Capitolo 2.b

14 Aprile 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

                                    

LA STORIA CULTURALE

Guardiamoci ancora indietro; se proviamo a fare una ricostruzione storica dell’evoluzione culturale, come è stato fatto per l’evoluzione biologica, scopriremo con sorpresa delle difficoltà ancora maggiori, in quanto la cultura non lascia tracce fossili o genetiche. Capire come si è sviluppato questo patrimonio, così importante per la nostra vita, ci può aiutare a capire la sua natura, il suo ruolo, i suoi limiti e le sue potenzialità per il futuro.

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2.b.1 – Quali sono le origini della cultura?

15 Aprile 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

 

imitazione

        

Quali sono le origini della cultura?

Dall’osservazione della trasmissione culturale negli animali si possono sviluppare delle ipotesi su come sia nata la nostra storia culturale: sappiamo che gli animali imparano dal mondo che li circonda; i cuccioli dei mammiferi imparano anche dai genitori e ciò può avvenire perché la madre, e a volte anche il padre, passano molto tempo con essi dopo la nascita per nutrirli e proteggerli. Il rapporto genitore-figlio, nato per la protezione ed il nutrimento, ha assunto poi anche un ruolo educativo.
È noto che, nelle tradizioni familiari, il patrimonio genetico e culturale evolvono assieme integrandosi perfettamente; ciò nel tempo ha portato a sviluppare una predisposizione genetica dei cuccioli ad imparare dai genitori e dei genitori ad insegnare alla prole.
Dall’innata curiosità dei cuccioli, dalla voglia di giocare (esercitandosi al movimento, alla lotta, ecc.), dall’istinto di esplorare il mondo e dalla necessità di seguire i genitori in cerca di sicurezza, si sono sviluppati nuovi comportamenti: esplorare il mondo sotto la guida dei genitori, curiosare su quello che fanno ed infine imitarli.
Lo sviluppo dell’imitazione non è stato un passo semplice; molti animali, pur dotati di buone capacità di apprendimento derivato dall’esperienza, si trovano in grandi difficoltà ad imitare le strategie degli altri; ciò induce a pensare che l’imitazione sia un’attività molto più complessa di quanto non sembri e che pertanto richiede lo sviluppo di nuove capacità da parte del cervello. Alcuni studi inoltre mostrano che, nel mondo animale, all’imitazione viene in genere abbinata una forte componente di sperimentazione personale, si imita cioè il minimo indispensabile per poi procedere da soli; ciò dimostra come l’imitazione sia per gli animali una attività molto impegnativa e costosa che va limitata il più possibile.
Quando si svilupparono i primi branchi di mammiferi, si aprirono nuove frontiere per l’imitazione e lo sviluppo della cultura: da allora infatti i cuccioli ebbero la possibilità di imparare da tutti i membri del branco e non solo dai genitori; questa opportunità, che nella maggioranza dei casi viene sfruttata solo occasionalmente ed è quindi rimasta una risorsa marginale nel mondo animale, è invece alla base di molti sviluppi della cultura umana.
Anche nei genitori si svilupparono dei cambiamenti: alle amorevoli cure parentali verso i cuccioli si aggiunsero nuove capacità di insegnamento; i mammiferi infatti giocano spesso con i loro piccoli rendendo così il gioco ancora più istruttivo; durante il gioco i genitori hanno la possibilità di mostrare, anzi ostentare, i giusti atteggiamenti e comportamenti, come i papà che giocano a palla con i propri figli o li aiutano nelle costruzioni con i mattoncini di plastica; va inoltre ricordata l’importantissima capacità di premiare o di punire i cuccioli secondo la loro condotta: i premi discendono direttamente dalle coccole delle cure parentali; le punizioni derivano invece dagli atteggiamenti aggressivi, tipici degli scontri fra adulti, opportunamente e profondamente modificati per non ferire gravemente i piccoli.
Nelle scimmie i piccoli vivono la prima parte della vita perennemente aggrappati alla madre; durante questa fase, con un contatto così intimo e fisso, i cuccioli hanno modo di imparare molte cose: come interpretare il comportamento della madre e dei membri del branco, come gestire le pubbliche relazioni e la convivenza nella comunità, quali sono i frutti migliori, come costruire un riparo, come usare alcuni strumenti, come riconoscere e produrre i segnali tipici della propria specie fino ad usare un vero e proprio linguaggio fatto di gesti e suoni, sebbene non articolati in modo tale da formare un discorso complesso.
Gli animali che dimostrano più capacità di imitazione, più capacità di comunicazione e anche una maggiore intelligenza, come i pappagalli, i delfini e le scimmie, sono tutti animali sociali; questo indica che la socialità e la vita di branco sono premesse importanti e necessarie, anche se non sufficienti, per lo sviluppo delle suddette capacità. Queste risultano peraltro strettamente collegate: nelle comunità la comunicazione viene spesso realizzata con un codice convenzionale, trasmesso culturalmente, che richiede una qualche forma di imitazione e di intelligenza.
Dall’osservazione del mondo attuale non possiamo osservare le fasi successive della nostra storia culturale in quanto tutti i nostri parenti più stretti, gli ominidi, sono estinti da tempo. 

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2.b.2 – Cosa è cambiato passando dalla cultura animale a quella umana?

16 Aprile 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

espressione

        

Cosa è cambiato passando dalla cultura animale a quella umana?

Anche se non siamo in grado di ricostruire con precisione i passaggi evolutivi della cultura umana in era preistorica, è di fondamentale importanza riflettere sulle peculiarità culturali che ci distinguono dagli animali, con particolare riferimento ai nostri cugini più prossimi, cioè alle scimmie:

• le innovazioni nella cultura umana si accumulano con facilità; per esempio, la prima lampadina fu frutto del genio di Edison, ma anche di chi ha inventato e perfezionato la lavorazione del vetro e dei metalli, nonché di chi ha scoperto l’elettricità; tutte queste conoscenze, accumulandosi, hanno permesso a Edison di creare la sua più celebre invenzione. Un aspetto specifico e fondamentale della cultura umana è dunque quello di essere una cultura cumulativa; negli animali tale fenomeno risulta essere un evento sconosciuto o eccezionale;

• nell’uomo lo sviluppo fisico dei piccoli è molto più lento e ciò obbliga i genitori a prendersi cura di loro per molti anni; durante questo lungo periodo i bambini hanno però il tempo di imparare il grande e complesso patrimonio culturale accumulato dalla propria comunità; per l’insegnamento viene inoltre impiegato anche del personale specializzato al di fuori della famiglia;

• le comunità umane sono molto più numerose di quelle delle scimmie ed in esse troviamo numerose forme di specializzazioni culturali che formano un sistema molto complesso basato sulla collaborazione lavorativa;

• la struttura sociale del gruppo umano è molto diversa da quella delle scimmie; non si tratta di un unico grande nucleo familiare, ma di un aggregato di piccoli nuclei, in genere formati da un solo maschio e una sola femmina con un numero limitato di figli.

