere non solo è molto diffusa, ma si scrive sempre più frequentemente con delle macchine; l’avvento degli elaboratori elettronici, con i loro innumerevoli tipi di carattere, con le varie formattazioni delle pagine e addirittura con la possibilità di correzioni ortografiche e grammaticali automatiche, rende difficile concepire quanta fatica sia costata la realizzazione e lo sviluppo della scrittura, ma secondo un antico trattato persiano, il calligrafo deve avere una mano delicata, occhio lungimirante, spirito acuto, sensi affinati, un’anima pura e un intelletto superiore. Nei tempi antichi la scrittura era tutt’altro che un’attività normale, era un fenomeno talmente eccezionale nella sua concezione, realizzazione e applicazione che non si poté non attribuirgli origini divine. D’altra parte anche in epoche precedenti gli uomini cercavano le indicazioni degli Dei in particolari segni (una particolare disposizione di ossa, una data sequenza di sassolini, ecc.) e quindi la divinazione della scrittura, nonché della sua più alta manifestazione, i libri sacri, fu un fenomeno naturale.

 

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2.b.12 – Lo sviluppo delle scienze è dovuto alla specializzazione?

27 Aprile 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

numeri

       

Lo sviluppo delle scienze è dovuto alla specializzazione?

Il proliferare di tante attività diverse, ognuna con conoscenze sue peculiari, portò alla formazione di un enorme patrimonio di conoscenze tecniche; ai nuovi problemi e alle nuove esigenze, che le civiltà agricole andavano affrontando, l’adattamento culturale rispose con le specializzazioni culturali e con lo sviluppo delle scienze. In particolare ricordiamo importanti progressi riguardo:
• la matematica: per la contabilità del commercio e delle amministrazioni statali, nonché per i calcoli della geometria e dell’astronomia;
• la geometria: per la suddivisione e l’irrigazione dei campi, per l’architettura e per l’astronomia;
• l’idraulica: per l’irrigazione dei campi, per gli acquedotti destinati al rifornimento delle grandi città, fino ai famosi giardini pensili di Babilonia;
• l’architettura: per la costruzione di templi monumentali in grado di accogliere e suggestionare grandi masse di cittadini, per la costruzione di strade e ponti per i traffici commerciali;
• la meccanica: come ausilio all’architettura per spostare grandi pesi durante le costruzioni monumentali come le piramidi d’Egitto e, in un secondo momento, per costruire macchine da guerra come le catapulte;
• l’ingegneria nautica: per le grandi navi mercantili;
• l’astronomia: per la misura del tempo e delle stagioni e per l’orientamento in mare.

Lo sviluppo di tutte queste conoscenze in epoca storica, cioè dopo l’avvento della scrittura, fu tale da porre il problema di come ordinarle e catalogarle; le meraviglie tecniche dell’epoca suscitarono ammirazione anche fra la gente comune e spesso filosofi e scienziati erano tenuti in grande considerazione da tutta la comunità.
Il progresso delle scienze e della tecnica di un popolo avanzava quanto più questo risultava ricco, potendo mantenere un maggior numero di studiosi. Un contributo fondamentale veniva anche dall’economia commerciale, la quale, oltre alle merci, permetteva di importare anche le conoscenze di altre civiltà più antiche, consentendo di recuperare il ritardo o quantomeno non dover partire da zero in ogni campo. Il progresso inoltre avanzava quanto più a lungo la sua civiltà riusciva a sopravvivere alla concorrenza ed alle invasioni dei popoli confinanti; le civiltà più ricche e longeve raggiunsero quindi i più alti livelli scientifici e ne è un esempio la Grecia classica che con Pitagora ed Archimede portò la matematica a livelli mai visti in Europa fino ad allora. Da ricordare inoltre Erone di Alessandria al tempo della Roma Imperiale e Leonardo da Vinci nell’Europa rinascimentale come massimi rappresentanti dell’ingegneria del loro tempo ed infine Pitagora, Democrito, Aristotele, Galileo Galilei e Isaac Newton come i teorici più illustri, la cui opera portò gradualmente alla creazione del metodo scientifico sperimentale usato attualmente, il quale permette di studiare le leggi naturali con un rigore e una precisione paragonabili a quelle della matematica, segnando la fine della filosofia della natura e l’inizio della scienza sperimentale, che non avendo più rivali, oggi noi chiamiamo semplicemente scienza. Infine bisogna citare, per gli sviluppi culturali successivi, l’invenzione della stampa a caratteri mobili di Gutenberg, che consente un gigantesco aumento della produzione dei libri e quindi della diffusione e conservazione della cultura; l’invenzione della stampa, da questo punto di vista, è seconda solo a quella della scrittura stessa.

 

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2.b.13 – Lo schiavismo è analogo all’allevamento?

28 Aprile 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

schiavo

       

Lo schiavismo è analogo all’allevamento?

Con la comparsa dell’allevamento si sviluppò un nuovo tipo di relazione fra l’uomo e gli animali: dal rapporto uomo-preda si passò al rapporto uomo-bestiame. Nell’allevamento gli animali sono costretti ad una convivenza forzata con l’uomo nella quale perdono ogni possibilità di fuga; essi sono nutriti dai loro allevatori, ma è un vantaggio pagato a caro prezzo (la possibilità di fuga); non è dunque il caso di parlare di simbiosi con reciproco vantaggio in quanto per gli animali non aumentano le possibilità di sopravvivenza. Spesso il bestiame è formato da animali sociali, come le pecore o i cavalli, che di norma vivono in branco guidati da un capo e che ora sono guidati dagli allevatori, i quali si sono quindi sostituiti al capo. Gli animali allevati sono un bene prezioso e vengono trattati come oggetti di valore; sono infatti comprati e venduti come tali e vengono spesso marchiati in modo indelebile per attestare il titolo di proprietà.
Gli animali allevati non sono solo prede senza speranza: dopo la comparsa dell’agricoltura vennero infatti impiegati anche come animali da soma, dando un contributo fondamentale al suo sviluppo. Abbiamo visto come gli uomini, per farsi la guerra tra loro, abbiano bisogno di identificare il nemico come un animale di una diversa specie e quindi, in caso di cattura di un nemico, risultò naturale impiegarlo come animale da lavoro. Nella schiavitù il rapporto uomo-schiavo ha infatti le stesse caratteristiche che abbiamo notato nell’allevamento animale: gli schiavi erano prigionieri di guerra o loro discendenti, non erano liberi di andarsene e rimanevano perennemente prigionieri dei loro padroni; potevano essere comprati e venduti; in certe culture venivano anche marchiati a fuoco; lavoravano nei campi come animali da soma al pari di asini, buoi e cavalli.
Sappiamo che anche nelle società tribali i nemici in guerra, o potenziali nemici in quanto appartenenti a tribù storicamente ostili, venivano da sempre considerati e trattati come animali, ma quel tipo di società non poteva mantenere un grande numero di schiavi e per un prigioniero era più probabile finire al palo della tortura piuttosto che schiavizzato, sebbene occasionalmente fosse possibile. Nell’era agricola invece vi erano le risorse per nutrire una numerosa popolazione di schiavi, che peraltro era molto utile per il duro lavoro dei campi, e quindi i prigionieri di guerra divennero una merce preziosa come animali da lavoro. Gli schiavi dunque non erano propriamente il gradino più basso nella gerarchia della società, ma erano bestiame al di fuori di essa. In una gerarchia, sia umana, sia animale, si può cambiare di livello salendo o scendendo, si può spodestare o essere spodestati, ma agli schiavi questo certo non era concesso come non lo era per ogni animale allevato. In una città allora si potevano trovare due popolazioni umane ben distinte: quella dominante con la sua gerarchia interna e quella degli schiavi ai quali non era concessa nemmeno una loro gerarchia perché se avessero avuto una loro organizzazione sociale, avrebbero potuto usarla per ribellarsi; il massimo a cui uno schiavo poteva aspirare era quello di formare un proprio nucleo familiare, ma aggregazioni sociali più numerose erano fuori discussione.
In questa epoca agricola nacquero dunque le classi sociali, ovvero popolazioni nettamente separate senza possibilità di passare dall’una all’altra. Nel corso della storia con un processo simile spesso si formarono società con tre classi: i nobili (classe dominante), il popolo (classe dominata), gli schiavi (animali da lavoro, robot viventi). Infatti una popolazione nomade di predoni poteva saccheggiare una città e catturare schiavi per poi rivenderli, alcune però trovarono più pratico pretendere un regolare tributo in cambio della pace e magari di una protezione da altri predoni. Comparve così un altro rapporto del tipo parassita-ospite nel quale la popolazione dominante non schiavizzava quella sottomessa, ma semplicemente si sostituiva al gruppo dirigente il cui ruolo rimaneva ora riservato ai nuovi dominatori che formavano una classe a parte (i nobili). La profonda differenza rispetto allo schiavismo è che i dominati non venivano comprati e venduti e non perdevano completamente la loro struttura sociale, la loro gerarchia però rimaneva decapitata. Questa struttura sociale si è diffusa e rafforzata nel corso dei millenni fino a quando un nuovo fenomeno portò a profondi cambiamenti: la rivoluzione industriale.

 

httpv://www.youtube.com/watch?v=Z4wRPdwFGoQ

 

IL CASO CELEBRE
   ABRAHAM LINCOLN
                                                                                

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pillola 
n. 7  –  ALLEVAMENTO E SCHIAVISMO                                       Allevamento e schiavismo

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2.b.14 – Come si arrivò alla rivoluzione industriale?

29 Aprile 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

fabbrica

       

Come si arrivò alla rivoluzione industriale?

La rivoluzione agricola si sviluppò in seguito alla fine delle glaciazioni, cioè a un cambiamento climatico; la rivoluzione industriale ebbe invece luogo in seguito ad un insieme di circostanze propizie di tipo storico, politico ed economico; non vi fu alcun cambiamento del clima o dell’ecosistema, ma una normale evoluzione della società umana; le premesse che portarono alla rivoluzione industriale furono, in fin dei conti, un prodotto della cultura umana.
Nel 1700 d.C. l’Impero Britannico, il più grande di tutti i tempi, era in piena espansione e le sue rotte commerciali raggiungevano tutti i continenti; l’Inghilterra era potente e ricchissima e una enorme quantità di merci si riversava nelle sue città. Questa situazione si era già verificata più volte con altri imperi come quello mongolo, romano o persiano, ma ora i territori dell’Impero erano formati soprattutto dalle colonie in territori allora detti selvaggi dove la civiltà agricola era poco diffusa o assente; ne conseguì che venivano importate principalmente grandi quantità di materie prime che poi dovevano essere lavorate in patria; il prodotto finito poteva poi essere venduto su tutto il grande mercato europeo. In precedenza, nell’Impero Romano, vi era già una rete commerciale estesa su tutta l’Europa, Roma era ricchissima, ma non aveva motivo di importare solo materie prime, né di lavorarle per rivenderle al resto dell’Impero. L’economia coloniale sia inglese che europea aveva un sistema produttivo nettamente diverso rispetto al passato: gli stati europei, e in particolare la piccola e potentissima Inghilterra, erano i centri di lavorazione delle merci importate ed esportate in tutto il mondo.
È importante notare che le materie prime non venivano lavorate solo per soddisfare le esigenze locali, ma anche quelle di tutto il mercato europeo e delle colonie stesse; svolgere questa imponente mole di lavoro richiese dei cambiamenti nell’organizzazione della lavorazione: da piccoli gruppi di artigiani si passò a grandi adunanze di operai in vasti casolari detti fabbriche, all’interno vi erano uno o più operai che si occupavano di una singola fase della lavorazione e solo di quella, per poi passare il prodotto ad un altro gruppo per la fase successiva; era nata la produzione in serie.
E’ probabile che questa tecnica non fosse del tutto nuova, ma mai era stata applicata su così vasta scala; la lavorazione in serie era in grado di produrre, a parità di tempo, un numero di pezzi molto maggiore a quello della lavorazione artigianale; in precedenza, nel ristretto mercato locale, tutta questa produzione sarebbe rimasta invenduta.

 

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2.b.15 – Quali sono le principali conseguenze della rivoluzione industriale?

30 Aprile 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

 

locomotiva

       

Quali sono le principali conseguenze della rivoluzione industriale?

La comparsa e la diffusione del modello di produzione in serie (o industriale) provocò profondi cambiamenti economici, sociali, tecnici e scientifici; alcuni eccezionalmente positivi, altri tragicamente negativi:
• la produzione in serie permise di abbassare i costi di produzione e quindi, a parità di prezzo di vendita del prodotto, fece realizzare un altissimo profitto all’imprenditore industriale; l’industria si rivelò un’attività altamente redditizia e ben presto si sviluppò una spietata concorrenza;
• una delle strategie adottate per sconfiggere la concorrenza fu quella di abbassare il costo del prodotto; chi adottò questa strategia, non solo sopravvisse alla concorrenza, ma innescò un circolo virtuoso in base al quale il prezzo diminuiva, aumentava il numero di clienti che potevano permettersi di acquistare, aumentava il giro di affari, aumentava il profitto a parità di operai, aumentava la possibilità di ridurre ancora i costi. Vendere alle masse oltre che ai ricchi divenne un ottimo affare;
• per abbassare i costi si poteva rinunciare ad una parte del profitto su ogni singolo prodotto venduto, si poteva diminuire il salario degli operai, si poteva diminuire il numero di operai comprando macchine più moderne e si poteva allargare il mercato e la produzione a parità di costi fissi; tutte queste tecniche vennero adottate con matematica precisione ed efficienza;
• il generale abbassamento dei prezzi sui prodotti industriali rese gli stessi accessibili a grandi masse della popolazione che prima non erano in grado di acquistarli, aumentò quindi il potere di acquisto e la ricchezza media per grandi fasce della popolazione;
• la concorrenza spietata della produzione industriale soppiantò rapidamente la produzione artigianale in molti settori quali il tessile ed il metallurgico. Gli artigiani, rimasti senza lavoro, dovettero convertirsi in operai a basso costo;
• al fine di ridurre il costo del prodotto si cercò di ridurre al massimo anche il salario degli operai fino ad arrivare al minimo indispensabile per la sopravvivenza, condannandoli ad una povertà estrema, mentre il resto del mondo diventava più ricco anche grazie a loro;
• grandi profitti permettevano grandi investimenti, specialmente nel comprare grandi macchine industriali, progettate per avere una efficienza sempre più alta e che richiedessero un minor numero di costosi operai; quindi con il tempo gli operai passarono dalla povertà alla disoccupazione ed alla miseria;
• investire in macchine si rivelò molto vantaggioso per gli imprenditori industriali, ma anche per ingegneri e scienziati che videro aumentare i loro profitti e il loro prestigio. Il risultato fu uno sviluppo tecnologico e scientifico senza precedenti: a volte dopo solo pochi anni le macchine apparivano già superate, in particolare quelle a vapore che diedero un grandissimo contributo alla produzione industriale; si svilupparono vari rami della scienza che avevano applicazioni industriali come la chimica, la meccanica, la termodinamica (per i motori a vapore e poi a scoppio), ma anche settori non direttamente coinvolti riuscirono a trarre vantaggio da questo momento di grazia goduto dalle scienze come la medicina, la biologia e l’elettrotecnica.

APPROFONDIMENTI
 libro2  CONCORRENZA, MERCATO, PROFITTO

PALCO D’ONORE
   JOSEPH-MARIE JAQUARD   stellastellastella

 
 

 

 

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2.b.16 – Quali furono le ricadute tecnologiche ed economiche negli altri settori?

1 Maggio 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

 

telegrafo

       

Quali furono le ricadute tecnologiche ed economiche in altri settori?