• un aspetto importante della cultura umana è dato dalla creazione di strumenti sofisticati in continua evoluzione; si ricordi che ciò è possibile grazie alla capacità di manipolazione;

• una parte notevolissima della cultura umana è formata da concetti astratti come i numeri, l’onore, la giustizia e la responsabilità;

• gli esseri umani comunicano con le parole; il linguaggio è il principale canale di trasmissione con cui si tramanda il patrimonio culturale umano fatto di concetti complessi e astratti;

• un’altra forma di comunicazione particolarmente sviluppata è quella basata sulla mimica facciale; il viso umano si è modificato per essere usato come strumento di segnalazione: gli occhi umani mostrano la parte bianca attorno all’iride e ciò consente di seguire lo sguardo e le sfumature delle espressioni anche a notevole distanza; le sopracciglia folte ed isolate sulla pelle glabra sono usate come bandierine di segnalazione visiva in mille espressioni; lo stesso vale per le labbra che hanno un confine e un colore nettamente marcati e permettono di esaltare ogni loro piccolo movimento.
Al momento non sono note le esigenze evolutive che hanno causato questi cambiamenti, possiamo solo fare congetture in base all’uso che viene fatto attualmente, o veniva fatto in un recente passato, di queste innovazioni.

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2.b.3 – Quale cultura avevano i primi ominidi?

17 Aprile 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

 

savana

        

Quale cultura avevano i primi ominidi?

Una struttura sociale complessa in genere corrisponde a delle forme di comunicazione elaborate e queste, a loro volta, stimolano lo sviluppo delle capacità di imitazione e dell’intelligenza. Anche a parità di numero, una piccola comunità umana appare più complessa, socialmente parlando, di un branco di scimmie: essa infatti è formata da vari nuclei familiari ben distinti; il capo branco non coincide più con il capo famiglia; maschi e femmine formano coppie fisse e collaborano nelle cure parentali durante la lunghissima infanzia dei loro bambini; i maschi dominanti, sia pur mantenendo una certa rivalità, collaborano regolarmente fra loro in varie attività come la caccia o il lavoro. Durante l’evoluzione degli ominidi si è verificata quindi una vera e propria rivoluzione sociale.
I più antichi resti fossili di ominidi indicano che il loro sviluppo potrebbe essersi separato da quello delle scimmie antropomorfe in seguito ad un radicale cambiamento climatico nella Rift Valley in Africa. Da una foresta di tipo tropicale si passò ad una savana e, nonostante la presenza in quella zona di alcuni grandi laghi, presenza che attenuò molto il problema della siccità, un cambiamento alimentare e quindi anche del comportamento fu inevitabile. La presenza dei laghi in una regione relativamente povera di acqua potrebbe inoltre aver indotto i nuclei familiari ominidi a concentrarsi attorno ad essi, ma questa convivenza forzata può aver causato una minore disponibilità di cibo e aver dato origine a una successiva riduzione delle dimensioni dei nuclei familiari e alla collaborazione fra gli stessi per sfruttare al meglio le risorse disponibili, a cominciare dalla caccia di gruppo. Dalla loro dentatura si può dedurre che erano onnivori e quindi si arrangiavano a mangiare un po’ di tutto, mentre il rinvenimento di utensili in pietra scheggiata, risalenti alla loro epoca, conferma l’ipotesi di una loro attitudine all’uso di strumenti; nulla sappiamo però delle loro tecniche di caccia o della loro struttura sociale; possiamo, come sopra, solo fare delle ipotesi fantasiose, ma al momento non verificabili.
L’uso di semplici strumenti di pietra viene attribuito anche all’homo habilis, i cui resti più antichi risalgono a quasi due milioni di anni fa e che rappresenta uno dei primi ominidi del genere homo. Dalla forma del suo cranio possiamo dedurre che il suo cervello era più grande di quello degli australopitechi e che forse erano già presenti le aree cerebrali dedicate al linguaggio. Se accettiamo l’idea che l’intelligenza e il linguaggio sono legate alla collaborazione e a una struttura sociale complessa, risulta plausibile che l’homo habilis praticasse la caccia di gruppo e che vivesse in una comunità multifamiliare tipicamente umana; si tratta, ancora una volta, di ipotesi tutte da verificare.
Dai resti fossili sappiamo invece che le altre due specie umane, di poco più recenti, l’homo ergaster e l’homo erectus, avevano entrambi sviluppato vari adattamenti anatomici alla corsa: gambe e tendini di Achille più lunghi, un appropriato arco plantare, un tallone più grande e un’apposita cresta nucale per la stabilità del cranio durante la corsa. I loro strumenti in pietra risultano più raffinati, grazie a una lunga e impegnativa lavorazione e sembra inoltre accertato che l’homo erectus riuscisse a controllare il fuoco. Il loro cervello era nettamente più grande e il loro viso era molto più simile a quello dell’uomo attuale avendo perso molte caratteristiche scimmiesche. È stato inoltre possibile stabilire che lo sviluppo dei piccoli dell’homo erectus era nettamente più lento rispetto agli australopitechi, sebbene più rapido che nell’uomo attuale. Tutti questi dati oggettivi suggeriscono che molti dei cambiamenti socioculturali di cui abbiamo fatto cenno si siano storicamente verificati fra i primi ominidi e l’homo erectus; quest’ultimo infatti aveva già il fisico e gli strumenti per essere un buon cacciatore di gruppo; la lunghezza della sua infanzia, nonché la grandezza e la forma del suo cervello, ci indicano che avesse un notevole patrimonio culturale da imparare e una complessa vita sociale da gestire; la struttura ossea del suo viso, simile alla nostra, lascia supporre che avesse anche una simile espressività facciale e ciò sarebbe una ulteriore conferma di relazioni sociali molto complesse. Oltre alla caccia di gruppo anche la necessità di difendere il territorio da gruppi rivali può aver alimentato il bisogno di una maggiore collaborazione all’interno del gruppo.
Nell’homo erectus troviamo anche un’altra caratteristica in comune con l’uomo attuale: la sua distribuzione geografica, che dall’Africa si estese fino alla Cina mentre, per quanto ne sappiamo, gli ominidi precedenti vissero in regioni molto più limitate come le attuali scimmie antropomorfe; anche questa può essere considerata una conferma dell’alto livello di efficienza di queste antiche società umane. La stretta collaborazione che doveva esistere all’interno di questi gruppi tribali rese più utile e più facile la circolazione della cultura entro la comunità e da questa base si sviluppò quel tipo di cultura che oggi consideriamo tipicamente umana.

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2.b.4 – Lo sviluppo della cultura cumulativa è dovuto all’instabilità climatica?

18 Aprile 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

ghiacci

        

Lo sviluppo della cultura cumulativa è dovuto all’instabilità climatica?