La rivoluzione industriale causò una espansione economica senza precedenti che coinvolse tutte le componenti della società e tutti i settori di produzione; in particolare venne fortemente incentivato il settore del commercio, sia per mare che per terra, rendendo quanto mai opportuna l’introduzione dei battelli a vapore e del treno; utilizzando le nuove tecnologie, nel corso dell’ottocento si costruirono navi sempre più grandi e stabili e una rete ferroviaria avvolse tutta l’Europa e gli Stati Uniti d’America. La rivoluzione tecnologica dei trasporti prosegui nel novecento con la diffusione dell’automobile e dei veicoli motorizzati in genere, nonché con l’invenzione dell’aereo.
Un analogo sviluppo si ebbe nel settore delle comunicazioni: dapprima migliorarono i servizi postali, grazie ai nuovi trasporti motorizzati, poi con il telegrafo del 1844 iniziò l’era delle telecomunicazioni che proseguì nel 1860 con il telefono e nel 1897 con la radio. Questi strumenti si basavano su un uso totalmente nuovo dell’elettricità che ora veniva usata per inviare dei segnali; questa nuova tecnologia oggi è detta elettronica e portò, nel 1925, al primo modello sperimentale di televisore.
Profondi mutamenti interessarono anche il tradizionale settore agricolo in cui vennero introdotte macchine sempre più sofisticate ed efficienti, nonché fertilizzanti e pesticidi chimici prodotti industrialmente.
La nuova potenza industriale e le maggiori conoscenze scientifiche e tecnologiche portarono inevitabilmente alla produzione di armamenti sempre più micidiali e a guerre sempre più sanguinose; guerre peraltro combattute per disputarsi i territori coloniali che, come abbiamo visto, rappresentavano fonte e sbocco della produzione industriale. Anche le necessità belliche, come quelle industriali, hanno dato un grande impulso alla ricerca e alla scienza; molte invenzioni, rese possibili da scopi militari largamente finanziati, hanno poi avuto ampia diffusione e applicazione in ambito civile come gli aerei a reazione, i navigatori satellitari e internet.
L’espandersi dell’uso della tecnologia tipicamente industriale al di fuori delle fabbriche influenzò la vita della gente comune anche nel tempo libero: nelle grandi città del XIX secolo si poteva viaggiare in treno o in bicicletta, si poteva telegrafare un messaggio, farsi fare delle fotografie e, a fine secolo, anche andare al cinema, volare con la mongolfiera o il dirigibile. Come sappiamo, tale fenomeno è andato poi crescendo per tutto il XX secolo e oggi, nei paesi industrializzati, in ogni casa troviamo una lavatrice, un aspirapolvere, una radio, almeno un televisore, un personal computer ed un numero imprecisato di telefoni cellulari.
Il rapido diffondersi della tecnologia fra la popolazione provocò la diffusione di un nuovo modo di concepire il mondo: un mondo in continua evoluzione, dominato dal progresso non solo tecnologico, ma anche civile ed economico; la visione di un mondo statico o ciclico venne universalmente abbandonata, tutti videro con i loro occhi le meraviglie delle nuove tecnologie e fu chiaro che il mondo non sarebbe stato più lo stesso. Non è un caso che la teoria dell’evoluzione venne concepita ed accettata in questo periodo e lo stesso possiamo dire della comparsa della fantascienza come genere letterario e cinematografico.

APPROFONDIMENTI
 libro2  RADIO,  TELEFONO, TELEGRAFO,  TELEVISIONE

PALCO D’ONORE
    GUGLIELMO MARCONI   stellastellastellastella

 
 

 

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2.b.17 – Si ebbero anche conseguenze politiche e sociali?

2 Maggio 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

monarca

        

Si ebbero anche conseguenze politiche e sociali?

La ricchissima borghesia industriale presto divenne una classe sociale a parte, destinata a separarsi dal popolo dominato e ad entrare in competizione diretta con la nobiltà, formata principalmente dai ricchi proprietari terrieri che detenevano il potere politico in quanto classe dominante; gli industriali erano ormai più ricchi dei nobili e mal sopportavano la tradizionale subordinazione nei loro confronti. In passato, in caso di crisi politica, un re o un duca poteva essere deposto con una insurrezione popolare o con un colpo di Stato, ma sarebbe poi stato sostituito con un altro re o un altro duca; ora la supremazia dei nobili veniva invece contestata in linea di principio e considerata una prepotenza piuttosto che un diritto divino; si sentiva insomma la necessità di un nuovo modello socio-politico e la nuova cultura industriale sostenne la democrazia in contrapposizione all’aristocrazia. Questa rivalità insanabile per il dominio della società portò ad una serie di insurrezioni e guerre che insanguinarono l’Europa, la più famosa delle quali è la rivoluzione francese del 1789; fu un periodo travagliato dal quale la borghesia uscì vincente, sebbene con notevole fatica, e varie nazioni adottarono governi e istituzioni di tipo democratico.
Altra importantissima conseguenza dell’economia industriale fu il tramonto della schiavitù e della servitù della gleba. La categoria degli operai discendeva culturalmente da quella degli artigiani i quali da sempre, bene o male, venivano pagati per il loro lavoro; era inoltre interesse dell’azienda che gli addetti alle macchine avessero un minimo di istruzione per poter manovrare apparecchi sempre più complessi e per poterli specializzare in mansioni particolari. Gli schiavi, come quelli degli Stati Uniti, non venivano pagati, ma mantenuti; il costo era grosso modo lo stesso, ma prima dovevano essere comprati ad un prezzo stabilito dai precedenti padroni, mentre gli operai venivano assunti a costo zero; gli schiavi non potevano essere licenziati, ma solo venduti ad un altro padrone e ciò paradossalmente risultava vantaggioso per gli schiavi in quanto assicurava la sopravvivenza, mentre risultava scomodo per i padroni che dovevano trovare un acquirente (una forma di licenziamento in tronco esisteva anche per gli schiavi e consisteva nella soppressione degli stessi, ma comportava una sensibile perdita economica); gli schiavi dovevano avere necessariamente un grado di istruzione pari a zero e i loro strumenti dovevano essere particolarmente semplici e robusti in quanto molti tendevano a danneggiarli per sfogare la loro rabbia contro il lavoro e ciò rendeva difficile impiegarli come operai. Con la servitù della gleba, costituita dalle masse di contadini al servizio dei nobili proprietari terrieri, la situazione, sebbene migliore, era assai simile; i contadini non venivano comprati o venduti, ma per il resto avevano lo stesso ruolo degli schiavi e mantenevano simili caratteristiche, facevano dunque parte anch’essi di un antichissimo sistema economico, che ora era visto come un ostacolo al progresso.
Il risultato di questa incompatibilità fu la terribile guerra di secessione negli Stati Uniti intorno al 1860 a seguito della quale venne abolita la schiavitù, almeno formalmente. All’antica economia agricola si cercò di sostituire un’agricoltura imprenditoriale basata sul modello industriale; anche i campi vennero dunque invasi dalle macchine, si ridusse la necessità di contadini e questi dovettero riconvertirsi in operai analogamente agli artigiani. Il mondo del lavoro venne quindi sconvolto dall’economia industriale e con esso tutta la società e la cultura, basti pensare ai grandi fenomeni migratori e alla rapida e disordinata creazione dei grandi agglomerati urbani.

APPROFONDIMENTI
 libro2   BORGHESIA,  CLASSE SOCIALE

PALCO D’ONORE
    KARL MARX
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2.b.18 – L’istruzione pubblica attenuò la lotta di classe?

3 Maggio 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

scolari

        

L’istruzione pubblica attenuò la lotta di classe?

Durante il XIX secolo la scienza e l’istruzione divennero dei valori quasi sacri e, in modo coerente con il pensiero liberale e illuminista, si iniziò a introdurre l’istruzione pubblica per tutti o quantomeno per una fascia più larga di popolazione. La crescente diffusione dell’istruzione scolastica permise una maggiore specializzazione e quindi una maggiore varietà di attività e di prodotti; il valore del singolo operaio, la sua capacità lavorativa, dipendeva sempre più dalla sua formazione professionale la quale, rendendo sempre più difficile la sostituzione dell’operaio stesso, fece aumentare i livelli di salario.
Questo fenomeno contribuì ad attenuare la tremenda tensione sociale che si andava accumulando tra la nuova classe dominante, quella dei capitalisti industriali, e la nuova classe subordinata del proletariato operaio. I moderni schiavi industriali infatti si resero presto conto che rischiavano di essere stritolati dagli ingranaggi del progresso e che la loro condizione peggiorava rapidamente anziché migliorare; essendo inseriti nel processo produttivo al pari delle macchine, essi vennero trattati come tali: dal rapporto uomo-animale si passò a quello uomo-macchina. Analogamente ai loro padroni, essi reagirono sia in maniera violenta, con sommosse e occupazioni di fabbriche, sia producendo o abbracciando una nuova cultura, quale il pensiero socialista o una delle sue evoluzioni come il pensiero anarchico o il pensiero comunista. I lavoratori delle fabbriche fecero ciò che per gli schiavi era impossibile: si organizzarono per ottenere un peso politico maggiore; il risultato fu un lento e sofferto miglioramento delle condizioni di vita degli operai che ottennero, ad esempio, il diritto di formare dei sindacati, poi quello alle ferie, al riposo settimanale ed alla pensione. Se dunque i primi cento anni di economia industriale furono tormentati dalla guerra ideologica tra pensiero liberale e aristocratico, i cento successivi furono straziati dal conflitto fra il pensiero socialista e quello liberale, basti ricordare la rivoluzione russa del 1917, la guerra del Vietnam e la guerra fredda.

APPROFONDIMENTI
 libro2   GUERRA FREDDA

PALCO D’ONORE
    MARIA MONTESSORI   stellastellastella

 

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2.b.19 – Anche l’emancipazione femminile è figlia dell’industrializzazione?

4 Maggio 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

pilota

        

Anche l’emancipazione femminile è figlia dell’industrializzazione?

Alla liberazione della classe operaia dall’oppressione economica seguì l’emancipazione delle donne. Se lo sfruttamento scientifico degli operai era un fenomeno recente, l’oppressione sociale delle donne era una tradizione assai più antica e quindi profondamente radicata nella cultura; una cultura legata alla civiltà agricola nella quale, in genere, le donne avevano ruoli sociali e lavorativi nettamente separati da quelli degli uomini. Nel mondo industriale invece, le donne erano operai come gli uomini, sebbene pagate meno, e una volta diffuso il pensiero che gli operai potevano e dovevano pretendere dei diritti attraverso la lotta di classe, per analogia fu semplice per le donne identificarsi in una nuova classe sfruttata che doveva lottare per emanciparsi. L’analogia era semplice, ma molto difficile da attuarsi: si trattava di interrompere una millenaria tradizione culturale di tipo maschilista.
Già durante la rivoluzione francese, sull’onda dei nuovi principi di libertà, uguaglianza e fratellanza, nel 1792 Olympia de Gouges scrisse la “Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina”, ma il nuovo sistema sociale basato sui suddetti principi, evidentemente non abbastanza rivoluzionario per estenderli anche alle donne, fece in modo che l’autrice della pietra miliare dell’emancipazione femminile venisse prontamente ghigliottinata. Il processo di emancipazione femminile è tutt’ora in corso in quanto non c’e Paese al mondo che tratti le donne esattamente come gli uomini, sebbene gli Stati occidentali, almeno sulla carta, riconoscono parità di diritti. Lo stesso vale anche per altri tipi di discriminazione come quella razziale e quella religiosa.
Oggi, in Italia, fumare in pubblico o indossare i pantaloni è per una donna assolutamente normale e non è proprio concepibile un diverso atteggiamento, ma bisogna ricordare che nel 1965 tali comportamenti venivano ancora considerati come altamente trasgressivi.
Anche il diritto di voto è per le donne una conquista più recente di quanto si pensi: in Italia per esempio tale diritto è stato riconosciuto dopo la fine della seconda guerra mondiale e nella civilissima Svizzera solo negli anni settanta.
Il diritto al voto seguì al riconoscimento di altri due diritti fondamentali: il diritto all’istruzione, che comunque cominciò ad affermarsi solo a fine ottocento, e il diritto all’indipendenza economica, di cui si cominciò a parlare solo nel secondo decennio del novecento. Precedentemente le università erano assolutamente precluse alle donne e i salari, benché guadagnati con il proprio lavoro da operaie, venivano gestiti dagli uomini di famiglia, prima dai padri e poi dai mariti.
Lo sgretolamento di tradizioni così radicate nei millenni nel giro di poche generazioni ci deve insegnare come una nuova cultura, anche profondamente innovativa, possa diffondersi rapidamente e portare conseguenze immediate; sta a noi credere nella possibilità di cambiamento, agire insieme per la sua realizzazione e fare in modo che le conseguenze siano dei benefici per i singoli e per la collettività.

APPROFONDIMENTI
 libro2   EMANCIPAZIONE FEMMINILE

PALCO D’ONORE
    EMMELINE PANKHURST   stella

 

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2.b.20 – Terziario e terzo settore: due fenomeni da distinguere?

5 Maggio 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

mensa

        

Terziario e terzo settore: due fenomeni da distinguere?

Il terziario è il settore economico in cui si forniscono servizi, cioè tutte quelle attività complementari e di ausilio alle attività del settore primario (agricolo) e a quelle del settore secondario (industriale). Tale tripartizione dei settori economici con le relative denominazioni, sebbene universalmente diffusa, non rispecchia il reale e dinamico assetto economico e ingenera confusione: il settore terziario non è infatti meno importante di quello secondario, così come questo non è subordinato a quello primario; le denominazioni numeriche dei settori non rispecchiano neanche la successione con cui sono comparsi nell’evoluzione economica perché, mentre si può sicuramente affermare che il settore industriale si è sviluppato dopo di quello agricolo, altrettanto non si può dire del settore dei servizi rispetto a quello industriale (si pensi all’avvento dei servizi commerciali, bancari e della ristorazione). Siamo poi sicuri che i settori economici siano tre? C’è chi distingue il terziario tradizionale da quello avanzato e chi inizia a parlare di settore quaternario, ma forse sarebbe meglio abbandonare ogni denominazione numerica (diffusasi come moda) e tornare a chiamare i vari settori con il loro nome, cioè con quello che rispecchia le attività economiche che raggruppa.
Per terzo settore si intende invece il settore degli enti non profit, cioè delle organizzazioni di volontariato, delle associazioni culturali, delle ong, ecc, così definito in contrapposizione al settore pubblico delle istituzioni e al settore privato delle imprese (in questa ulteriore fittizia tripartizione nessuno si preoccupa di sapere quale sia il primo e il secondo settore).
Gli enti non profit operano nel contesto socio-economico come organizzazioni di natura privata che però producono beni o servizi nell’interesse del pubblico o di una collettività. Da un punto di vista economico bisogna distinguere tali enti dalle imprese operanti sul mercato in quanto prive di fini lucrativi e allo stesso tempo separarli dalle istituzioni pubbliche in quanto di natura privata. Da un punto di vista sociologico è importante invece sottolineare gli aspetti di natura culturale, etica e motivazionale che implicano necessariamente un profondo coinvolgimento personale degli associati.
Fatta chiarezza sulle definizioni, è importante osservare che, nell’economia moderna o post-industriale dei Paesi occidentali, fasce sempre più numerose di popolazione trovano occupazione nel settore dei servizi con riduzione sia del settore agricolo, sia di quello industriale; tale fenomeno, seguendo la criticata denominazione dei settori, viene comunemente definito terziarizzazione dell’economia.
Anche i fenomeni associativi non profit sono in larga diffusione nei Paesi occidentali; essi tendono a supplire alle carenze di servizi sociali da parte delle istituzioni pubbliche mediante la spontanea auto-organizzazione dei cittadini e ciò, se da una parte allevia i bisogni della popolazione, dall’altra aumenta la percezione della pressione fiscale (che non si trasforma in servizi pubblici) e la sfiducia nelle istituzioni (incapaci di svolgere il proprio ruolo).

ORGANIZZAZIONI NEL MONDO
 lente_ingrandimento1   GREENPEACE

 

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2.b.21 – Può esistere una fabbrica dell’immateriale?

6 Maggio 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

design

        

Può esistere una fabbrica dell’immateriale?

A partire dagli anni sessanta, nei Paesi occidentali, iniziò un rapido periodo di espansione economica dovuto alla diminuzione delle disuguaglianze economiche fra le classi sociali; vi fu un arricchimento generale, testimoniato dall’aumento della domanda sia di beni agricoli e industriali, sia di servizi, che portò a un grande sviluppo di tutti i settori economici. E’ però immediatamente evidente come il mantenimento di una simile prosperità sia necessariamente subordinato a una continua espansione della domanda di beni e servizi e quindi al consumo degli stessi.
Tale fenomeno, definito consumismo, ha portato a un esubero di produzione rispetto ai bisogni della popolazione e ciò nonostante la penetrante persuasione pubblicitaria che induce continuamente nuovi bisogni per alimentare l’insaziabile macchina della produzione. A prescindere dalle conseguenze positive (come la maggiore disponibilità di beni a prezzi decrescenti) e da quelle negative (come l’inquinamento ambientale) provocate dal consumismo, attualmente, ciò che crea valore e vantaggio competitivo in un bene non è più costituito solo dalle sue proprietà funzionali (la confortevolezza di un indumento, il gusto di una bevanda, la versatilità di un telefonino, ecc.), ma è rappresentato sempre di più dalla sua capacità di suscitare una gratificante emozione. Quando sostituiamo un cappotto, probabilmente non lo facciamo perché il vecchio è ormai logoro o perché il nuovo scalda di più, ma semplicemente perché veniamo attratti da una nuova linea di moda che gratifica il nostro desiderio di pavoneggiarci con qualcosa che ci avvolge. Se nella produzione del cappotto la materia usata dal produttore manifatturiero costituisce solo il 15 % del prezzo richiesto, significa che il restante 85 % è rappresentato da un insieme immateriale di design, di griffe, di status symbol; la maggior parte del prezzo non è costituita dalla remunerazione della fabbrica materiale dell’abbigliamento, ma dalla fabbrica immateriale delle emozioni gratificanti.
Un altro fenomeno da osservare è che anche all’interno della fabbrica manifatturiera assume sempre più importanza il lavoro immateriale rispetto al tradizionale lavoro materiale di trasformazione dei beni. La trasformazione fisica dei beni è infatti sempre meno effettuata manualmente dall’uomo e affidata a macchine sempre più complesse; le macchine devono essere progettate con nuove tecnologie, alimentate con nuove fonti di energia, gestite con nuovi flussi di coordinamento, finanziate con nuovi modelli contrattuali, ecc. Il lavoro dell’uomo sta dunque passando dalla trasformazione fisica dei beni alla produzione delle conoscenze che, mediante le macchine ideate, le fonti di energia scoperte e i servizi complementari concepiti, dovranno portare alla trasformazione dei beni. Ecco prendere forma un nuovo tipo di capitalismo: il capitalismo cognitivo.
La conoscenza è senz’altro un bene immateriale, ma è anche un bene molto particolare: è infatti un bene facilissimo da riprodurre (con i moderni mezzi di comunicazione il costo tende a zero), ma difficilissimo da produrre la prima volta. Abbiamo visto come la conoscenza dell’uomo si sia cumulata nel corso del tempo, ma attualmente, vista l’importanza della conoscenza in tutti i processi economici, peraltro sempre più veloci, si rende indispensabile una nuova strategia adattativa all’ambiente che cambia: la condivisione della conoscenza. Con tale strategia si tende a creare una vera e propria filiera cognitiva che porti alla formazione di un moltiplicatore di conoscenze che assecondi il sempre più frenetico sviluppo socio-economico dell’uomo.

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    FRANK LLOYK WRIGHT    stella1stella1

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2.b.22 – Esiste una rivoluzione in corso?

7 Maggio 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

internet

        

Esiste una rivoluzione in corso?

Oggi la nostra economia sta vivendo un profondo riassetto strutturale basato su nuovi principi competitivi come l’apertura, l’outsourcing, la condivisione delle conoscenze e l’azione su scala globale. I nuovi concetti di collaborazione collettiva e di organizzazione autonoma si stanno affiancando a quelli tradizionali di gerarchia e controllo; si stanno affermando delle nuove visioni del mondo e nuovi modelli economici che stanno introducendo una nuova era in cui, oltre al cambiamento delle regole del gioco, si sta modificando la natura del gioco stesso.
E’ sicuramente l’evoluzione di internet che ha permesso l’avvento di questa rivoluzione in atto, lo sviluppo di una rete che già collega più di un miliardo di persone e in cui si rafforzano continuamente delle comunità, si sviluppano collaborazioni partecipative, si condividono esperienze basate sul concetto di uguaglianza, esperienze fra pari. Tutto ciò non va confuso con l’altruismo, né con il non profit o l’hobby; applicare i suddetti nuovi concetti significa spesso sviluppare nuovi ecosistemi di business che, oltre a sviluppare l’innovazione e la crescita generale, producono ingenti profitti per gli operatori economici. Imprese multinazionali come IBM, BMW, Boeing e Lego, solo per citarne alcune, hanno accettato la nuova sfida e hanno già ottenuto grandi risultati. Il coinvolgimento dei consumatori nella fase di produzione (attraverso i nuovi strumenti delle chat, dei forum, dei blog e dei wiki, nonché secondo i nuovi criteri di apertura delle risorse proprietarie, un tempo tenute segretissime dalle imprese) ha, per esempio, portato alla produzione di beni più confacenti alle esigenze delle persone e sviluppato un senso di appartenenza da parte della comunità coinvolta che inevitabilmente ha comportato un importante incremento delle vendite.
La trasformazione delle imprese fornitrici di componenti in imprese partner di un comune progetto di produzione ha altresì permesso una notevole compressione sia dei costi, sia dei tempi di progettazione e realizzazione del prodotto, benché queste avvengano in diversi Stati di diversi continenti in una sorta di catena di montaggio globale.
La generazione dei ragazzi nati negli anni novanta sta crescendo abituata all’interazione permessa da internet; oltre ad essere semplici spettatori passivi della televisione e passivi ricettori del consumismo, i ragazzi della “generazione i” (i come internet ma anche i come iniziativa) crescono navigando nel web, cercando attivamente le informazioni e collaborando fra loro, organizzando creativamente ed autonomamente una grande varietà di attività. Non si può più tornare indietro, come in occasione degli altri fondamentali eventi che hanno caratterizzato la storia culturale dell’uomo, anche ora i nuovi cambiamenti stanno penetrando nella società, stanno mutando il modo di pensare e il comportamento della gente e potranno portare a un nuovo ordine sociale e a nuove istituzioni.

APPROFONDIMENTI
libro2 CHAT, FORUM, OUTSOURCING, WIKI

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LINUS TORVALDS stella1stella1stella1

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2.b.23 – Qual è la cronologia delle tappe fondamentali?

8 Maggio 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

orologio

        

Qual è la cronologia delle tappe fondamentali?

Al fine di poter agevolmente confrontare i periodi di tempo che si sono susseguiti nella nostra storia, ripetiamo il gioco di paragonare la durata di tutto il percorso ad un giorno per poi collocare in esso i momenti storici di riferimento:

ore 00:00 epoca a cui risalgono le tracce più antiche di cultura cumulativa
ore 14:38 epoca a cui risalgono i resti più antichi di homo sapiens moderno
ore 23:25 fine dell’ultima glaciazione
ore 23:37 comparsa dell’agricoltura
ore 23:42 comparsa della scrittura, fine della preistoria ed inizio della storia
ore 23:58:49 inizio dell’era industriale
ore 23:59:42 invenzione della radio
ore 23:59:58 diffusione di internet e dei telefonini

Risulta dunque che, fino agli ultimi minuti della nostra giornata, siamo vissuti di caccia e raccolta come gli ultimi ominidi che ci hanno preceduto; quella che noi chiamiamo storia corrisponde a circa 18 minuti e l’era industriale a 1 minuto e 11 secondi. Se inoltre consideriamo che i resti più antichi dell’uomo moderno risalgono a circa 200.000 anni fa, mentre le prime forme di agricoltura intensiva compaiono circa 6.000 anni fa, risulta che l’umanità ha vissuto in tribù di cacciatori per il 97% della sua esistenza; il periodo dell’economia industriale occupa infine lo 0,15% della nostra storia. E’ da notare che l’evoluzione culturale ha avuto una brusca accelerazione proprio nel periodo di maggiore stabilità del clima e dell’ecosistema.

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    IBN KHALDUN   stella1

 

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2.b.24 – Cosa si intende per emergenza evolutiva?

9 Maggio 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

competizione

        

Cosa si intende per emergenza evolutiva?

Quando cambiano le condizioni di vita di una specie, questa tende ad evolversi a causa della selezione naturale; ciò avviene perché le mutate condizioni ambientali selezionano in modo diverso i geni; quelle che prima erano irrilevanti caratteristiche individuali ora diventano preziose risorse per la sopravvivenza.
Un brusco cambiamento ambientale, per esempio la fine di una glaciazione, provoca una sorta di emergenza evolutiva per le specie coinvolte; esse si trovano nella necessità di cambiare, di evolversi, poiché sottoposte a una nuova pressione selettiva. Questo periodo di disagio, in cui la selezione naturale apparirà particolarmente dura, tenderà ad esaurirsi con il diffondersi dei geni adeguati alle novità ambientali; con il procedere dell’adattamento la pressione selettiva diminuirà e con essa la velocità dell’evoluzione. Possono comunque comparire nuove mutazioni positive, ma esse diverranno sempre meno probabili, l’evoluzione rallenterà e l’ambiente apparirà sempre meno ostile; con il tempo ci si avvicinerà ad una nuova situazione di equilibrio.
Dallo studio del mondo animale e da quello della nostra storia fino alla fine dell’ultima glaciazione, si evince che il suddetto processo è presente anche nell’evoluzione culturale. L’uomo, mediante la cultura, si è infatti adattato agli ambienti più diversi sviluppando vari stili di vita, escogitando le più disparate tecniche per la caccia, per proteggersi dalle intemperie e dai predatori, ecc., raggiungendo infine un equilibrio stabile con l’ambiente; ne sono un esempio gli Eschimesi, gli Indio dell’Amazzonia, i Boscimani del Kalahari e tutte le altre culture tribali che sono sopravvissute nei millenni con piccoli cambiamenti corrispondenti a minime mutazioni ambientali. A parità di ogni altra condizione dunque, in presenza di un brusco cambiamento, l’evoluzione ha la sua massima velocità all’inizio dell’emergenza presentatasi per poi calare in modo più o meno regolare secondo la comparsa di nuove mutazioni. Per quale motivo allora l’evoluzione culturale umana oggi incrementa la sua velocità invece di rallentare? Che cosa è successo dalla comparsa dell’agricoltura in poi? Come mai ci comportiamo come se fossimo sottoposti ad una perenne e crescente emergenza evolutiva?
Tutti gli studi del clima del passato ci dicono che l’evoluzione culturale ha paradossalmente iniziato ad accelerare in un periodo di particolare stabilità ambientale, un periodo in cui non sono comparsi nuovi predatori, né nuove prede, né nuove specie concorrenti ed in cui il clima era mite e regolare come non mai. Cosa spinge dunque la nostra evoluzione culturale se l’ambiente dove viviamo è sempre lo stesso? Per trovare la risposta basta guardarsi attorno: oggi viviamo in città formate da molte migliaia o milioni di abitanti, formate da cemento, asfalto, vetro e acciaio; mezzi motorizzati circolano ovunque e senza di essi non andiamo da nessuna parte; i principali pericoli per la salute e per la sopravvivenza sono gli incidenti stradali, gli incidenti sul lavoro, l’uso di droghe o superalcolici e le varie malattie legate alle mille forme di inquinamento.
Siamo sicuri di poter dire che l’ambiente dove viviamo è sempre lo stesso di 9 mila anni fa? Dobbiamo ammettere che un villaggio fatto di capanne con 70 – 100 abitanti che vivono di caccia, raccolta e forme rudimentali di allevamento o agricoltura è un ambiente diverso dalle città odierne. Il clima non è cambiato negli ultimi millenni, ma l’ambiente dove viviamo sì; è mutato molto profondamente e non accenna a fermarsi. Siamo pertanto veramente sottoposti a una perenne emergenza evolutiva? La risposta è sì, a causa dell’evoluzione culturale dell’ambiente umano.

PALCO D’ONORE
    AUGUSTE COMTE   stella1stella1

 

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2.b.25 – L’evoluzione culturale influenza l’ambiente umano?

10 Maggio 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

grattacieli

        

L’evoluzione culturale influenza l’ambiente umano?

I cambiamenti ambientali che ci hanno interessato dopo l’ultima glaciazione non sono una conseguenza del clima, ma della nostra stessa cultura nonché della spietata concorrenza fra i nostri popoli per contendersi le risorse del pianeta, un pianeta sempre più piccolo per un’umanità sempre più numerosa.
Abbiamo detto che in tempi recenti non sono comparse nuove prede o nuovi predatori, né nuove specie concorrenti; questo non è del tutto corretto e può risultare molto fuorviante. La comparsa di nuove prede nel proprio ecosistema rappresenta infatti la disponibilità di nuove risorse alimentari che aumentano le probabilità di sopravvivenza, turbano i vecchi equilibri e interessano quindi in vario modo tutto l’ambiente; ebbene, che cos’è la diffusione dell’allevamento e dell’agricoltura se non la comparsa di nuove risorse alimentari? Il loro impatto nella nostra vita è stato inoltre molto più grande di quanto abbia mai potuto fare l’introduzione di una nuova preda o di un nuovo vegetale selvatico nel nostro abituale menù: colonizzando tutto il pianeta ci siamo trovati innumerevoli volte davanti a nuove piante commestibili e nuovi animali da cacciare, ma la rivoluzione agricola ha fatto molto di più che aumentare le risorse alimentari, ha profondamente modificato il nostro stile di vita e la nostra economia da sempre basati sulla caccia e la raccolta. Da questo punto di vista la comparsa dell’agricoltura e dell’allevamento costituiscono un cambiamento più profondo di tutti i mutamenti climatici precedenti: mai nulla ci aveva indotto ad abbandonare la vita tribale che aveva accompagnato da sempre la nostra evoluzione biologica.
Un cambiamento così profondo implica una grande spinta evolutiva, cioè la necessità di un rapido adattamento, e noi, secondo la nostra natura, ci siamo adattati culturalmente.
Resta però da spiegare come mai, dopo la diffusione delle civiltà agricole, l’evoluzione culturale non abbia iniziato a rallentare. Come abbiamo detto per le nuove prede, anche la comparsa di nuovi predatori o di nuove specie concorrenti è importante per l’evoluzione, in quanto altera anch’essa le nostre possibilità di sopravvivenza; sappiamo bene però che, da tempo immemorabile, le varie popolazioni umane, non strettamente imparentate tra loro, si considerano e si trattano vicendevolmente come se fossero specie differenti; da sempre esiste per l’umanità una sorta di speciazione culturale, anche all’interno della stessa società, dove spesso appaiono diverse classi o caste sociali nettamente separate, anche sessualmente, grazie ad opportune leggi o convenzioni che proibiscono i matrimoni misti. L’antico detto “homo homini lupus” vuol dire che l’uomo è il predatore dell’uomo e ci indica quindi una triste e ben nota realtà: nel corso della storia sono effettivamente comparsi nuovi predatori e nuovi concorrenti, solo che si trattava di specie culturali umane. Fra popoli diversi non vi è un isolamento genetico e culturale totale, ma è sufficiente da favorire comportamenti tipici dei rapporti fra specie diverse come la predazione e la concorrenza spietata.
Oggi sappiamo che l’allevamento e l’agricoltura sono cambiamenti culturali che ne hanno provocati altri ancora più grandi, come l’abbandono della vita tribale, innescando una reazione a catena che si alimenta da sola; l’evoluzione culturale ha iniziato a girare su sé stessa a velocità crescente come un cane che si morde la coda. Dalla rivoluzione agricola in poi, la nostra vita si è separata dai vecchi ecosistemi e il nostro ambiente è diventato sempre più artificiale, cioè sempre più dipendente dalla nostra cultura; l’ambiente quindi si evolve con la cultura e lo stesso vale per i nostri predatori e concorrenti che, essendo umani, hanno le nostre stesse capacità e velocità di adattamento culturale.
Vi è dunque qualcosa di profondamente vero quando si dice che l’uomo si è separato dalla natura, se per natura intendiamo il nostro ambiente originario; tuttavia, nei nuovi ambienti che abbiamo generato, siamo ancora soggetti alle leggi di natura più spietate come la lotta per la sopravvivenza e la selezione naturale; le regole del gioco sono rimaste le stesse, solo che ora la partita si gioca sul piano culturale anziché genetico.
Per vincere la gara della sopravvivenza la velocità di adattamento è importante, soprattutto se mutano rapidamente le condizioni ambientali e se vi sono dei concorrenti da battere; questo ci porta a sfruttare al massimo le nostre capacità di adattamento culturale, provocando però mutamenti altrettanto rapidi nel nostro mondo artificiale e nei nostri concorrenti, che sono bravi quanto noi ad adattarsi ad essi. Possiamo dunque concludere che da alcuni millenni viviamo veramente in uno stato di perenne e crescente emergenza evolutiva, alimentata e rafforzata dalla nostra concorrenza interna.