Con una datazione di circa 500 mila anni fa si iniziano a ritrovare tracce di manufatti nettamente più complessi dei precedenti, in quanto composti di più parti (come lance dalla punta di pietra oppure asce con manico); questi utensili presentano inoltre delle differenze secondo la regione e secondo l’epoca e ciò rivela che erano frutto di un susseguirsi di modifiche operate da artigiani diversi. L’accumularsi di mutazioni culturali, fenomeno prima assente o eccezionale, da allora sembra diventato una regola fissa nella cultura umana.
Si ignora la causa di questo importantissimo cambiamento, ma sappiamo che gli ominidi di questo periodo mostrano un ulteriore sviluppo della massa cerebrale e dei cambiamenti alla base del cranio che rendono plausibile uno spostamento della laringe e una modifica dell’apparato vocale.
Dall’esame dei ghiacci polari risulta inoltre con certezza che tale periodo storico fu caratterizzato da una grande instabilità climatica; cambiamenti relativamente rapidi alternarono periodi glaciali con altri temperati ed anche all’interno di questi periodi vi furono grandi oscillazioni della temperatura media; questi repentini cambi climatici potrebbero aver costituito un impulso decisivo a sfruttare al massimo le capacità di adattamento culturale in quanto molto più rapido di quello genetico.
Possiamo comunque notare tre importanti caratteristiche della cultura cumulativa:
• consente un adattamento culturale più comodo e rapido, poiché modificare strumenti ed usanze già esistenti è più facile che crearne di nuovi;
• la combinazione di elementi culturali semplici permette di formare una grande varietà di nuove soluzioni per nuovi problemi, esattamente come con le lettere dell’alfabeto si possono comporre un numero enorme di parole; il vantaggio evolutivo è enorme e porta il patrimonio culturale a diventare da semplice integrazione di quello genetico a colonna portante dell’evoluzione successiva;
• le innovazioni culturali cumulative dipendono sempre meno dalle mutazioni genetiche e sempre più dalla precedente storia culturale accumulata; si ha quindi la tendenza ad una maggiore autonomia rispetto al patrimonio genetico.
Tutto ciò ha avuto anche un costo: dallo studio delle ossa sappiamo che, nel periodo storico considerato, il tempo necessario per raggiungere la maturità si allungò ulteriormente fino a raggiungere, con l’uomo di Neanderthal e l’uomo attuale, i venti anni circa. Tale lunghissimo periodo di apprendistato impone ai genitori un sacrificio maggiore in termini di tempo ed energie.

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Domenica 19 aprile 1309

19 Aprile 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

chiarine e gagliardetti

SQUILLINO LE TROMBE!

Oggi è festa nel Villaggio di Ofelon!

A due mesi dalla fondazione del Villaggio di Ofelon
oltre undicimila “viandanti telematici”
hanno visitato il Villaggio.
vi aspettiamo tutti con piena cittadinanza, muniti del vostro avatar,
per ampliare sempre di più la nostra tavola rotonda
in cui vogliamo confrontarci su temi importanti,
ma sempre divertendoci insieme
e fino a raggiungere risultati concreti
per un effettivo, diffuso e percepito miglioramento
della qualità della nostra vita.

Ofelon per tutti
e tutti per Ofelon!

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2.b.5 – I rituali e le parole sono degli strumenti culturali?

20 Aprile 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

rituali

        

I rituali e le parole sono degli strumenti culturali?

La crescente importanza della trasmissione del sapere ha stimolato l’evoluzione di due fondamentali strumenti specifici: i rituali e il linguaggio verbale.
Gli antropologi dell’ottocento e del novecento hanno svolto numerosi studi sulle comunità umane di stampo più antico, cioè quelle con un’economia basata ancora sulla caccia e la raccolta come le tribù del Nord America, della foresta amazzonica, dell’Indonesia e dell’Australia. Venne osservato che una caratteristica comune di tali culture era l’organizzazione di celebrazioni rituali a cui partecipava tutta la comunità; sebbene ogni popolazione abbia un suo modo particolare di celebrare feste o cerimonie religiose, tutte lo fanno con una enorme varietà di riti, preghiere, balli, canti, banchetti e anche gare sportive.
La moderna psicologia ci dice che questi rituali rafforzano l’identità di gruppo e aiutano a sviluppare la solidarietà, la collaborazione e l’amministrazione della vita sociale. La loro importanza è tale che spesso assumono un carattere sacro.
Molti rituali richiedono doti notevoli di affiatamento, imitazione ed apprendimento, doti che sappiamo essenziali per la vita dell’essere umano; per esempio, nei balli di gruppo si possono ostentare le suddette qualità assieme ad altre doti fisiche come forza ed agilità. Oltre ad essere spettacoli divertenti, utili a rinsaldare i rapporti sociali, si prestano spesso a svolgere un ruolo nel corteggiamento.
I rituali che coinvolgono tutta la comunità hanno un ruolo prevalentemente sociale e sono appunto detti riti sociali, ma in ogni attività umana possiamo trovare dei piccoli rituali che possiamo chiamare procedure di lavoro: un cuoco che prepara un piatto di spaghetti secondo una precisa ricetta, ripete fondamentalmente sempre lo stesso procedimento, esegue cioè una sorta di rituale di lavoro; lo stesso fanno dei muratori per costruire un muro o dei contadini per coltivare il grano o raccogliere le olive. Queste attività vengono tramandate principalmente grazie all’imitazione diretta, esattamente come i rituali sociali; in esse il linguaggio ricopre un ruolo secondario come in tutte le attività basate sul movimento: tutti abbiamo fatto l’esperienza di trovarci in difficoltà davanti alle istruzioni scritte per installare un televisore nuovo o un altro elettrodomestico e tutti sappiamo quanto le istruzioni risultino più chiare se accompagnate da disegni illustrativi nei quali un fumetto ci mostra come si fa, sebbene ancora meglio sarebbe una persona in carne ed ossa.
Il linguaggio verbale diviene invece lo strumento principale quando è necessario raccontare esperienze o eventi passati, oppure quando bisogna tramandare concetti astratti. La comparsa della parola ha segnato una tappa fondamentale nella cultura: le esperienze potevano ora essere raccontate e non solo mostrate; con la parola si possono esprimere anche concetti astratti, idee, opinioni; grazie alla parola la circolazione delle idee fu molto facilitata e la cultura ebbe un nuovo strumento, estremamente preciso, per trasmettersi e conservarsi.
Il linguaggio attuale è un altro tipico esempio di cultura cumulativa: varia in continuazione da regione a regione e di generazione in generazione. È bene ricordare che anche nel mondo animale, in particolare nelle scimmie, esistono rituali sociali, segnali vocali e fabbricazione di utensili e di certo esistevano anche nelle forme più antiche di ominidi; la cultura cumulativa ha solo portato a un loro ulteriore sviluppo sia culturale (varietà di forme ed applicazioni) sia genetico (modifiche dell’apparato vocale, delle capacità logiche e di imitazione).

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2.b.6 – Quali forme di cultura hanno lasciato una traccia tangibile?