PALCO D’ONORE
    DONALD NORMAN   stella1

 

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2.b.26 – La storia si dirige naturalmente verso il progresso dell’uomo?

11 Maggio 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

gas

        

La storia si dirige naturalmente verso il progresso dell’uomo?

Se è vero che l’evoluzione culturale è come una trottola impazzita che gira sempre più velocemente, è doveroso fare le seguenti inquietanti considerazioni:
a) l’emergenza evolutiva è crescente, quindi richiede adattamenti sempre più rapidi e profondi mediante una selezione naturale sempre più esigente, dura e mutevole; abbiamo dunque ragione di credere che l’evoluzione culturale post-agricola abbia portato nel tempo a un peggioramento della qualità media della vita. In effetti la vita degli schiavi era presumibilmente assai peggiore di quella dei loro antenati liberi e, dato che gli schiavi costituivano una percentuale notevole della popolazione totale, la qualità media totale si abbassò in modo significativo; lo stesso si può dire con riferimento agli operai della prima rivoluzione industriale ed oggi in relazione alle popolazioni del terzo mondo, per non parlare dei nativi americani che, in nome del progresso, sono stati addirittura sterminati. I libri di storia, in origine, sono nati con una funzione celebrativa delle gesta dei re e degli imperatori, nonché dei successi delle grandi potenze militari ed economiche; queste finalità, almeno in parte, sono ancora presenti oggi, ma non bisogna confondere i progressi ottenuti da una parte dell’umanità, la parte dominante, con i progressi dell’intera umanità; ciò naturalmente a meno che non si considerino gli schiavi e gli abitanti del terzo mondo come non umani;
b) Quello che in genere chiamiamo progresso spesso altro non è che la soluzione ai problemi creati dal progresso precedente. Il vero progresso culturale esiste veramente, intendiamoci, ne sono evidenti esempi i progressi della medicina, i diritti umani e quelli dei lavoratori, ma costituisce solo una piccola parte dell’evoluzione culturale, spesso si presenta in modo isolato e occasionale e nulla prova che sia permanente. Esempi di regresso civile e culturale non sono rari nella storia, basti ricordare il medioevo ellenico e quello occidentale;
c) Quando si parla di progresso, questo spesso è tale per il gruppo, il popolo o la nazione che crescono come territori ed economia, ma non per tutti gli individui che la compongono.
d) Che la concorrenza fra gruppi umani sia il motore dell’evoluzione culturale è confermato dal fatto che molte delle più importanti innovazioni tecnologiche, come l’acciaio, il radar, l’energia atomica e i satelliti artificiali, sono nate per applicazioni militari e la maggioranza delle altre sono avvenute per scopi industriali, guidati dalla concorrenza economica;
Vi sono dunque ottime ragioni per mettere in dubbio l’ipotesi che la storia tenda spontaneamente verso il progresso dell’uomo; alle considerazioni precedenti se ne aggiungono poi altre di carattere biologico, demografico ed economico: il nostro ecosistema culturale, estendendosi, ha tolto spazi sempre maggiori a quelli naturali, provocando disastri ambientali in tutto il pianeta; il mondo industriale consuma risorse non rinnovabili come il carbone e quelle rinnovabili, come il legno, le consuma troppo velocemente, rendendole di fatto non rinnovabili e quindi esauribili; l’aumento demografico incrementa i problemi precedenti alimentando nuovi consumi, provocando la crescita dell’inquinamento e guerre più frequenti, con eserciti più grandi e tecnologicamente più efficienti e spietati; le due guerre mondiali del XX secolo sono un esempio ben noto a tutti; si disse allora che dopo tanto orrore l’uomo avesse imparato ad apprezzare la pace e che quelle due guerre fossero state un prezzo da pagare affinché non vi fossero più guerre, ma fu un’illusione di breve durata: nei successivi 50 anni sono state combattute molte guerre, meno estese nel numero delle nazioni coinvolte, ma altrettanto inumane e con armi ancor più terribili.
Ancora una volta è dunque importante fare distinzione fra evoluzione e progresso: il progresso è una evoluzione positiva, un miglioramento in un certo contesto che non è sempre cumulabile, poiché può essere perso in un ambiente diverso; l’evoluzione invece non è sempre positiva e non è tenuta affatto ad accumulare miglioramenti: l’evoluzione tecnologica produce il progresso medico, ma se questo regredisse l’evoluzione andrebbe avanti lo stesso; un’evoluzione negativa o regresso è comunque un’evoluzione che procede avanti nel tempo; infatti nessuno si sogna di dire che gli uccelli che hanno perso la capacità di volare, come gli struzzi o i pinguini, sono meno evoluti dei loro antenati; l’evoluzione va sempre avanti negativa o positiva che sia, il progresso invece no.
La teoria della selezione naturale applicata alla cultura ci dice che l’evoluzione non tende al progresso umano, può farlo in certi casi utili per la sopravvivenza, ma la naturale tendenza della storia verso un futuro migliore appare oggettivamente solo un mito, una favola, una speranza e nulla più.

IL CASO CELEBRE
    JOSEF KRAMER

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2.b.27 – La cultura è oggi un problema o una risorsa?

12 Maggio 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

gabbia

        

La cultura è oggi un problema o una risorsa?

L’evoluzione culturale è un fenomeno naturale e può essere benigna o maligna come la natura stessa; dalla rivoluzione agricola in poi si è inserito in essa un negativo percorso a spirale; ora anche nelle ricche e grandi città, dove vivono i privilegiati dell’economia industriale, quelli che hanno ragione nel vedere un loro progresso nella storia recente, il sovraffollamento sta infatti provocando una serie di problemi psicologici e sociali, la criminalità è sempre in crescita, come anche lo stress, l’isolamento e l’alienazione dell’individuo, la depressione e l’inquinamento locale. Alcuni chiamano le attuali metropoli giungle d’asfalto per evidenziarne alcuni aspetti crudeli, altri le paragonano a dei formicai umani, per la loro densità di popolazione, ma il noto zoologo e divulgatore Desmond Morris, che è stato a lungo il direttore dello zoo di Londra, ha osservato che gli animali, nella giungla, cioè nel loro ambiente naturale, non soffrono di nervosismo, non si sottopongono a delle automutilazioni, non hanno esplosioni di aggressività e tanto meno uccidono i propri simili; qualora invece gli stessi animali vengano costretti in cattività e ammassati in soprannumero nella stessa gabbia, si riscontrano tutti i suddetti comportamenti; nel caso di animali che vengano costretti in isolamento troviamo invece depressione, apatia e persino devianze sessuali. La costrizione in un habitat innaturale porta insomma gli animali a tenere gli stessi comportamenti riscontrabili nelle società umane e ciò avviene per le medesime cause: la riduzione dello spazio vitale o sovraffollamento e l’isolamento sociale del vivere in una città di estranei.
Pertanto definire una grande città come una giungla d’asfalto è decisamente improprio, è molto meglio definirla come uno zoo umano. Noi, i segregati dello zoo umano, abbiamo per giunta delle aggravanti: ci autorecludiamo e spesso ci consideriamo liberi, abbiamo la possibilità di migliorare la gabbia e invece la peggioriamo o la devastiamo, siamo la causa dei nostri problemi, siamo ognuno il carceriere dell’altro e non ce ne rendiamo conto.
I moderni direttori degli zoo, conoscendo questi fenomeni, evitano di ammassare troppi animali in uno spazio ristretto o di privarli di rapporti sociali; noi non abbiamo lo stesso riguardo per noi stessi, o meglio non ce l’ha la nostra evoluzione culturale.
È possibile allora sfuggire a questa spirale negativa? Con il nostro numero è cresciuto anche il nostro grado di specializzazione e la nostra dipendenza dalla comunità; i cittadini di oggi non sarebbero in grado di sopravvivere se posti improvvisamente in una foresta e se anche qualcuno insegnasse loro come fare, sarebbero in troppi, non esistono tante foreste da ospitarli tutti; non si può dunque assolutamente tornare indietro, bisogna andare avanti sfruttando al meglio le nostre risorse, compresa la collaborazione in una grande comunità. Considerando che il mondo cambia sempre più velocemente, per risolvere i problemi del futuro, compresi quelli relativi all’evoluzione culturale, abbiamo sempre meno tempo; ne segue che l’unica speranza di salvezza, paradossalmente, è proprio un rapido adattamento culturale, dei singoli e delle comunità.
La cultura è la nostra unica risorsa disponibile in questa situazione di rapidi cambiamenti; la fonte di tutti i grandi problemi sopra citati, d’altro canto, è un’ evoluzione culturale fuori del nostro controllo; partendo da queste due premesse, vediamo che il nocciolo del problema non è la cultura, ma la mancanza di controllo del processo evolutivo, che avanza abbandonato a sé stesso, guidato solo dalle impietose leggi della concorrenza e della selezione naturale. Dobbiamo però ora ricordare che esiste una componente dell’evoluzione che invece è sotto il nostro controllo: è quella parte dovuta a un nostro studio consapevole e sistematico, guidata dalla scienza e dalla ragione, quella che abbiamo definito come la selezione artificiale della cultura e che in genere realizza il vero progresso per l’umanità. Questa componente ha già fatto molto per mitigare gli effetti negativi della spirale perversa in cui ci troviamo, tanto da farcela confondere con il vero progresso, ma non è ancora abbastanza forte da fermare tale spirale; il mondo continua infatti a cambiare a velocità crescente e gli aspetti negativi non possono più essere ignorati.
Per nostra fortuna il progresso delle scienze naturalistiche, altro frutto dell’evoluzione culturale, oggi ci consente di capire i meccanismi dell’evoluzione stessa e ci dona la possibilità di poterli gestire a nostro vantaggio; oggi abbiamo la possibilità di rafforzare la parte positiva dell’evoluzione per bloccare quella negativa, dobbiamo solo imparare a gestire meglio la nostra cultura. Solo quando si riuscirà in tale gestione, avendo ben capito i meccanismi evolutivi, l’evoluzione frenetica si orienterà nella giusta direzione e finalmente rallenterà.
In altre parole, prendendo atto che il progresso spontaneo è un mito, dobbiamo concludere che a realizzare un futuro migliore dobbiamo pensarci noi, curando intenzionalmente e razionalmente i nostri interessi, a cominciare dal benessere individuale. Di nuovo, la cultura si presenta come la nostra risorsa principale, come la vista per i falchi e l’olfatto per i cani, non possiamo e non dobbiamo farne a meno.

IL CASO CELEBRE
 uk1   JAMES CHADWICK

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Capitolo 2.c

13 Maggio 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

LA GESTIONE CULTURALE

Guardiamo avanti. Abbiamo scoperto che è di primaria importanza imparare a gestire la nostra cultura e la sua evoluzione; anche se con un certo grado di inconsapevolezza, in parte lo stiamo già facendo e quindi non dobbiamo partire da zero; qualunque obiettivo ci si ponga, sappiamo però per esperienza che per raggiungerlo si devono sfruttare al meglio gli strumenti che la natura ci ha messo a disposizione; andare contro natura è come nuotare contro corrente: non si ottiene nulla e si consumano tante energie. Prima di tutto allora, vediamo di quali strumenti naturali siamo dotati per gestire il nostro patrimonio culturale.

Sulla cresta dell'onda

CONCETTI IN MUSICA
   LIGABUE – BALLIAMO SUL MONDO

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2.c.1 – Il cervello è la nostra plancia di comando?

14 Maggio 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

sinapsiIl cervello è la nostra plancia di comando?

Il cervello è l’organo deputato alla produzione della cultura, è la sede dell’intelligenza, della volontà, della fantasia e della memoria; la mente umana è costituita da un insieme di attività del cervello, tali attività producono i pensieri, ricevono ed elaborano gli stimoli esterni, rievocano i ricordi; quando pensiamo, noi tutti “sentiamo” nella nostra mente i nostri pensieri, come vi fosse una voce interna, ma è importante osservare come ciò non avvenga sempre; esistono infatti numerose prove sperimentali che ci mostrano come solo una parte dei nostri pensieri venga ascoltata e lo stesso vale per la ricezione degli stimoli. In altre parole alcuni pensieri sappiamo di pensarli ed altri no, alcune cose sappiamo di averle viste, di averle udite ed altre no; l’insieme dei pensieri che vengono percepiti viene detto coscienza, mentre quello dei pensieri inconsapevoli viene detto inconscio; si badi bene che la mente è una sola, però solo una parte di essa viene da noi percepita; inconscio e coscienza appaiono dunque separate solo alla nostra percezione, ma in genere svolgono un lavoro comune con armonia e coerenza poiché sono parti della stessa mente, anch’essa frutto dell’evoluzione biologica che, come abbiamo visto, si è sviluppata creando organi e organismi sempre più complessi, ma sempre basati sulla sinergia e sulla specializzazione e sempre dotati di funzionalità ben determinate e selezionate.
Noi tutti nel disegnare una figura qualsiasi guidiamo la nostra mano con piena coscienza; se invece parliamo con un amico durante una passeggiata noi non pensiamo a quello che fanno le nostre gambe, esse sembrano muoversi da sole e lo stesso vale per tutti i movimenti automatici, molti dei quali spesso neanche ci accorgiamo di compiere; le gambe però non possono camminare da sole, questi movimenti sono comunque comandati dal cervello, ma non in modo cosciente.
È importante notare che il concetto di movimento automatico è ben diverso da quello di movimento istintivo o innato: noi possiamo lasciarci assorbire dal discorso con un amico anche quando guidiamo un’automobile o una bicicletta e certo questi non sono movimenti istintivi previsti dalla natura, si tratta di movimenti automatici, ma appresi, non innati; tutto ciò ci rivela che la parte nascosta della nostra mente è in grado di imparare, sia in modo diretto che culturale. Per usare un’analogia informatica, l’inconscio è in grado di svolgere delle funzioni in parallelo mentre siamo concentrati su un’attività che in quel momento si considera prioritaria, ma tali funzioni non sono solo gestite da software di servizio che non richiedono aggiornamenti come quelli istintivi, bensì anche da software sempre più complessi che si aggiungono e si sovrappongono con continui aggiornamenti.

PALCO D’ONORE
    SIGMUND FREUD   stella1stella1stella1stella1stella1

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2.c.2 – Disponiamo di un archivio mentale?

15 Maggio 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

archivioDisponiamo di un archivio mentale?

È stato dimostrato che, in una data situazione, la nostra mente sceglie in modo automatico fra vari tipi di comportamento appresi in precedenza e che tali scelte sono effettuate in base a dei criteri, ad esempio i valori morali, a loro volta appresi culturalmente; ne segue che l’inconscio svolge una parte fondamentale nella gestione del comportamento e della cultura; noi tutti abbiamo nella testa una sorta di archivio nel quale si conservano i modelli di comportamento e di ragionamento, nonché un sistema automatico di gestione programmabile culturalmente. Uno strumento naturale e fondamentale per la gestione della cultura dunque esiste ed è costituito da un sistema di gestione automatica della memoria basato sull’apprendimento.
La scienza oggi ci dice che noi siamo in grado di fare quasi tutto senza accorgercene: muoverci, comunicare, sentire, ricordare, reagire, decidere, imparare; l’inconscio è in grado di fare tutto quello che fa la coscienza, l’unico suo limite sembra essere quello di non poter fare progetti; a ben vedere però, la coscienza sviluppa qualsiasi progetto sulla base dei desideri originati dall’inconscio e quindi tale funzione è una prerogativa delegata e subordinata.
Ancora oggi è opinione largamente diffusa che la coscienza sia la parte più nobile dell’uomo, avendo il compito di controllare i nostri antichi istinti bestiali, ma i dati sperimentali ci mostrano una realtà ben diversa: nella maggioranza dei casi la coscienza ha un ruolo subordinato rispetto alla sua controparte occulta, la quale coordina istinti, desideri ed emozioni, anche le più nobili come l’amore e l’altruismo, gestisce i criteri di giudizio, compresi i valori morali, che vengono imposti alla coscienza come un prodotto già finito, sotto forma di ordini da eseguire o direttive da rispettare senza discussioni.
Il ruolo principale della coscienza sembra quindi essere quello di soddisfare le esigenze individuate dall’inconscio e pertanto non è nella sua natura criticare gli ordini ricevuti da quest’ultimo; non è dunque ragionevole fare affidamento sulla coscienza per riconoscere e cambiare cattive abitudini o atteggiamenti sbagliati perché essa li considererà sempre giusti o quantomeno accettabili; è necessario un aiuto di tipo culturale, una forma di educazione del proprio inconscio, in quanto, come abbiamo visto, l’apprendimento è la base per l’impostazione della gestione automatica.
Si badi bene però che educare l’inconscio non vuol dire fare il lavaggio del cervello, condizionare una persona contro la sua volontà o a sua insaputa: quando impariamo a guidare l’automobile ne siamo perfettamente consapevoli, ma alla fine guideremo senza pensarci; educare o ricevere un insegnamento rimane un atto cosciente anche quando viene coinvolto l’inconscio, è quest’ultimo che rimane sempre nascosto, non l’insegnamento.
Rimane tuttavia il problema di riconoscere e rifiutare atteggiamenti sbagliati che siamo abituati ad accettare; anche in questo caso, per trovare la soluzione, dobbiamo far riferimento alla nostra esperienza passata e alla nostra natura: a tutti noi nella vita è capitato di cambiare opinione, abitudini e gusti; l’inconscio è in grado di correggersi, è anche questa una forma di apprendimento, una risposta a stimoli ambientali. Si può dunque concludere che il meccanismo dell’apprendimento deve essere ben compreso per poter essere sfruttato al meglio nella sua funzione naturale.

 

PALCO D’ONORE
    ERICH FROMM   stella1stella1stella1

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2.c.3 – Il mondo dove viviamo è reale o immaginario?

16 Maggio 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

immaginazioneIl mondo dove viviamo è reale o immaginario?

Un neonato di pochi mesi si porta tutto alla bocca per studiare ed esplorare il mondo che lo circonda; a un anno afferra e tocca di tutto e sarebbe anche capace di infilare le dita nella presa della corrente elettrica; crescendo il nostro comportamento cambia, siamo ancora curiosi, ma di cose nuove, le esperienze della prima infanzia sono ormai assorbite e consolidate, da grandi non abbiamo più bisogno di toccare un muro per sapere che è solido o il ghiaccio per sapere che è freddo. Una buona parte del mondo che percepiamo è costituita dunque dai nostri ricordi, ma le esperienze non sono però un semplice ricordo: fare tesoro di un’esperienza vuol dire non solo ricordare le sensazioni avute, ma anche averle valutate, associate con relazioni tipo causa-effetto, ecc. e tali associazioni e valutazioni sono indubbiamente frutto della nostra capacità di immaginazione. Una parte del nostro mondo è allora costituita anche dalla nostra fantasia e prova ne sia il fatto che per molti secoli abbiamo vissuto con la convinzione che la Terra fosse al centro dell’universo e che tutto ruotasse attorno ad essa oppure il fatto che la Terra stessa è sempre stata considerata piatta e non sferica.
Quando cade una nostra certezza ci si rende conto che il mondo non è come lo avevamo immaginato, si capisce che, almeno in parte, fino a quel momento eravamo vissuti in un mondo immaginario, ma d’altra parte il nostro mondo immaginario ci sembrava assolutamente reale e coerente, non dava problemi, perché dubitarne? Perché cercare un mondo reale, complicato e difficile da conoscere nei dettagli, quando ve ne sono centinaia più semplici da immaginare, capire e padroneggiare? Immaginare una realtà coerente con le nostre esperienze personali permette di risparmiare tempo ed energie in ricerche lunghe, complicate o addirittura proibitive e ci permette quindi di stabilire come agire con rapidità, sicurezza e minimo sforzo. Certo, talvolta c’è la possibilità di agire nel modo sbagliato, ma l’alternativa è non agire in tempo utile o non agire affatto. Come sarebbe possibile vivere da adulti se dovessimo ogni volta ricontrollare tutto, assaggiando e toccando ogni cosa come dei bambini piccoli?
Il mondo immaginario che viene così costruito è allora uno strumento di sopravvivenza che permette di orientarsi in un mondo difficile da capire, è dunque una delle nostre principali strategie evolutive.
Considerando quindi che:
• la portata dei nostri sensi è limitata e permette una conoscenza parziale, a volte insufficiente, del mondo che ci circonda;
• uno studio accurato del mondo è lungo, faticoso e a volte inutile, in quanto non permette di agire tempestivamente;
appare verosimile l’ipotesi che la natura abbia concepito e selezionato la nostra mente non per comprendere il mondo reale, ma per immaginarne uno equivalente che risulti il più adatto possibile a soddisfare le esigenze della vita quotidiana. Lo scopo principale è quello di permettere un comportamento adatto per la sopravvivenza, impiegando un tempo minimo e risparmiando energie, secondo un sano principio di economia mentale che porti alla massima efficienza.
La biologia ci mostra che l’esperienza si basa sulle sensazioni ricevute dagli organi di senso stimolati dal mondo che ci circonda; in questo caso si parla di esperienza diretta ed è sicuramente la forma più antica. Dai contatti con i genitori, gli amici e gli insegnanti riceviamo poi in modo indiretto anche il frutto dell’esperienza altrui, acquisendo la cosiddetta tradizione culturale.
Sappiamo inoltre che ogni esperienza è un misto di ricordi, associazioni e valutazioni personali e che il ricordo dell’esperienza così strutturato forma nella mente un modello della stessa che può essere rievocato a piacere. Le esperienze ripetibili, accumulandosi, formano un modello del mondo che ci consente di prevedere gli eventi in modo da goderne se positivi o da evitarli se negativi. Trarre insegnamento da una esperienza vuol dire allora aver formato una rappresentazione del mondo ed averla usata per stabilire il nostro comportamento futuro, analogamente a quanto facciamo con una mappa per stabilire il percorso di un viaggio. Si tratta di un processo automatico avviato dall’esperienza.
È bene porre in evidenza che, una volta creato un buon modello, questo può essere utilizzato più volte e per vari scopi; la rappresentazione del mondo non è quindi legata a un fine in particolare, ma si presta a mille usi e pertanto è opportuno dedicarsi a tale rappresentazione come una attività fine a se stessa. Non è un caso che la natura sfrutti questo principio mediante la curiosità, cioè attraverso un istinto che porta a esplorare l’ambiente senza un immediato fine pratico e non è un caso che tale istinto sia profondamente radicato nell’animo umano.
A questo punto, capito che l’origine dei modelli mentali è intrinsecamente legata allo sviluppo di comportamenti adatti alla sopravvivenza, è bene notare che un errore nel modello che non comprometta tale comportamento può essere considerato accettabile dalla nostra natura. Portando all’estremo tale ragionamento, anche un modello completamente errato che però porti al giusto comportamento può essere accettato ai fini della sopravvivenza e risultare equivalente al modello idealmente corretto; in fondo si tratta di una preziosa occasione in più per trovare la via giusta. Infine, se un modello si presta meglio allo sviluppo di un tale comportamento, anche se più lontano dalla realtà, tale modello risulterà addirittura migliore ai fini della sopravvivenza rispetto alla realtà.
Da quanto detto si deduce che non ci si deve stupire se la mente umana risulta programmata a soddisfare la propria curiosità con fantasie che ben poco hanno a che spartire con il mondo reale. Ciò che la nostra curiosità cerca non è una rappresentazione fedele della realtà, ma un modello equivalente che porti al massimo risultato con il minimo sforzo.

IL CASO CELEBRE
CRISTOFORO COLOMBO

CONCETTI IN PILLOLE
pillola1 n. 8 – IL MONDO IMMAGINARIO
Il mondo immaginario
 
 
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Domenica 17 maggio 1309

17 Maggio 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

La danse des drapeaux

SVENTOLINO I VESSILLI!

Oggi è festa nel Villaggio di Ofelon!

A tre mesi dalla fondazione del Villaggio di Ofelon
oltre sedicimila “viandanti telematici”
hanno visitato il Villaggio.
vi aspettiamo tutti con piena cittadinanza, muniti del vostro avatar,
per ampliare sempre di più la nostra tavola rotonda
in cui vogliamo confrontarci su temi importanti,
ma sempre divertendoci insieme
e fino a raggiungere risultati concreti
per un effettivo, diffuso e percepito miglioramento
della qualità della nostra vita.

Ofelon per tutti
e tutti per Ofelon!

logo_ofelon_60_colore

 

2.c.4 – La chiusura mentale è un fenomeno naturale?

18 Maggio 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

chiusuraLa chiusura mentale è un fenomeno naturale?

La nostra vita si basa sulla visione che noi abbiamo del mondo, cioè sul modello mentale che ci siamo costruiti per orientarci fra le leggi della natura, per intrattenere rapporti umani, per decidere cosa è bene e cosa è male, per definire il nostro ruolo nella famiglia, nella società e nell’universo; si tratta di una vera e propria mappa mentale per muoverci nel mondo reale. Non potendo disporre di una sfera magica che ci dica come effettivamente funzioni il mondo, ci dobbiamo arrangiare con i nostri sensi e la nostra capacità di immaginazione; quello che otteniamo non è la verità, ma un modello che risulti equivalente ai fini del corretto comportamento per la sopravvivenza.
Tale modello si crea lentamente nel tempo; fin dalla prima infanzia inizia a formarsi nella nostra mente sulla base delle esperienze personali per poi integrarsi con la tradizione culturale; nella nostra mente, l’immagine del mondo, della società e persino quella di noi stessi, deve essere coerente sia con le nostre esperienze, sia con quanto ci viene insegnato a casa e a scuola e con quanto ci viene raccontato da parenti, da amici e dalla televisione. Organizzare in modo coerente tutta questa impressionante mole di informazioni, creare cioè una mappa mentale che risulti affidabile, è un lavoro tanto complesso quanto fondamentale per la nostra vita, ma che rischia di essere messo in crisi da ogni nuova esperienza.
Quando nei primi anni del XVII secolo il celebre astronomo Galileo Galilei affermò che l’universo non gira attorno alla Terra, come si credeva allora, ma che è la Terra a girare su sé stessa come tutti i pianeti, vi fu grande scandalo e gli venne imposto con la forza di ritrattare le sue teorie. Cosa c’era mai di così sconvolgente nel nuovo modello del mondo? Che cosa era così difficile da accettare? La novità avrebbe dovuto essere del tutto irrilevante per chiunque non fosse stato un astronomo; nessun falegname, contadino o fabbro avrebbe visto cambiare la propria vita se la nuova teoria fosse stata accettata e lo stesso si può dire dei nobili e dei sacerdoti, visto che né sulla Bibbia né sui Vangeli vi era scritto qualcosa in contrasto con essa, ma l’apparenza in questo caso ci inganna; la centralità della Terra, il fatto che tutto ruotasse attorno ad essa, era infatti la principale conferma oggettiva della centralità dell’uomo nella Creazione, e quindi della nostra importanza agli occhi di Dio; indirettamente era una prova dell’esistenza stessa di Dio e quindi giustificava sia l’autorità religiosa, sia quella politica, a quei tempi basata sul diritto divino. Quella che doveva essere una semplice scoperta astronomica rischiava di mettere in crisi la fede e la stabilità politica di intere nazioni, poiché demoliva il modello del mondo su cui si fondavano e che nessuno osava mettere in discussione. Quanto accadde a livello generale può accadere anche a livello individuale; un uomo fiero e sicuro di sé in quanto stimato per il suo lavoro, grazie al quale riesce a mantenere la famiglia e a dire a sé stesso di essere un buon padre, può andare psicologicamente in pezzi in caso di perdita del lavoro, anche se non per colpa sua, e sentirsi un fallito. Se ogni novità può mettere in discussione la nostra preziosa visione del mondo, se questa è veramente così fragile, come mai non entra in crisi tutte le settimane? Come riusciamo ad evitare questo pericolo? La risposta che la natura ha dato a questo problema è di una semplicità disarmante: al presentarsi di nuove esperienze, anche culturali, il nostro cervello si sforza di aggiornare la sua visione del mondo con piccole modifiche, in modo da mantenerla sempre coerente con tutte le esperienze vissute fino a quel momento; quando però piccole modifiche non sono sufficienti, cioè quando è difficile inserire la nuova esperienza nel vecchio contesto, valutiamo inconsciamente se vale la pena accettare la novità, rischiando di far crollare il nostro sistema di credenze e di mandare di conseguenza in crisi la nostra vita; se accettare la nuova esperienza non è indispensabile, essa viene pertanto rifiutata, dando origine alla cosiddetta chiusura mentale, al rifiuto dell’evidenza dei fatti, all’oscurantismo. Si tratta, in fondo, di un’ulteriore applicazione del principio dell’economia mentale: rivedere completamente o in buona parte un modello che ha richiesto anni per essere costruito e che è risultato efficace e funzionale, può essere molto dispendioso e rischioso poiché nulla garantisce di trovarne un altro migliore e in tempi brevi; dal punto di vista della sopravvivenza è dunque logico che la nostra mente rifiuti caparbiamente di modificare il suo sistema di credenze e quindi il suo attaccamento ad esso è solo apparentemente irrazionale.

 

 

PALCO D’ONORE
    IMRE LAKATOS   stella1
                                                        
                                                                                         La mappa mentale
CONCETTI IN PILLOLE
 pillola1   n. 9 –  LA MAPPA MENTALE

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2.c.5 – Esiste un inquinamento psicologico?

19 Maggio 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

inquinamentoEsiste un inquinamento psicologico?