21 Aprile 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

   

preistoria

        

Quali forme di cultura hanno lasciato una traccia tangibile?

A differenza dei rituali e del linguaggio verbale, vi sono forme di cultura cumulativa che hanno lasciato una traccia: una è data dalla produzione di utensili, nei quali si può osservare una graduale evoluzione; un’altra è data dalle arti figurative quali la pittura e la scultura. Nelle culture tribali è documentata una notevole attività artistica: tatuaggi, pitture sul corpo, disegni su pelli o tende, bracciali, collane ed ornamenti vari fino a statue in pietra, legno, corno, osso, ecc. Ogni tribù ha i suoi segni e oggetti tipici che acquistano un valore simbolico di appartenenza alla tribù stessa.
L’uso di simboli per ostentare l’appartenenza a un clan, a una famiglia, a una casta o a una particolare categoria sociale è molto comune in moltissime culture e altrettanto comuni sono i simboli religiosi con funzioni cerimoniali; si tratta di un vero e proprio linguaggio fatto di simboli: l’anello nuziale indica che si è sposati, il sacerdote durante la cerimonia religiosa indossa una particolare veste, ai funerali si indossano abiti neri, la corona e lo scettro del Re indicano la sua regalità, ecc. In tutte le culture umane ritroviamo questo tipo di linguaggio simbolico che deve dunque avere origini antichissime. Di particolare interesse è l’uso di simboli disegnati o intagliati che può aver dato origine alle forme d’arte che oggi chiamiamo pittura e scultura. I resti più antichi di pittura e scultura vengono dall’Africa e risalgono a circa 70 mila anni fa, ma considerando che anche in tempi moderni l’arte tribale fa un uso moderato della pietra, è ragionevole supporre che degli antichi pittori e scultori usassero materiali più deperibili anche molto tempo prima. L’arte della pittura ed il disegno simbolico sono la base da cui, molto tempo dopo, si svilupperà la scrittura. 

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2.b.7 – Cosa ci distingue dal primo homo sapiens?

22 Aprile 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

 

dubbio

        

Cosa ci distingue dal primo homo sapiens?

I resti più antichi rinvenuti dell’uomo attuale risalgono a 195 mila anni fa; da allora il nostro scheletro non ha subito modifiche rilevanti, ma non è detto che questo valga anche per il resto della nostra anatomia e, in particolare, eventuali cambiamenti nelle nostre capacità intellettuali ben difficilmente sarebbero rivelabili dalla forma del cranio. Considerando però che tale forma umana ha iniziato ad espandersi fuori dall’Africa circa 125 mila anni fa, si può dedurre che le attuali differenze etniche devono essersi formate necessariamente dopo di allora. Dato che tali differenze possono essere osservate nei lineamenti del viso, nel colore dei capelli o nella statura, ma non nelle capacità intellettuali, si può affermare che queste ultime fossero già state sviluppate in precedenza alle migrazioni nei continenti. Dato che ogni generazione umana si sente molto più intelligente di quelle precedenti, a cominciare da quella dei propri genitori, risulta difficile immaginarsi seduti su una panchina in giacca e cravatta, con in mano un telefonino, a fianco di un homo sapiens di 125 mila anni fa in pelle di lupo, con in mano una clava e convincersi di avere un cervello dalle medesime capacità genetiche; la verità è che le differenze riscontrabili sono solo il frutto dell’evoluzione culturale, di quella cultura cumulativa che contraddistingue la nostra specie e che, sviluppandosi sempre più velocemente, può davvero oggi portare a una sensibile differenziazione fra due generazioni successive.

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2.b.8 – La guerra è una prerogativa della cultura umana?

23 Aprile 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

       

La guerra è una prerogativa della cultura umana?

Un fenomeno molto antico nella storia culturale umana è sicuramente la guerra. La guerra richiede grande organizzazione, affiatamento ed identità di gruppo e gli studi sulle popolazioni che negli ultimi due secoli ancora vivevano di caccia e raccolta mostrano che in tutte vi era il ricorrente ricorso alla guerra per risolvere le dispute territoriali (anche quattro volte in un anno).
Una simile attività bellica non ha eguali fra le scimmie, dove gli scontri di gruppo sono eccezionali, a differenza di quelli fra singoli maschi dominanti; la guerra sembra dunque essere una necessità tipicamente umana. In natura le popolazioni animali rimangono stabili, nonostante il grande numero di figli, a causa dei predatori, delle malattie, degli incidenti, della siccità, del freddo e della fame; essere uccisi dai propri simili è un evento piuttosto raro che, tuttavia, diviene più comune in condizioni artificiali di sovrappopolazione come può accadere negli zoo.
Nell’uomo, lo sviluppo del comportamento bellico è dovuto con ogni probabilità alla minore incisività dei suddetti fattori di stabilizzazione, al conseguente aumento della popolazione e alla successiva minore disponibilità di cibo che inevitabilmente comporta un incremento dei conflitti territoriali.
Nel mondo animale possiamo osservare due forme fondamentali di lotta:
1. lotta fra predatori e prede, il cui scopo è uccidere o evitare di essere uccisi; è la forma più violenta di lotta per la sopravvivenza;
2. lotta fra rivali; il caso più classico è dato dai maschi che si battono per il possesso delle femmine, in cui lo scopo non è la morte, ma la sottomissione dell’avversario (che potrebbe essere anche un membro del proprio branco e magari un parente stretto).
Nella prima forma, un predatore, se vuole nutrirsi, non può evitare di uccidere la propria preda e per la preda, d’altro canto, nessuna difesa è troppo rischiosa, visto il pericolo che corre; nella seconda forma, invece, l’uccisione dell’avversario non solo non è necessaria, ma se si tratta di un membro del proprio gruppo sarebbe addirittura dannosa; è inoltre evidente che anche per il soccombente risulta conveniente ritirarsi prima di farsi veramente male o rischiare di essere ucciso.
L’insegnamento che ancora una volta dobbiamo trarre dalla natura è il seguente: nella lotta fra rivali lo scontro, anche violentissimo, è una prova di forza e non un attentato alla vita dell’avversario, il quale in genere ne esce un po’ malconcio, ma vivo. Si noti inoltre che in natura spesso sono presenti precisi rituali di minaccia per evitare, quando possibile, lo scontro fisico.
Nelle comunità umane di tutti i tipi, comprese quelle tribali, ritroviamo queste due forme di lotta: le prede vengono uccise senza pietà come fanno tutti i predatori e le loro spoglie vengono divise fra i cacciatori e le loro famiglie, mentre all’interno della comunità non mancano scontri anche molto violenti, però regolati da precisi rituali, nei quali si evita di uccidere l’avversario.
Se ora consideriamo una guerra, è subito evidente che i due schieramenti combattono fra loro non come rivali in amore o avversari sportivi, ma come se appartenessero a specie differenti; in guerra si combatte per uccidere oppure si verrà inevitabilmente uccisi. Le popolazioni cannibali addirittura mangiavano i loro avversari sconfitti, dividendone i resti come si usa con le prede animali; in casi meno estremi, gli sconfitti venivano comunque spogliati dei vestiti, delle armi e di tutto ciò che potesse avere un valore; uno stesso atteggiamento predatorio si riscontra poi durante i saccheggi ai villaggi o alle città nemiche.
Numerosi dunque sono gli atteggiamenti che indicano che il rapporto con il nemico è del tipo uomo-animale (intendendo per animale sia una preda che un predatore) e non uomo-uomo.
Continuando a dimostrare come la guerra sia un fenomeno tipicamente umano, in cui si riscontrano tutte le strategie evolutive e culturali, sorge però un problema: come è possibile che l’uomo, selezionato da milioni di anni di evoluzione naturale per vivere socievolmente in comunità, abbia combattuto e continui a combattere tante sanguinosissime guerre fratricide? La risposta va cercata nella natura della cultura umana e nelle differenti vie attraverso le quali si esprime. Per trascinare un popolo in guerra è necessario sviluppare un sistema che inibisca i suoi naturali istinti sociali; il sistema più semplice, da sempre praticato, consiste nell’identificare i nemici con animali di una diversa specie, comunque con animali pericolosi. A tal fine vengono sfruttate tutte le possibili varianti culturali: i nemici non sono come noi, tanto è vero che parlano una diversa lingua, hanno un diverso colore della pelle, indossano un diverso abbigliamento, praticano una diversa religione, ecc.; di conseguenza assume fondamentale importanza l’esaltazione di quanto può servire a identificarsi nel proprio gruppo ed ecco che ogni tribù sviluppa presto un suo accento particolare, ha i suoi colori di guerra (o una sua divisa), i suoi simboli religiosi, le sue particolari acconciature dei capelli, i suoi caratteristici tatuaggi, ecc.; chi non ha questi segni di riconoscimento viene considerato un animale da abbattere.
La guerra sfrutta tutte le strategie fondamentali dell’uomo: l’organizzazione e l’affiatamento di una comunità sono infatti elementi indispensabili per qualunque attività bellica, la specializzazione di alcuni membri della comunità in guerrieri è altrettanto necessaria, così come lo è la manipolazione tesa a realizzare armi sempre più potenti.
Anche la cultura cumulativa ha sempre dato il proprio contributo alla guerra: con il passare del tempo le comunità sono cresciute di dimensione e ben presto si formarono alleanze fra comunità distinte; all’interno della comunità specializzata dei guerrieri si sono formati sottogruppi sempre più specifici (arcieri, cavalieri, artiglieri, ecc.); nel caso degli armamenti l’apporto della cultura cumulativa è ancor più evidente, essendo passati in poco tempo dalla spada alla bomba atomica.
Il ritrovamento di resti di uomini di Neanderthal con delle punte di lancia conficcate nello scheletro lascia intendere come la guerra abbia accompagnato e influenzato l’intera evoluzione culturale dell’uomo.