Quando ci accorgiamo che delle credenze sono del tutto infondate, le definiamo superstizioni, se riguardano eventi naturali e pratiche magiche o religiose, oppure pregiudizi se si riferiscono alla natura umana e alla vita sociale. Tuttavia, ci accorgiamo dell’infondatezza delle credenze solo quando giudichiamo quelle diverse dalle nostre, dato che ognuno di noi normalmente non è in grado di valutare le proprie.
Superstizioni e pregiudizi vengono tradizionalmente considerati frutto dell’ignoranza, ma in base alle considerazioni precedenti risulta evidente come siano fenomeni naturali dovuti al sorprendente processo che produce la conoscenza umana partendo da poche sensazioni e da molta fantasia (o intuito); se poi ricordiamo che buona parte delle nostre credenze non sono dovute all’esperienza diretta, ma alla nostra tradizione culturale, dobbiamo ammettere che pregiudizi e superstizioni sono spesso frutto della nostra cultura e non dell’ignoranza. Gli esempi sono numerosi: le discriminazioni nei confronti delle donne o delle minoranze religiose, le varie forme di razzismo e le credenze nelle varie pratiche magiche sono infatti fenomeni di chiara origine culturale che variano da popolo a popolo e di epoca in epoca.
Le false credenze ci appaiono vere fino a prova contraria e spesso anche dopo, se non si presentano alternative migliori; esse sono state accettate perché apparentemente non danno problemi alla nostra vita, ma le conseguenze negative possono presentarsi anche dopo molti anni quando si sono ormai profondamente radicate nella nostra mentalità. Non è facile rivedere le convinzioni consolidate, ma in un mondo che cambia in fretta, l’aggiornamento del proprio sistema di credenze diventa una necessità sempre più frequente, perché è sempre più facile che nella nostra mente vi siano idee non solo errate, ma risultanti addirittura dannose nel nuovo contesto formatosi.
La diffusa opinione che bere bevande alcoliche sia un atteggiamento da vero uomo ha infatti comportato gravissime conseguenze soprattutto dopo la diffusione dell’automobile, poiché il numero dei morti in incidenti automobilistici causati dall’alcol è elevatissimo ogni anno; tale usanza provocava gravi problemi anche prima, ad esempio la cirrosi epatica, ma era necessario bere molto di più e più a lungo nel tempo per rischiare la vita. Come ulteriore esempio si può citare la convinzione che i governanti agiscano sempre o quasi nell’interesse della patria e dei cittadini, convinzione che da sempre porta le masse a morire in tempo di guerra per interessi altrui.
Dobbiamo allora distinguere fra credenze false e convinzioni nocive: le prime fanno parte della nostra natura, sono inevitabili, ma in genere non danno problemi, le seconde sono quelle che invece comportano conseguenze di una certa gravità. In base alla logica della natura, quando un’idea comporta troppi guai dovrebbe essere sostituita con un’altra migliore, ma ciò avviene solo se la nostra mente percepisce la vera causa di questi guai; per esempio, le norme igieniche si sono diffuse con razionalità solo dopo la scoperta che le malattie erano causate dai batteri. A volte però, nemmeno la consapevolezza della causa è sufficiente: il cancro al polmone è stato associato alle sigarette, ma essendo un fenomeno relativamente raro, viene percepito dai fumatori come una disgrazia che colpisce i fumatori più sfortunati; per loro la vera causa è dunque la sfortuna e non l’uso delle sigarette; un discorso analogo si può fare per l’eccesso di velocità o l’abuso di alcol.
I nostri livelli di tolleranza riguardo ai problemi che ci affliggono sono troppo alti; dobbiamo perfezionare i processi con cui liberarci dalle cattive abitudini e dalle convinzioni nocive perché la nostra mente è sempre più piena di idee deleterie che, nell’insieme, formano una sorta di inquinamento psicologico che ci porta a muoverci contro i nostri interessi. Questa massa di idee spazzatura, che può derivare dalla nostra tradizione culturale o da errate valutazioni personali, a volte può avere anche una funzione positiva: la credenza nel malocchio per esempio ci aiuta a superare la paura dell’ignoto in quanto individua una causa fittizia contro la quale però c’è rimedio; dopo che il mago di turno ci ha tolto il malocchio, possiamo con rinnovata sicurezza affrontare e superare un periodo difficile, cosa prima impossibile senza una causa da eliminare per risolvere i nostri problemi; simili superstizioni diventano dannose solo quando ci si rivolge al mago per curare delle malattie, per il resto, contro la sfortuna, funzionano ancora bene e sarebbe un errore eliminarle senza sostituirle con qualcosa d’altro.
Noi tutti sappiamo che l’alta velocità è la principale causa di incidenti, ma l’incidente è un evento raro che capita solo ai più sfortunati; ne segue che, quando usciamo e corriamo con la nostra auto, pensiamo che l’incidente capiterà sempre a qualcun altro. Al nostro primo sinistro però, anche se lieve, il nostro atteggiamento cambia e per molto tempo, a volte per sempre, guideremo con maggiore prudenza ricordando che tale guaio può capitare anche a noi. Come abbiamo detto, l’apprendimento dell’inconscio dipende dall’esperienza; la nostra coscienza era consapevole dei rischi dell’alta velocità anche prima dell’incidente, ma l’inconscio, la parte dominante della nostra mente, aveva invece bisogno di un bello spavento per rendersene pienamente conto e cambiare la percezione del pericolo. Risulta quindi chiaro che per combattere l’inquinamento psicologico spesso non è sufficiente affidarsi alla nostra coscienza, per quanto bene informata, ma diviene necessario migliorare la percezione della realtà attraverso opportune e controllate esperienze.

 

PALCO D’ONORE
 it1   MASSIMO POLIDORO   stella1
                                       

CONCETTI IN PILLOLE
 pillola1  n. 10 – L’INQUINAMENTO PSICOLOGICO                                          L'inquinamento psicologico

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2.c.6 – La filosofia ha una funzione biologica?

20 Maggio 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

filosofiaLa filosofia ha una funzione biologica?

Un’antica tradizione fa risalire al celebre filosofo Pitagora la prima definizione di filosofia; egli indica come filosofia una continua ricerca senza fine della sapienza, una sapienza perfetta alla quale ci si può avvicinare, ma che nella sua interezza è riservata solo agli dei.
Nel tempo, mutando il modo di classificare i diversi campi della conoscenza, anche il termine filosofia ha avuto molteplici slittamenti di significato; tuttavia la concezione di Pitagora mantiene una sua attualità sia perché è di facile comprensione, sia perché è coerente con la moderna concezione naturalistica basata sul finalismo biologico che ora introdurremo.
L’essere umano per sua natura è curioso e tale curiosità ha una funzione biologica; essa infatti ci spinge a conoscere l’ambiente che ci circonda e ad accumulare esperienze che torneranno utili nel corso della vita. Le informazioni che accumuliamo vengono ordinate, associate e interpretate; tutto questo lavoro porta a disegnare la ormai ben nota mappa mentale grazie alla quale ci orientiamo sia nella vita di ogni giorno, sia nei progetti a lungo termine. Anche se non ne siamo consapevoli, la nostra curiosità e la nostra immaginazione hanno dunque una funzione pratica.
Lo sviluppo del modello mentale avviene normalmente in modo spontaneo, non intenzionale. Tale lavoro non si basa solo sulle esperienze personali, ma anche su un bagaglio culturale che la collettività ci trasmette. Risulta così che la nostra visione del mondo dipende fortemente dal nostro ambiente culturale e che dentro tale ambiente ciascuno veda il tutto in modo simile agli altri. La formazione di questa immagine del mondo è quindi il frutto di una ricerca sia personale, sia collettiva e tale ricerca è, in fondo, la filosofia secondo il pensiero di Pitagora. Da un punto di vista biologico la filosofia è quindi uno sforzo per capire il mondo al fine di poterci vivere al meglio, è una strategia evolutiva con una chiara funzionalità biologica.
Con il termine filosofia spesso si indica anche il risultato della ricerca anzidetta ovverosia l’immagine che si è creata; quindi si può dire che una certa filosofia è un dato modo di vedere il mondo, un particolare modello mentale.
Possiamo riunire le due accezioni precedenti nella seguente definizione:
studio specifico, intenzionale o meno, inteso come ricerca e forma di sapere riguardo la natura del mondo, dell’uomo e delle loro relazioni, finalizzato a una visione globale della realtà.
Tale concezione, per come si è formata, esprime una visione naturalistica della filosofia e si propone come una delle soluzioni possibili al secolare problema di dare una definizione della filosofia.
È bene ricordare che nello studio di questa disciplina si usano due approcci fondamentali:
• quello storico, che segue l’evoluzione nel tempo del pensiero preso in esame;
• quello per argomenti o problemi fondamentali.
Come in una cartina geografica vi sono i punti cardinali, così nella nostra cartina ideale abbiamo delle verità, dei concetti di base particolarmente importanti al fine di orientare il nostro comportamento: cosa è bene e cosa è male, che ruolo abbiamo nell’universo e nella vita, per quale motivo ci è toccato tale ruolo, perché la natura appare talvolta crudele, ecc.
Individuare questi concetti di base equivale a trovare una risposta alle cosiddette domande fondamentali che ogni uomo si pone: “Chi siamo? Da dove veniamo? Che senso ha la vita? Che ruolo abbiamo nell’universo?”
Queste domande possono essere meglio riassunte nelle seguenti:
• che ruolo abbiamo nella vita e nell’universo?
• cosa dobbiamo fare di conseguenza?
È importante ricordare che si può ottenere un comportamento valido, corretto e funzionale per la sopravvivenza della specie anche con risposte assolutamente errate. Lo stesso si può dire di un comportamento di successo che incontri il favore di una popolazione; ciò può spiegare il proliferare di scuole di pensiero tanto diverse ed in perenne disaccordo.
Sebbene lo scopo reale della nostra curiosità e della nostra fantasia sia la creazione di un mondo immaginario, ma funzionale, bisogna ricordare che per essere funzionale tale modello deve avere un certo grado di coerenza con l’esperienza; la verità è quindi in genere considerata come un sommo bene e indicata come oggetto principale o unico della ricerca, anche se poi di norma ci si deve accontentare di un qualche surrogato.

IL CASO CELEBRE
   BARUCH SPINOZA
                                                  

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 CONCETTI IN PILLOLE
 pillola1  n. 11 – LA FILOSOFIA BIOFUNZIONALE
 

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2.c.7 – Cosa lega la filosofia alla religione?

21 Maggio 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

religioneCosa lega la filosofia alla religione?

Sappiamo che il nostro ambiente culturale influisce sul nostro modo di vedere la realtà; uno dei modi in cui questo avviene è attraverso l’educazione religiosa, infatti con essa si tramandano modelli di comportamento e valori, si giustifica la consuetudine sociale con i suoi ruoli e spesso viene anche stabilita una relazione con la natura, magari trasformata in divinità; nella religione si trovano dunque risposte alle domande fondamentali della filosofia. Si può allora concludere che nelle religioni si trova in genere una notevole componente filosofica con la peculiare caratteristica di non essere criticabile in quanto inserita in una tradizione sacra.
La presentazione dell’universo che troviamo nella filosofia religiosa appare quindi cristallizzata nella tradizione sacra; in realtà la storia ci insegna che anche i modelli religiosi si evolvono, ma in tempi assai lunghi, tanto che non si notano grandi differenze da una generazione all’altra. Mutamenti più rapidi creano scandalo, disordine sociale e in genere vengono bollati come eresie. Le religioni forniscono alcuni riferimenti fondamentali per la formazione di un modello mentale di base comune a tutti; ognuno poi farà delle integrazioni personali che non stravolgeranno il modello iniziale, salvo casi eccezionali.
A questo punto ci si può chiedere per quale motivo esista la filosofia come disciplina di studio separata dalla religione e talvolta in conflitto con essa, ma come abbiamo detto, le religioni tendono a fissare i loro modelli, li conservano, ma non li modificano e quindi la ricerca filosofica, cioè lo sviluppo di nuovi modelli, risulta essere un’attività esterna alla religione.
Su una popolazione numerosa di credenti si trova spesso una piccola percentuale di insoddisfatti che accettano con difficoltà l’educazione religiosa ricevuta. Tali disadattati religiosi svilupperanno un credo personale, un modello che si discosterà in modo più marcato degli altri dal modello religioso comune, in altre parole faranno una ricerca filosofica senza i normali vincoli sacri. Il loro lavoro intellettuale potrà dare un grande contributo all’evoluzione dei modelli tradizionali qualora venisse riassorbito in un secondo tempo dalla religione dominante oppure, in caso contrario, potrà dare origine ad una tradizione filosofica non religiosa.
È noto inoltre che alcune filosofie indipendenti dalla religione con il tempo hanno acquisito un processo di sacralizzazione divenendo vere e proprie religioni.
Possiamo concludere che religione e filosofia sono strettamente collegate:
• la religione esalta e tramanda i risultati della ricerca filosofica
• la filosofia contribuisce all’evoluzione storica delle religioni
• la filosofia soddisfa alcune esigenze religiose della psiche umana, come quella di avere un modello mentale che funga da riferimento morale e da sostegno psicologico.

 

PALCO D’ONORE
 it1   TOMMASO D’AQUINO   stella1 stella1 stella1

CONCETTI IN PILLOLE
 pillola1  n. 12 – FILOSOFIA E RELIGIONE
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2.c.8 – Cosa lega la filosofia alla scienza?

22 Maggio 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

scienzaCosa lega la filosofia alla scienza?

La parola scienza ha due accezioni fondamentali:
a. Forma di sapere, disciplina che studia un determinato argomento
b. Scienza sperimentale, disciplina che nella ricerca utilizza il metodo sperimentale
Chiaramente la filosofia è una scienza secondo il primo significato, però vi sono importanti collegamenti anche con le scienze sperimentali:
• Il ruolo e quindi anche il valore attribuito alle scienze sperimentali è un problema sorto in ambito filosofico
• La validità delle scienze in generale è una questione filosofica
• Le scienze sperimentali oggi forniscono il principale contributo allo studio della natura che è una parte essenziale della ricerca filosofica.
Ancora una volta emerge come lo studio della natura e delle sue leggi rappresenti la vera chiave per capire i fenomeni che ci riguardano, anche quelli culturali, in modo da poterli governare a nostro vantaggio e come discipline considerate lontane, come la filosofia e la scienza, in realtà hanno connessioni strettissime, connessioni che però non sono facilmente individuabili tra i fumi dell’inquinamento psicologico.

 

PALCO D’ONORE
    THOMAS HOBBES   stella1stella1stella1stella1

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2.c.9 – La scienza sperimentale si distingue dalla superstizione?

23 Maggio 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

superstizioneLa scienza sperimentale si distingue dalla superstizione?

Per scienza sperimentale si intende tutto il patrimonio di conoscenze ottenute utilizzando il metodo sperimentale; oggi la sua validità è universalmente riconosciuta, ma pochi sanno su cosa si basa il suo valore; cosa distingue la scienza dalle superstizioni? Se chiediamo all’uomo della strada per quale motivo legge quotidianamente il suo oroscopo e perché crede nella validità dell’astrologia, probabilmente egli risponderà con due motivi fondamentali:
• Perché funziona, perché in genere, come dice l’esperienza personale, le predizioni fatte si avverano;
• Perché l’oroscopo lo leggono tutti e tutti quindi ci credono, non è solo un’opinione personale, ma vi è qualcosa di oggettivo e universalmente riconosciuto.
Se invece chiediamo per quale motivo crede alla scienza moderna le risposte saranno del tipo:
• Perché funziona, perché come dice l’esperienza diretta, le previsioni della scienza si avverano, le lampadine si accendono quando spingiamo l’interruttore, le automobili partono quando giriamo la chiave;
• Perché lo fanno tutti, lo insegnano anche a scuola che ci si può fidare della scienza e quindi è una cosa oggettiva ed universalmente riconosciuta.
Cosa distingue allora la scienza dalle superstizioni? Per il nostro uomo della strada nulla, assolutamente nulla, la scienza sembra essere solo una superstizione in più e nella sua mente è effettivamente così; sappiamo infatti che ogni uomo vive in un mondo in buona parte immaginario, egli è naturalmente superstizioso e inoltre è influenzato dall’opinione pubblica in quanto animale fortemente sociale; la gente comune non sa perché la scienza sia migliore delle antiche credenze, ma non ha avuto problemi ad accettarla come qualunque nuova superstizione anche solo vagamente verosimile.
Questo stato di cose ci aiuta a capire come mai numerose forme di superstizione continuano a sopravvivere nonostante il diffondersi di conoscenze scientifiche e come mai si diffondano false credenze che vengono attribuite alla scienza stessa: tutti noi abbiamo sentito dire che, in caso di parto prematuro, è meglio che il bambino nasca nel settimo mese piuttosto che nell’ottavo; la maggior parte di noi è convinta che ciò sia una verità scientifica confermata dalla medicina moderna, ma non è affatto così; tutti i dati sperimentali la smentiscono e nessun medico l’ha mai provata, in realtà sembra che si tratti di una antica credenza che risale all’antica scuola filosofica di Pitagora, presso la quale il numero sette era considerato un numero fortunato. Come mai in questi casi non ci accorgiamo della differenza fra un’affermazione scientifica e una che non lo è? Semplice, perché non lo facciamo mai, per noi esistono di fatto solo superstizioni.
La differenza fra scienza sperimentale e credenze più o meno probabili invece esiste, è notevole e si trova nel famoso metodo sperimentale, del quale tanto si parla, ma che nessuno conosce; non mancano tuttavia anche notevoli somiglianze dovute alla loro comune origine che è il naturale processo con cui il cervello umano produce la conoscenza.

 

PALCO D’ONORE
 uk1   FRANCIS BACON   stella1stella1stella1

CONCETTI IN PILLOLE                                                                                slide_13
 pillola1  n. 13 – SUPERSTIZIONI E SCIENZE

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2.c.10 – In cosa consiste il metodo sperimentale?

24 Maggio 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

laboratorioIn cosa consiste il metodo sperimentale?

Il metodo sperimentale venne concepito per studiare i fenomeni naturali ed è strutturato in tre fasi successive che lo rendono veramente speciale:
La prima fase è quella dell’osservazione e della misura; il fenomeno da studiare deve essere osservato, tale esame non deve variare cambiando l’osservatore e deve quindi essere indipendente dal soggetto che osserva; in tal caso si dice che l’osservazione è oggettiva. Al fine di essere oggettivi e precisi si cerca nel fenomeno tutto ciò che può essere misurato. Se chiediamo a dieci persone se un tavolino da noi scelto è grande o piccolo è probabile che alcuni diranno grande ed altri piccolo poiché ognuno lo confronterà con il proprio tavolo a casa o quello grande della nonna; se invece chiediamo loro quanto è grande e gli diamo un metro da falegname per misurarlo, essi risponderanno tutti allo stesso modo, salvo errori di misura ovviamente. L’uso di strumenti di misura oltre che rendere le osservazioni oggettive, facendo riferimento tutte alla stessa unità di misura, le rende anche molto più precise ed accurate secondo la precisione dello strumento.
È opportuno accennare al fatto che la precisione degli strumenti è sempre limitata, vi è immancabilmente un margine di errore; ad esempio, con un normale metro da sarto non si apprezzano differenze di un decimo di millimetro, ma per il sarto questo tipo di imprecisione è irrilevante; è però importante porre in evidenza che esistono dei metodi per sapere quanto l’errore può essere grande e quindi quanto è preciso il nostro strumento; in questo modo allora possiamo sapere di quanto possiamo sbagliare e se tale errore è rilevante o meno. Lo scienziato, come il sarto, sa che le sue misure non sono infinitamente precise, ma che lo sono quanto basta; anche se da un punto di vista matematico o geometrico sono sempre un poco sbagliate, lo scienziato competente sa sempre di quanto lo sono e può valutare se l’errore è abbastanza piccolo da essere trascurabile.
Un elemento nuovo di questo metodo è dunque la precisione ed una oggettività più rigorosa.
La seconda fase consiste nello sviluppo di un modello matematico o ideale. Per eseguire delle misure è necessario sapere cosa misurare, ma in un fenomeno naturale spesso intervengono numerose grandezze (temperatura, distanza, peso, velocità, superficie, volume e molte altre); lo studioso dalle prime osservazioni deve dunque fare un lavoro di analisi e schematizzazione, individuare le grandezze coinvolte nel fenomeno e le relazioni fra queste, fino a trovare una causa principale da isolare per studiarne gli effetti sulle grandezze ad essa legate. Un esempio classico è la caduta degli oggetti pesanti in cui la causa principale è il peso, mentre l’effetto è il movimento dato dallo spostamento, dalla velocità, dall’accelerazione, ecc.; dopo si aggiungeranno componenti secondarie come la forza d’attrito, la forma irregolare dell’oggetto, i vincoli meccanici ed altro.
Durante l’osservazione dunque inizia già un’interpretazione dei fatti ed una semplificazione della realtà che tende a formare un modello nel quale agisce una sola causa e nel quale si esamina un effetto alla volta. In questo modo il fenomeno viene studiato un pezzo alla volta, per gradi, trovando progressivamente le grandezze da misurare.
Il fenomeno viene rappresentato a questo punto tramite le variazioni delle sue grandezze, le cui misure sono elencate in opportune tabelle ed i cui legami sono ora legami fra numeri (le misure) in genere rappresentabili con formule matematiche dette funzioni. Il risultato è un modello matematico del fenomeno, una sorta di rappresentazione geometrica, preciso quanto lo sono le misure su cui si basa; tale modello diviene progressivamente più complesso man mano che si aggiungono nuove grandezze (sia cause che effetti), ma rimane sempre un modello nel quale può mancare qualcosa, sebbene qualcosa di secondario se il modello è stato ben costruito.
Dalla semplice osservazione, per quanto accurata, si è passati dunque a qualcosa che è frutto della nostra mente, un modello mentale dotato di precisione matematica; questo è il secondo passo del metodo e non vi sono dubbi che si tratta di una versione perfezionata, più rigorosa, più oggettiva del naturale processo che tutti noi utilizziamo nel formare i nostri personali modelli mentali. Lo scopo è fondamentalmente lo stesso: formare nella nostra mente un ritratto, una descrizione della realtà, che sia comprensibile e ci dica come funziona la natura, per soddisfare la nostra curiosità e trarne tutti i possibili vantaggi.
La terza fase è costituita dalla verifica sperimentale. Abbiamo visto che le osservazioni sono oggettive, mentre nella formazione del modello matematico interviene l’intuito dello studioso con il quale si ipotizzano relazioni di causa ed effetto fra le variazioni delle varie grandezze; vi è dunque un contributo soggettivo che può dar luogo a due inconvenienti:
1. dalle stesse osservazioni possono sorgere diversi modelli nati dalle diverse interpretazioni dei vari studiosi;
2. ulteriori osservazioni possono smentire le relazioni ipotizzate.
Nel primo caso i diversi modelli sono tutti coerenti con le osservazioni fatte e quindi perfettamente equivalenti nel descrivere la natura; un esempio classico lo abbiamo già visto in astronomia: è la Terra che gira su sé stessa oppure sono le stelle che girano attorno alla Terra? In entrambi i casi noi vedremmo il Sole, la Luna e tutti gli astri muoversi da est verso ovest; come stanno allora effettivamente le cose? Come stabilire quale è il modello giusto o quello più vicino alla verità? Lo scienziato deve aggiungere nuove osservazioni a quelle di partenza che siano coerenti con un solo modello e smentiscano tutti gli altri; a tal fine si utilizzano i vari modelli per fare delle previsioni su ciò che dovrebbe accadere in situazioni non ancora osservate e quando i vari modelli portano a previsioni diverse in una data situazione, allora si progetta una prova, detta esperimento, che verifichi quale previsione sia quella giusta; questa è la verifica sperimentale, il terzo importantissimo passo del metodo, dal cui esito dipende la scelta del modello migliore.
Tuttavia nulla garantisce che in un secondo tempo non compaia un nuovo modello che sia coerente anche con le nuove osservazioni, in tal caso si dovranno ideare nuovi esperimenti di verifica che permettano di selezionare il modello migliore.
Può anche accadere che compaiano, magari durante le verifiche sperimentali, nuove osservazioni che, nel loro insieme, sono in contrasto con tutti i modelli prodotti, anche l’ultimo rimasto, quello migliore. A quel punto bisogna ammettere che il modello non è valido in ogni occasione, ma solo in un numero limitato di casi e quindi bisogna ricominciare dall’inizio alla ricerca di un modello migliore, magari modificando quello vecchio.
Il perfezionamento e la validità dei modelli dipende dal numero di casi osservati, cioè dal numero di esperimenti di verifica effettuati; la verifica sperimentale porta a due importanti risultati:
• permette di selezionare il migliore dei modelli;
• permette di stabilire il suo campo di validità, ovvero in quali situazioni risulta valido in attesa di un modello migliore.
Ne segue che se anche la ricerca ha prodotto un solo modello, questo viene sempre sottoposto a verifica sperimentale, perché gli scienziati sanno che la sua validità può comunque essere limitata, che non si tratta di una verità incontestabile e che è meglio accorgersi il prima possibile se vi sono casi in cui non può essere usato.

PALCO D’ONORE
    GALILEO GALILEI
    stella1stella1stella1stella1stella1

 CONCETTI IN PILLOLE
 pillola1  n. 14 – IL METODO SPERIMENTALE                                                slide_14

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2.c.11 – Quali sono i vantaggi del metodo sperimentale?

25 Maggio 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

osservazioneQuali sono i vantaggi del metodo sperimentale?

In sintesi il metodo è formato da tre passi: l’osservazione del fenomeno, la formazione di un modello matematico e la sua verifica sperimentale. Nella formazione di una qualunque credenza troviamo invece: l’osservazione di un fenomeno, la formazione di un modello mentale ed occasionalmente la ricerca di una qualche conferma alla propria tesi.
Il percorso che la nostra mente segue nel produrre nuova conoscenza è fondamentalmente sempre lo stesso, probabilmente è l’unico che può fare, ma nella ricerca sperimentale l’osservazione è molto più accurata e precisa grazie all’uso di strumenti di misura e all’esame per gradi del fenomeno, inoltre è oggettiva e quindi con validità generale; lo stesso si può dire della formazione del modello che è assai più dettagliato e preciso grazie all’uso della matematica e delle misure; la differenza principale la troviamo però nella verifica sperimentale: essa infatti viene applicata sempre e non occasionalmente, permettendo di scoprire subito se il modello è sbagliato; il suo scopo pertanto non è quello di confermare la nostra tesi per rassicurarci sulla validità della nostra idea, ma quello di vedere con esattezza se rispecchia la realtà e fino a che punto; il fine è perfezionare il modello o sostituirlo con uno migliore e le conseguenze di questo aspetto della verifica sperimentale sono importantissime:
• i modelli vengono sostituiti da altri nuovi quando questi presentano una maggiore precisione o una maggiore ampiezza del campo di validità; i modelli della scienza pertanto migliorano sempre, mentre opinioni, credenze e superstizioni mutano, adattandosi a nuovi contesti socio-culturali, ma le credenze di oggi, vere o false che siano, non sono più precise di quelle di mille anni fa e non risultano più valide; in altre parole la scienza non si limita ad evolvere come ogni forma culturale, ma progredisce con mutazioni sempre positive, in ogni epoca e in ogni luogo.
• tutti i modelli risultano validi in un certo insieme di casi ben noti, cioè quelli dove la verifica sperimentale ha avuto un esito positivo, e rimarranno sempre tali anche quando saranno superati da modelli migliori; se dunque i nuovi modelli sono validi in un numero di casi maggiore oppure sono più precisi, ma allo stesso tempo risultano più complicati e difficili da usare, sarà comunque possibile utilizzare ancora i vecchi modelli, per comodità. Questa è una nuova applicazione del principio dell’economia mentale, che in questo caso però non compromette la ricerca con atteggiamenti oscurantisti.
Parlando di progresso è però opportuno distinguere fra scienza e tecnologia: la scienza è lo studio della natura, mentre la tecnologia è lo studio di come costruire strumenti usando le conoscenze fornite dalla scienza. I due concetti sono strettamente legati, ma è importante osservare che il progresso scientifico rappresenta sempre un progresso per l’umanità, in quanto aumenta le sue capacità di comprendere la natura e quindi di viverci, mentre non si può dire altrettanto del progresso tecnologico, che può essere usato per il bene dell’umanità, ma anche contro di essa: ne sono un esempio la tecnologia bellica e le industrie inquinanti. La confusione fra progresso scientifico e progresso tecnologico costituisce un’altra fonte di inquinamento psicologico che deve essere rimossa.

 

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2.c.12 – La scienza è veramente razionale?

26 Maggio 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

razionalitàLa scienza è veramente razionale?

Affermare che la scienza è razionale costituisce una banalità; affermare però che lo è come ogni credenza e superstizione lascia gli interlocutori perlomeno perplessi, ma la validità di tale affermazione è provata dalle numerose scuole filosofiche che, basandosi solo sulla ragione e partendo da ipotesi non verificate sperimentalmente, hanno sostenuto razionalmente un numero enorme di assurdità, come la filosofia di Parmenide e Zenone che negava l’esistenza del movimento oppure la scolastica medievale che pretendeva di dimostrare razionalmente le verità della fede religiosa.
Normalmente per razionalità si intende l’uso della logica deduttiva, ma questa purtroppo porta a conclusioni esatte solo partendo da ipotesi vere e complete come accade nei teoremi di matematica; ponendo delle ipotesi false, tali teoremi portano a tesi assurde. Studiando la natura non vi è alcun modo di sapere, ragionando, se le nostre ipotesi sono vere e soprattutto se sono complete, in quanto vi può sempre essere l’intervento di un fenomeno sconosciuto. È dunque necessario basarsi sull’evidenza dei fatti attraverso osservazioni e verifiche sperimentali e sono queste procedure a fare la differenza, non la ragione; non dobbiamo fare confusione fra scienza sperimentale e matematica, la quale invece si basa proprio sulla logica deduttiva. Sebbene sia vero che la scienza fa grande uso della matematica e quindi della logica, la razionalità da sola non è sufficiente a superare le superstizioni anzi, in numerosi casi essa è stata usata per confermarle, basti ricordare tutte le teorie filosofiche basate sulla metafisica e varie teorie economiche, come il liberismo assoluto o il comunismo, nelle quali logica e matematica sono state usate per dimostrare ciò in cui si voleva credere.
Le differenze fra scienza e superstizione dunque sono notevoli, ma è opportuno ricordare che la logica di base è la stessa: creare un modello mentale coerente con certe esperienze. Quando si parla di un contrasto fra scienza e superstizione basato su un conflitto fra la razionalità della prima e l’irrazionalità della seconda si alimenta un luogo comune che è a sua volta una superstizione: le superstizioni non sono irrazionali, la logica di base è la stessa della scienza e il contrasto è dovuto ad una semplice rivalità fra credenze e culture differenti. Ciò che può apparire irrazionale è l’attaccamento che gli esseri umani dimostrano nei confronti delle loro superstizioni quando vengono smentite e superate dalla scienza, ma oggi sappiamo che è una naturale conseguenza della ferrea logica dell’economia mentale che impone di difendere il proprio sistema di credenze fino a che risulta utile al nostro inconscio. La ragione è uno strumento della nostra mente che è dominata da pensieri e desideri dei quali spesso non notiamo l’esistenza; essa pertanto è al servizio di ciò che vogliamo, di desideri a volte inconsapevoli, e non della verità; senza il metodo sperimentale la ragione è uno strumento al servizio delle superstizioni.
Il metodo sperimentale delle scienze è enormemente più preciso ed affidabile del processo naturale delle credenze, ma è anche enormemente più costoso in termini di tempo, mezzi e risorse umane e quindi non rispetta i normali criteri dell’economia mentale; a conferma di ciò abbiamo visto che il metodo sperimentale non prevede di ignorare le osservazioni scomode, ma anzi le utilizza come un momento importante per produrre nuova conoscenza. Tutto questo ci indica che c’è un diverso obiettivo di fondo: lo scopo della scienza non è fornire all’uomo comune una mappa mentale per orientarsi nella vita di ogni giorno, sarebbe troppo faticoso, ma è quello di creare una descrizione dettagliata della natura per tutta la comunità, la quale ne fruirà più o meno inconsapevolmente. La ricerca scientifica è un’estensione della curiosità umana, mira alla formazione di un patrimonio di sapere da sfruttare poi nelle varie attività della comunità umana piuttosto che in quelle del singolo individuo e ciò spiega la sua importanza e l’impiego congiunto di tanti uomini e mezzi. Nella formazione di una normale opinione la nostra mente cerca invece un modello semplice che costi poco tempo e fatica e che sia coerente con l’esperienza; tale credenza non dovrà essere criticata salvo casi di estrema necessità; nella scienza le cose vanno diversamente, gli scienziati sono al servizio della comunità, non studiano la natura per risolvere i problemi della loro vita quotidiana, ma cercano una conoscenza perfetta o quasi da far utilizzare alle generazioni successive e a tal fine le teorie scientifiche vanno criticate in ogni occasione per poterle perfezionare.