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httpv://www.youtube.com/watch?v=w_xvPwf84F8

 

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2.b.9 – Agricoltura e allevamento: due tappe fondamentali?

24 Aprile 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

aratura

       

Agricoltura e allevamento: due tappe fondamentali?

Circa 12 mila anni fa ebbe fine l’ultima glaciazione; oggi sappiamo che, fino a quel tempo, profondi e repentini cambiamenti climatici rappresentavano la regola e che gli esseri viventi, compreso l’uomo, vi erano da sempre abituati; il periodo di stabilità che è seguito all’ultima glaciazione, e che tuttora perdura, rappresenta dunque una breve quanto eccezionale parentesi di quiete nella lunga quanto turbolenta storia climatica. Il clima divenne durevolmente più caldo, più piovoso e con minori differenze di temperatura fra inverno ed estate. Cambiò di conseguenza la distribuzione della vegetazione e della selvaggina, i ghiacci scomparvero dalle zone temperate e queste mutarono radicalmente aspetto; ciò diede a tutti, uomini e animali, nuove opportunità di nutrimento. La nostra specie si era ormai diffusa da tempo su tutto il pianeta, ma mai prima di allora vi era stata una così regolare disponibilità di risorse vegetali e di animali erbivori.
È assai probabile che la nuova situazione portò ad un aumento della popolazione fino a raggiungere un nuovo equilibrio: quantità di cibo pro capite pari al tempo della glaciazione, ma con spazi disponibili più ristretti. A questo punto vi erano due possibili vie da percorrere per migliorare le proprie condizioni di vita: estendere il territorio con la guerra oppure sfruttare in modo più efficace le nuove ricchezze disponibili, approfittando al massimo della stabilità del clima; furono seguite entrambe.
Osservando le moderne società tribali, specialmente quelle delle foreste pluviali meno interessate dalla fine della glaciazione, possiamo supporre che i cacciatori proteggono da sempre la selvaggina del proprio territorio da altri predatori, compresi i cacciatori delle altre tribù che sconfinano e da sempre praticano forme di aiuto verso le piante commestibili nei confronti delle cosiddette erbacce. Da queste basi si svilupparono, in vari luoghi temperati del mondo, le prime forme di allevamento ed agricoltura.
È plausibile che le antiche tribù di cacciatori, legate da vincoli di parentela o derivate da una medesima tribù di origine, avessero degli accordi di reciproco aiuto in tempi di carestia o di guerra, che portavano alla divisione della selvaggina e alla formazione di eserciti comuni, esattamente come avviene fra le tribù moderne; da queste usanze si svilupparono i grandi eserciti delle grandi civiltà agricole.
Lo sviluppo dell’agricoltura e dell’allevamento portò ad un radicale cambiamento nella società umana, paragonabile solo alla discesa dagli alberi dei primi ominidi; la disponibilità di cibo aumentò considerevolmente, specialmente quando iniziò la coltivazione dei cereali come il grano, l’orzo, il riso: queste piante infatti producono semi molto nutrienti che si conservano anche per anni e quindi, coltivate in larga scala, permisero di accumulare grandi riserve di cibo vegetale. Allo stesso modo l’allevamento del bestiame permise di fare affidamento su una fonte continua di risorse animali e a rafforzare la cultura delle scorte; disporre di scorte significò potersi permettere una vita più stanziale che, nel tempo, portò alla formazione dei primi centri urbani. I campi, coltivati con tecniche sempre più accurate, producevano molto più di quanto fosse necessario al mantenimento dei contadini che li coltivavano e lo stesso avvenne con i grandi allevamenti di bestiame; tale rivoluzionaria situazione portò allo sviluppo della cultura del risparmio, che permette di poter disporre in un secondo momento delle risorse non consumate, e permise alla popolazione non solo di crescere, ma di avere la possibilità di dedicarsi a tempo pieno anche ad altre attività, specializzandosi in varie forme di artigianato tra le quali ricordiamo i falegnami, i fabbri, i vasai e i tessitori, ai quali presto si aggiunsero i commercianti.
Nelle comunità tribali vi era una netta separazione dei compiti solo fra maschi e femmine, con gli uomini dediti alla caccia di gruppo, alla guerra ed alle attività ad esse collegate come la costruzione delle armi, mentre le donne erano dedite alla raccolta del cibo vegetale ed alla cura dei bambini. Nel nuovo contesto urbano si svilupparono invece diversi compiti e conoscenze non solo in base al sesso, ma anche al tipo di lavoro. Da piccoli villaggi di cacciatori di 60 o 70 individui si passò inoltre a cittadine di 7.000 abitanti.