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2.c.13 – Quali sono i limiti della scienza?

27 Maggio 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

limitiQuali sono i limiti della scienza?

Quali sono i punti deboli della scienza sperimentale? Esaminando il primo passo del metodo, cioè l’osservazione e la misura, si può notare come esso possa funzionare solo se si conoscono le giuste grandezze da misurare; come si potrebbero studiare i fulmini senza conoscere grandezze come corrente elettrica, carica elettrica e campo elettrico? La fisica dell’elettromagnetismo ha infatti iniziato a svilupparsi solo con l’introduzione di questi concetti. Se non è chiaro cosa misurare è necessario aspettare che qualcuno lo chiarisca e fino ad allora si rimarrà in una situazione di stallo; lo stesso accade con fenomeni molto complessi come quelli biologici nei quali è difficile individuare le cause principali fra le tante presenti. Più che veri e propri limiti quelli sopra citati sono dei fattori di ritardo in quanto in genere vengono superati con il tempo.
Il prodotto della ricerca scientifica è solo un modello matematico, idealizzato e nel migliore dei casi semplificato, della realtà, ma anche questo non è un vero limite poiché sebbene sia vero che le teorie scientifiche non sono la verità perfetta, sappiamo che l’errore è sufficientemente piccolo per cui tutto va come se lo fosse, anzi eventuali semplificazioni rendono più agevoli i calcoli matematici e rendono i modelli più facili da usare.
Un vero limite del metodo scientifico è costituito dal fatto che tale metodo è troppo lento ed impegnativo per le esigenze della vita quotidiana; l’uomo comune non può utilizzarlo per interpretare le proprie esperienze personali, è uno strumento da specialisti per lo studio della natura.
L’essere umano continua dunque a produrre credenze in maniera poco rigorosa, sia perché è nella sua natura, sia perché è una attività ancora indispensabile; la scienza ha reso superate molte antiche credenze sostituendo ad esse i propri modelli, ma questi sono stati accettati come nuove superstizioni, non in base ad una nuova mentalità scientifica; per esempio il modello astrologico, secondo il quale gli astri ruotano attorno alla Terra influenzando la vita delle persone in base alla data di nascita, è stato da molti disconosciuto a favore del modello della gravitazione universale, il quale afferma che gli astri si muovono per l’inerzia o per la forza di gravità e non hanno alcuna influenza sulla vita dei singoli, ma coloro che hanno accettato il nuovo modello quasi sempre ignorano completamente le basi scientifiche che ne costituiscono il fondamento e quindi non sanno perché sia migliore del precedente.
Inoltre la scienza non può sostituire il sistema di credenze degli esseri umani poiché il suo scopo è descrivere la realtà dei fatti, ma la realtà non ci interessa più di tanto, sappiamo che la nostra mente ha anche altre esigenze oltre la ricerca della verità, il nostro mondo immaginario non deve essere vero, ma funzionale a soddisfare le esigenze dettate dall’inconscio come l’economia mentale, il desiderio di prestigio, quello di sicurezza, il conformismo, l’amore, ecc.; la verità non sempre è in grado di soddisfare tali esigenze radicate nei nostri geni e quindi le verità scientifiche talvolta vengono rifiutate oppure modificate: ricordiamoci i tentativi di provare scientificamente la superiorità della razza bianca su quella nera sulla base della teoria dell’evoluzione o di lievi differenze della conformazione cranica. Le superstizioni sono dunque un fenomeno naturale profondamente radicato nell’essere umano e, al pari del desiderio sessuale, si tratta di un fenomeno che può essere gestito, ma non eliminato; la natura prevede che il nostro credo personale venga aggiornato, ma sostituire una credenza con una verità spesso non è sufficiente, la verità non basta, la sostituzione deve avvenire con un nuovo modello coerente con quello scientifico, ma anche con la psicologia umana, altrimenti non sarà mai un modello adeguato.
Le considerazioni precedenti ci portano ad un altro limite della scienza che è l’umanità degli scienziati; in quanto esseri umani essi tendono a rifiutare ciò che è scomodo, subiscono l’influenza di ideologie politiche o religiose e di conseguenza forniscono interpretazioni e giudizi non obiettivi riguardo ai dati sperimentali; in tempi recenti hanno iniziato a circolare voci su manipolazioni od occultamenti di dati sperimentali per favorire gli interessi economici di grandi industrie farmaceutiche o petrolifere, forse si tratta solo di voci, ma il rischio per il futuro è sicuramente reale in quanto gli studiosi non possono essere tutti quanti immuni alla corruzione.
Parlare della corruzione degli scienziati come di un limite non è del tutto corretto, in realtà si tratta di un vero pericolo, una malattia che può paralizzare una delle nostre risorse più preziose, l’unico metodo a nostra disposizione che ci spinge verso un reale progresso.
La scienza infine è uno studio limitato ai fenomeni naturali e questo è un limite intrinseco alla sua natura; il tentativo di applicare il metodo sperimentale alle leggi dell’economia ha prodotto un gran numero di fallimenti; questo perché le leggi di natura non variano nel tempo mentre quelle dell’economia delle comunità umane lo fanno con velocità notevole, essendo legate all’evoluzione culturale. Il metodo sperimentale non può essere utilizzato con profitto per rappresentare delle leggi che variano nel giro di pochi anni, poiché anche i migliori modelli diverranno inutilizzabili con la stessa rapidità.
Non è escluso tuttavia che possano comparire nuovi metodi con caratteristiche analoghe a quello sperimentale; sappiamo che le carte vincenti della scienza sono: osservazioni precise, modelli accurati e miglioramento continuo; queste tre caratteristiche le ritroviamo nei sistemi di gestione aziendale per la qualità che tanto successo hanno avuto in Giappone a partire dagli anni ottanta del secolo scorso; può darsi che sia un primo passo per portare il progresso oltre i limiti dello studio della natura.

 

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2.c.14 – Cosa lega pubblicità e inconscio?

28 Maggio 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

pubblicitàCosa lega pubblicità ed inconscio?

Abbiamo detto che nella nostra mente esiste un sistema di gestione automatico che è in grado di aggiornarsi in base alle esperienze che facciamo nella nostra vita; in altre parole il nostro inconscio si aggiorna da solo seguendo dei criteri tutti suoi e, in particolare, le nuove idee vengono accettate solo se non destabilizzano il sistema di credenze che si è già formato; altro aspetto dello stesso principio è il fatto che le vecchie opinioni, ben consolidate, non devono essere messe in discussione se non è proprio necessario, ma come valutiamo quando è necessario? Uno dei fattori determinanti sembra essere il grado di soddisfazione o insoddisfazione che tali credenze comportano quando vengono utilizzate: tutti noi abbiamo accettato di buon grado, o quantomeno ci è sembrata sensata, la teoria in base alla quale l’uomo è un essere superiore rispetto agli animali in quanto è più complesso, più evoluto, il più recente e moderno prodotto dell’evoluzione; se qualcuno però dimostrasse che esiste un insetto o un verme comparso da pochi millenni con una anatomia nettamente più complessa della nostra, ecco che l’accostamento complessità-superiorità subito ci apparirebbe meno ragionevole, poiché dovremmo riconoscere la superiorità dell’insetto e ciò non sarebbe assolutamente gratificante; subito dopo diremmo che la superiorità dipende dall’intelligenza o da qualunque altra cosa manchi al nostro rivale. Ecco come un vecchio luogo comune può essere subito rimosso quando si rivela insoddisfacente per la nostra autostima.
Altro fattore importante sono le emozioni, tutti sappiamo che una grossa paura come quella di un incidente stradale ci può obbligare a rivedere il valore della prudenza e la fiducia in noi stessi al volante. Forti emozioni e forti sensazioni rimangono impresse a lungo nella memoria, spesso per sempre.
La base dell’apprendimento, l’esperienza, risulta più o meno incisiva secondo l’intensità di emozioni e sensazioni; è stato dimostrato che un simile effetto è dato anche dalla ripetizione di una stessa esperienza e infatti tutti noi siamo piuttosto bravi in quello che facciamo tutti i giorni; la consapevolezza dell’importanza della ripetizione delle esperienze porta a rivalutare il senso educativo della ritualità.
La psicologia moderna ha approfondito questi argomenti mostrando che tale processo può essere attivato anche per via culturale raccontando esperienze fittizie, narrando storie paurose o romantiche, descrivendo posti esotici ed offrendo così materiale interessante alla nostra mente per costruire i suoi modelli del mondo. I risultati li troviamo in tutte le forme di pubblicità che ci assillano ogni giorno: se osserviamo con occhio critico uno spot televisivo, vedremo che ci dice ben poco riguardo al prodotto ed ancora meno riguardo a cosa lo distingue dai prodotti rivali, ma allora a cosa servono tutte quelle elaborate immagini e le ricercate colonne sonore? Perché si cercano i migliori registi per tali filmati? Servono per comunicare, ma non con la nostra coscienza; suoni ed immagini sono un linguaggio di sensazioni, un linguaggio comprensibile direttamente dall’inconscio poiché i pubblicitari ed i loro psicologi sanno che è quella la parte dominante, la sede della nostra volontà, la parte da convincere; centrato l’obiettivo di stimolare un desiderio inconscio, l’acquisto è garantito, perché la nostra parte cosciente, come sempre, eseguirà l’ordine; ecco perché le pubblicità sono piene di belle donne, di gente sorridente, di panorami bellissimi con un sottofondo musicale altrettanto armonioso; si deve formare l’associazione prodotto-bella vita, associazione che alla nostra mente appare tanto più sicura quanto maggiore è la frequenza della ripetizione, ecco perché la pubblicità è così ossessiva; si tratta di una sottile manipolazione occulta della nostra mente che nel linguaggio moderno viene in modo riduttivo definita persuasione.

 

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2.c.15 – Cosa lega religione ed educazione?

29 Maggio 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

tradizioneCosa lega religione ed educazione?

I principi fondamentali della pubblicità sono però da sempre utilizzati anche a scopo educativo: in tutti i luoghi ed in tutte le epoche troviamo mamme e nonne che raccontano delle favole ai loro bambini; non si tratta solo di tecniche per conciliare il sonno della discendenza, esse rappresentano uno strumento per comunicare messaggi istruttivi su ciò che è bene e ciò che è male, su quali pericoli ci attendono nella vita adulta e su come ci si deve comportare; un tipico esempio è la favola di Pinocchio, la quale insegna che non si devono dire le bugie, non si deve essere disobbedienti, non bisogna fidarsi degli estranei, né delle apparenze. Le favole narrano delle storie fantastiche e irreali, ma molto stimolanti, evocano immagini grandiose e sensazioni forti, indimenticabili per i bambini i quali, non avendo ancora sviluppato a pieno le loro capacità razionali, hanno particolare bisogno di questo tipo di linguaggio. La stessa tecnica viene usata dalle religioni di tutto il mondo: tutte infatti hanno una loro mitologia fatta di racconti fantastici che viene usata per introdurre e giustificare i loro principi morali, le usanze e i criteri per distinguere un comportamento corretto da uno sbagliato.
Dalla notte dei tempi le nostre madri e le nostre religioni applicano ciò che la psicologia ha scoperto solo di recente; tali applicazioni non sono però state intenzionali, esse sono il risultato dell’evoluzione culturale della nostra specie. Le favole possono anche essere improvvisate, esagerando esperienze della propria vita, mentre le religioni sono radicate molto più profondamente nella cultura collettiva: esse offrono dei modelli di comportamento comuni per tutta la collettività sulla base di una stessa visione del mondo; senza le religioni ognuno di noi avrebbe una mappa mentale significativamente diversa da quella degli altri e sarebbe molto più difficile convivere nella società; la funzione educativa e sociale delle antiche religioni è molto più importante e profonda di quanto si potesse immaginare fino a poco tempo fa, esse sono lo strumento che l’evoluzione ha prodotto per gestire la cultura in modo collettivo e inconsapevole, formando ed educando una sorta di inconscio comune, garantendo una notevole uniformità di desideri, valori e comportamenti.
È storicamente provato che le religioni si evolvono con la società cui appartengono e probabilmente lo fanno da quando esiste la parola; vari indizi suggeriscono che il cervello umano è predisposto geneticamente ad assumere atteggiamenti religiosi, ne segue che la religione fa parte della natura umana e, come abbiamo già visto per la sessualità e le superstizioni, può essere gestita, ma non eliminata. L’uomo produce naturalmente credenze e superstizioni e, se cerchiamo di sostituirle con la scienza, il risultato è che la scienza sarà accettata dall’uomo comune come un’altra superstizione; per la natura della nostra mente una credenza deve essere soppiantata da un’altra credenza ed è logico che sia così visto che la nuova convinzione deve svolgere lo stesso ruolo della vecchia; analogamente una religione può al massimo essere sostituita con un’altra dottrina religiosa; le dottrine politiche laiche e persino quelle atee come il comunismo sono infatti state assorbite dalla popolazione come dottrine religiose, dando luogo a tipici atteggiamenti di devozione verso i simboli caratteristici del partito o verso i capi carismatici, in tutto e per tutto paragonabili a dei profeti o a dei santi con tanto di statue commemorative e ritratti da appendere in luoghi celebrativi; molte manifestazioni si presentano come processioni religiose e come queste hanno in genere il solo effetto di rafforzare il senso di appartenenza al gruppo. Le religioni hanno la funzione naturale di guida spirituale della società e tutto ciò che guida la società e ha in essa un ruolo carismatico assume di conseguenza nella nostra mente un ruolo religioso; vale per i capi politici, ma anche per cantanti, attori e calciatori famosi, i cui vestiti o frammenti di essi sono conservati come preziose reliquie appartenute ad un santo o magari vendute all’asta a prezzi incredibili; analogamente a quanto avviene con le immagini sacre, i ragazzi appendono le foto dei calciatori in camera e le ragazze fanno lo stesso con i cantanti, avendoli chiaramente divinizzati.
L’uomo è un animale naturalmente religioso, sia su base genetica che culturale; l’aspetto genetico è il frutto della selezione naturale che ha privilegiato gli esseri umani con predisposizione religiosa in quanto forte collante sociale fra individui che, come sappiamo, hanno nella socializzazione una delle risorse principali per la sopravvivenza, mentre l’aspetto culturale ha provveduto a rafforzare tale predisposizione strutturandola e tramandandola. Il percorso seguito dalle religioni per l’educazione, costituito da mitologia, valori morali e modelli di comportamento, è dunque il naturale percorso educativo dell’essere umano, quello che dobbiamo seguire per gestire la nostra cultura in modo consapevole. Se vogliamo aggiornare il nostro bagaglio culturale in base alle nuove necessità, dobbiamo in parte ricostruire la nostra mappa mentale partendo dalla rappresentazione della natura ed inserendo in essa degli opportuni valori di riferimento per elaborare i modelli di comportamento corretto.
Per quanto riguarda la rappresentazione della natura la scienza sperimentale ci fornisce già dei modelli di gran lunga più accurati di quanto abbiamo bisogno, nei documentari televisivi ne viene inoltre già fatta una presentazione molto suggestiva, a volte fin troppo spettacolare, ma adatta per essere compresa e coinvolgere tutta la nostra mente; su questa base ora dobbiamo fare il secondo passo, ovvero stabilire che cosa è bene e cosa è male per noi, individuando i valori di riferimento per il giusto comportamento, tradizionalmente detti valori morali.

 

IL CASO CELEBRE
    GIOVANNI BOSCO
                                                                      

 CONCETTI IN PILLOLE
 pillola1  n. 15 – RELIGIONE ED EDUCAZIONE
 
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