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2.b.10 – Che ruolo ha il commercio nell’evoluzione culturale?

25 Aprile 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

  

merci

       

Che ruolo ha il commercio nell’evoluzione culturale?

La grande varietà di prodotti dell’agricoltura, dell’allevamento e dell’artigianato portò a uno scambio di merci all’interno della comunità e favorì quello esterno alla comunità stessa; si formò quindi anche la categoria dei commercianti a tempo pieno.
Il commercio consiste in uno scambio di beni che nelle sue prime applicazioni assunse la forma del baratto, cioè dello scambio di un bene che si vuol cedere con un altro che si vuole acquistare; i beni da cedere erano inizialmente quelli vegetali, animali o artigianali che eccedevano le proprie necessità di consumo o di scorta e quindi i primi baratti avvenivano fra produttori. I limiti di tale tipo di baratto sono immediatamente evidenti, in quanto circoscrivono la possibilità di scambio a quanto offerto dalla propria comunità o da quelle vicine, ma ben presto si formò la figura del commerciante, cioè di colui che barattava dei beni con altri di cui non aveva bisogno personalmente, ma che intendeva scambiare in comunità più lontane dove tali beni, in quanto carenti, assumevano maggior valore. Nel baratto il valore dei beni oggetto dello scambio viene considerato equivalente dalle parti in base a considerazioni quantitative e qualitative dei beni stessi; tali considerazioni vengono naturalmente influenzate dal bisogno che si ha di quel tale bene e dalla difficoltà che si incontra nel procurarselo.
Anche nelle forme indirette, cioè tramite commercianti, il baratto presenta però dei grandi limiti: i beni deperibili, come i generi alimentari, devono essere consumati in breve tempo e quindi non possono essere oggetto di molteplici scambi successivi; altri beni, come i capi di bestiame vivi, sono indivisibili e devono perciò essere scambiati con quantità di altri beni superiori a quanto necessario (obbligando il cedente a ulteriori scambi di quanto ottenuto in cambio). Il baratto può pertanto essere applicato solo in economie semplici e a base ristretta.
Il nuovo ambiente economico che si era formato, cioè quello basato sugli scambi, provocò naturalmente degli adattamenti da parte dell’uomo che ne rendessero più fruibili le opportunità e, in particolare, bisogna ricordare l’invenzione della moneta, cioè di un oggetto che allo stesso tempo svolga sia la funzione di quantificazione del valore, sia quella di costituire un mezzo di scambio, un mezzo peraltro accumulabile senza problemi di deperibilità e di spazio, nonché di divisibilità.
Lo sviluppo degli intensi traffici commerciali che conseguirono all’avvento della moneta portò ad un ulteriore sviluppo economico: ogni città, per importare i prodotti tipici di un’altra, doveva infatti scambiarli con i propri, rendendo vantaggioso un aumento di produzione altrimenti inutile e aumentando la ricchezza complessiva delle comunità; questo fenomeno portò anche all’interdipendenza delle città prima economicamente e poi politicamente, stimolando alleanze, fusioni o invasioni.
Grazie a pacifiche alleanze o a violente conquiste, a partire da 6 mila anni fa, si formarono grandi comunità umane su vasta scala territoriale, cioè i grandi imperi delle antiche civiltà: gli Egizi, i Sumeri, gli Assiri, i Babilonesi, i Persiani, i Romani e i Cinesi; tutte queste civiltà si distinsero per la loro ricchezza alimentata da prosperi traffici commerciali, per favorire i quali furono realizzate grandi reti di comunicazioni e trasporti: strade, ponti, navi, canali navigabili, fari e perfino servizi postali. Le città più grandi come Roma o Cartagine arrivarono ad oltre 700 mila abitanti e tale aumento della popolazione, unito alla necessità di distribuire una grande quantità e varietà di merci, spiega il crescere delle difficoltà ad amministrare queste metropoli.  

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2.b.11 – La scrittura ha permesso un salto di qualità?

26 Aprile 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

ideogrammi

       

La scrittura ha permesso un salto di qualità?

Tra le prime forme di scrittura bisogna ricordare le pittografie, cioè dei sistemi in cui ciò che si vuol comunicare è rappresentato da un disegno più o meno stilizzato. Per essere efficace, la scrittura pittografica ha bisogno che si conosca il contesto e gli oggetti materiali a cui le immagini si riferiscono (un uomo che corre appresso a una freccia non è sinonimo di uscita di emergenza per tutti e ovunque), ma quando ciò accade, la comprensione è immediata e supera il problema della diversità delle lingue (si pensi alla segnaletica usata nelle stazioni, negli stadi, ecc.)
Le tracce più antiche di scrittura risalgono a oltre 6.000 anni fa; sembra che il passaggio da un linguaggio simbolico basato su disegni a dei disegni rappresentanti delle parole sia dovuto alla necessità di contabilizzare gli scambi commerciali o altri adempimenti burocratici tipici delle grandi città agricole. Così come una complessa vita sociale ha favorito lo sviluppo del linguaggio articolato, una intricata burocrazia ha richiesto lo sviluppo di un linguaggio di simboli altrettanto efficiente di quello verbale.
La scrittura fu dunque uno strumento necessario per l’archiviazione dei dati contabili inerenti all’inventario delle riserve, all’esazione dei tributi e alle transazioni commerciali, ma venne usata poi per altri fini come testimoniare la forza e il potere dei re; ciò avvenne con scritture pubbliche e solenni, realizzate in modo che la forma, i materiali e le dimensioni le possano conservare nel tempo a perenne simbolo del potere da cui provengono (si pensi alle scritte incise sulle porte di accesso alle città e a quelle celebrative su facciate o monumenti).
Con il passare del tempo, alle originarie scritture per immagini, in cui ogni simbolo rappresentava una parola e in cui i segni hanno una funzione essenzialmente mnemonica, si aggiunsero le scritture fonetiche, cioè sistemi di scrittura che riflettono specularmente la lingua parlata. La scrittura fonetica ha permesso la formazione di un sistema di pochi segni, ma componibili in innumerevoli combinazioni: l’alfabeto. Quest’ultimo, essendo assai più facile da imparare e da gestire, costituì anche una premessa fondamentale per lo sviluppo della stampa in tempi molto più recenti.
La scrittura permette di fissare le parole su un supporto materiale, il quale diviene così una espansione della memoria umana, in grado di conservare parole, pensieri e conoscenze per secoli. Con la scrittura il patrimonio culturale umano può essere depositato in una cassaforte più affidabile della mortale e a volte imprecisa memoria umana. La scrittura rese dunque la cultura umana ancora più accumulabile, in modo tale che l’esperienza di un singolo individuo poté superare i limiti della sua vita personale. Abbiamo detto che la ricostruzione della storia culturale è difficile e imprecisa perché la cultura non lascia tracce fossili o genetiche, ma questo è vero fino all’invenzione della scrittura; con il rinvenimento dei più antichi testi scritti la nostra conoscenza del passato compie un enorme salto di qualità, la scrittura segna il passaggio dalla preistoria alla storia.
Il linguaggio simbolico scritto ebbe nello stesso periodo un secondo notevole ramo evolutivo, lo sviluppo dei simboli matematici; in fondo si tratta sempre di una forma di scrittura, ma che non rappresenta parole, bensì concetti astratti relativi alla misura ed alla quantità di oggetti: i numeri. Bisogna quindi riconoscere alla scrittura il merito di aver permesso lo sviluppo della fondamentale attività del calcolare (che non si può sviluppare oltre una certa complessità senza un supporto scritto). La scrittura permette inoltre la costruzione di tabelle a due o più colonne, cioè la formazione di un ordinamento visivo che non è possibile fare verbalmente.
Le possibili applicazioni in ambito commerciale ed amministrativo sono facilmente intuibili e tuttora in uso, ma vi è un’applicazione ancora più strettamente legata all’agricoltura: la misurazione dei campi che portò allo sviluppo della geometria nell’antico Egitto; in Egitto, dopo ogni inondazione del Nilo, dato che tutti i confini risultavano cancellati, era necessario che gli stessi venissero ridisegnati; questa particolarità ambientale rese gli Egizi dei maestri nella geometria e nella matematica.
Attualmente la capacità di scrivere non solo è molto diffusa, ma si scrive sempre più frequentemente con delle macchine; l’avvento degli elaboratori elettronici, con i loro innumerevoli tipi di carattere, con le varie formattazioni delle pagine e addirittura con la possibilità di correzioni ortografiche e grammaticali automatiche, rende difficile concepire quanta fatica sia costata la realizzazione e lo sviluppo della scrittura, ma secondo un antico trattato persiano, il calligrafo deve avere una mano delicata, occhio lungimirante, spirito acuto, sensi affinati, un’anima pura e un intelletto superiore. Nei tempi antichi la scrittura era tutt’altro che un’attività normale, era un fenomeno talmente eccezionale nella sua concezione, realizzazione e applicazione che non si poté non attribuirgli origini divine. D’altra parte anche in epoche precedenti gli uomini cercavano le indicazioni degli Dei in particolari segni (una particolare disposizione di ossa, una data sequenza di sassolini, ecc.) e quindi la divinazione della scrittura, nonché della sua più alta manifestazione, i libri sacri, fu un fenomeno naturale.

 

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2.b.12 – Lo sviluppo delle scienze è dovuto alla specializzazione?

27 Aprile 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

numeri

       

Lo sviluppo delle scienze è dovuto alla specializzazione?

Il proliferare di tante attività diverse, ognuna con conoscenze sue peculiari, portò alla formazione di un enorme patrimonio di conoscenze tecniche; ai nuovi problemi e alle nuove esigenze, che le civiltà agricole andavano affrontando, l’adattamento culturale rispose con le specializzazioni culturali e con lo sviluppo delle scienze. In particolare ricordiamo importanti progressi riguardo:
• la matematica: per la contabilità del commercio e delle amministrazioni statali, nonché per i calcoli della geometria e dell’astronomia;
• la geometria: per la suddivisione e l’irrigazione dei campi, per l’architettura e per l’astronomia;
• l’idraulica: per l’irrigazione dei campi, per gli acquedotti destinati al rifornimento delle grandi città, fino ai famosi giardini pensili di Babilonia;
• l’architettura: per la costruzione di templi monumentali in grado di accogliere e suggestionare grandi masse di cittadini, per la costruzione di strade e ponti per i traffici commerciali;
• la meccanica: come ausilio all’architettura per spostare grandi pesi durante le costruzioni monumentali come le piramidi d’Egitto e, in un secondo momento, per costruire macchine da guerra come le catapulte;
• l’ingegneria nautica: per le grandi navi mercantili;
• l’astronomia: per la misura del tempo e delle stagioni e per l’orientamento in mare.

Lo sviluppo di tutte queste conoscenze in epoca storica, cioè dopo l’avvento della scrittura, fu tale da porre il problema di come ordinarle e catalogarle; le meraviglie tecniche dell’epoca suscitarono ammirazione anche fra la gente comune e spesso filosofi e scienziati erano tenuti in grande considerazione da tutta la comunità.
Il progresso delle scienze e della tecnica di un popolo avanzava quanto più questo risultava ricco, potendo mantenere un maggior numero di studiosi. Un contributo fondamentale veniva anche dall’economia commerciale, la quale, oltre alle merci, permetteva di importare anche le conoscenze di altre civiltà più antiche, consentendo di recuperare il ritardo o quantomeno non dover partire da zero in ogni campo. Il progresso inoltre avanzava quanto più a lungo la sua civiltà riusciva a sopravvivere alla concorrenza ed alle invasioni dei popoli confinanti; le civiltà più ricche e longeve raggiunsero quindi i più alti livelli scientifici e ne è un esempio la Grecia classica che con Pitagora ed Archimede portò la matematica a livelli mai visti in Europa fino ad allora. Da ricordare inoltre Erone di Alessandria al tempo della Roma Imperiale e Leonardo da Vinci nell’Europa rinascimentale come massimi rappresentanti dell’ingegneria del loro tempo ed infine Pitagora, Democrito, Aristotele, Galileo Galilei e Isaac Newton come i teorici più illustri, la cui opera portò gradualmente alla creazione del metodo scientifico sperimentale usato attualmente, il quale permette di studiare le leggi naturali con un rigore e una precisione paragonabili a quelle della matematica, segnando la fine della filosofia della natura e l’inizio della scienza sperimentale, che non avendo più rivali, oggi noi chiamiamo semplicemente scienza. Infine bisogna citare, per gli sviluppi culturali successivi, l’invenzione della stampa a caratteri mobili di Gutenberg, che consente un gigantesco aumento della produzione dei libri e quindi della diffusione e conservazione della cultura; l’invenzione della stampa, da questo punto di vista, è seconda solo a quella della scrittura stessa.

 

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2.b.13 – Lo schiavismo è analogo all’allevamento?

28 Aprile 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

schiavo

       

Lo schiavismo è analogo all’allevamento?

Con la comparsa dell’allevamento si sviluppò un nuovo tipo di relazione fra l’uomo e gli animali: dal rapporto uomo-preda si passò al rapporto uomo-bestiame. Nell’allevamento gli animali sono costretti ad una convivenza forzata con l’uomo nella quale perdono ogni possibilità di fuga; essi sono nutriti dai loro allevatori, ma è un vantaggio pagato a caro prezzo (la possibilità di fuga); non è dunque il caso di parlare di simbiosi con reciproco vantaggio in quanto per gli animali non aumentano le possibilità di sopravvivenza. Spesso il bestiame è formato da animali sociali, come le pecore o i cavalli, che di norma vivono in branco guidati da un capo e che ora sono guidati dagli allevatori, i quali si sono quindi sostituiti al capo. Gli animali allevati sono un bene prezioso e vengono trattati come oggetti di valore; sono infatti comprati e venduti come tali e vengono spesso marchiati in modo indelebile per attestare il titolo di proprietà.
Gli animali allevati non sono solo prede senza speranza: dopo la comparsa dell’agricoltura vennero infatti impiegati anche come animali da soma, dando un contributo fondamentale al suo sviluppo. Abbiamo visto come gli uomini, per farsi la guerra tra loro, abbiano bisogno di identificare il nemico come un animale di una diversa specie e quindi, in caso di cattura di un nemico, risultò naturale impiegarlo come animale da lavoro. Nella schiavitù il rapporto uomo-schiavo ha infatti le stesse caratteristiche che abbiamo notato nell’allevamento animale: gli schiavi erano prigionieri di guerra o loro discendenti, non erano liberi di andarsene e rimanevano perennemente prigionieri dei loro padroni; potevano essere comprati e venduti; in certe culture venivano anche marchiati a fuoco; lavoravano nei campi come animali da soma al pari di asini, buoi e cavalli.
Sappiamo che anche nelle società tribali i nemici in guerra, o potenziali nemici in quanto appartenenti a tribù storicamente ostili, venivano da sempre considerati e trattati come animali, ma quel tipo di società non poteva mantenere un grande numero di schiavi e per un prigioniero era più probabile finire al palo della tortura piuttosto che schiavizzato, sebbene occasionalmente fosse possibile. Nell’era agricola invece vi erano le risorse per nutrire una numerosa popolazione di schiavi, che peraltro era molto utile per il duro lavoro dei campi, e quindi i prigionieri di guerra divennero una merce preziosa come animali da lavoro. Gli schiavi dunque non erano propriamente il gradino più basso nella gerarchia della società, ma erano bestiame al di fuori di essa. In una gerarchia, sia umana, sia animale, si può cambiare di livello salendo o scendendo, si può spodestare o essere spodestati, ma agli schiavi questo certo non era concesso come non lo era per ogni animale allevato. In una città allora si potevano trovare due popolazioni umane ben distinte: quella dominante con la sua gerarchia interna e quella degli schiavi ai quali non era concessa nemmeno una loro gerarchia perché se avessero avuto una loro organizzazione sociale, avrebbero potuto usarla per ribellarsi; il massimo a cui uno schiavo poteva aspirare era quello di formare un proprio nucleo familiare, ma aggregazioni sociali più numerose erano fuori discussione.
In questa epoca agricola nacquero dunque le classi sociali, ovvero popolazioni nettamente separate senza possibilità di passare dall’una all’altra. Nel corso della storia con un processo simile spesso si formarono società con tre classi: i nobili (classe dominante), il popolo (classe dominata), gli schiavi (animali da lavoro, robot viventi). Infatti una popolazione nomade di predoni poteva saccheggiare una città e catturare schiavi per poi rivenderli, alcune però trovarono più pratico pretendere un regolare tributo in cambio della pace e magari di una protezione da altri predoni. Comparve così un altro rapporto del tipo parassita-ospite nel quale la popolazione dominante non schiavizzava quella sottomessa, ma semplicemente si sostituiva al gruppo dirigente il cui ruolo rimaneva ora riservato ai nuovi dominatori che formavano una classe a parte (i nobili). La profonda differenza rispetto allo schiavismo è che i dominati non venivano comprati e venduti e non perdevano completamente la loro struttura sociale, la loro gerarchia però rimaneva decapitata. Questa struttura sociale si è diffusa e rafforzata nel corso dei millenni fino a quando un nuovo fenomeno portò a profondi cambiamenti: la rivoluzione industriale.

 

httpv://www.youtube.com/watch?v=Z4wRPdwFGoQ

 

IL CASO CELEBRE
   ABRAHAM LINCOLN
                                                                                

CONCETTI IN PILLOLE
pillola 
n. 7  –  ALLEVAMENTO E SCHIAVISMO                                       Allevamento e schiavismo

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2.b.14 – Come si arrivò alla rivoluzione industriale?

29 Aprile 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

fabbrica

       

Come si arrivò alla rivoluzione industriale?

La rivoluzione agricola si sviluppò in seguito alla fine delle glaciazioni, cioè a un cambiamento climatico; la rivoluzione industriale ebbe invece luogo in seguito ad un insieme di circostanze propizie di tipo storico, politico ed economico; non vi fu alcun cambiamento del clima o dell’ecosistema, ma una normale evoluzione della società umana; le premesse che portarono alla rivoluzione industriale furono, in fin dei conti, un prodotto della cultura umana.
Nel 1700 d.C. l’Impero Britannico, il più grande di tutti i tempi, era in piena espansione e le sue rotte commerciali raggiungevano tutti i continenti; l’Inghilterra era potente e ricchissima e una enorme quantità di merci si riversava nelle sue città. Questa situazione si era già verificata più volte con altri imperi come quello mongolo, romano o persiano, ma ora i territori dell’Impero erano formati soprattutto dalle colonie in territori allora detti selvaggi dove la civiltà agricola era poco diffusa o assente; ne conseguì che venivano importate principalmente grandi quantità di materie prime che poi dovevano essere lavorate in patria; il prodotto finito poteva poi essere venduto su tutto il grande mercato europeo. In precedenza, nell’Impero Romano, vi era già una rete commerciale estesa su tutta l’Europa, Roma era ricchissima, ma non aveva motivo di importare solo materie prime, né di lavorarle per rivenderle al resto dell’Impero. L’economia coloniale sia inglese che europea aveva un sistema produttivo nettamente diverso rispetto al passato: gli stati europei, e in particolare la piccola e potentissima Inghilterra, erano i centri di lavorazione delle merci importate ed esportate in tutto il mondo.
È importante notare che le materie prime non venivano lavorate solo per soddisfare le esigenze locali, ma anche quelle di tutto il mercato europeo e delle colonie stesse; svolgere questa imponente mole di lavoro richiese dei cambiamenti nell’organizzazione della lavorazione: da piccoli gruppi di artigiani si passò a grandi adunanze di operai in vasti casolari detti fabbriche, all’interno vi erano uno o più operai che si occupavano di una singola fase della lavorazione e solo di quella, per poi passare il prodotto ad un altro gruppo per la fase successiva; era nata la produzione in serie.
E’ probabile che questa tecnica non fosse del tutto nuova, ma mai era stata applicata su così vasta scala; la lavorazione in serie era in grado di produrre, a parità di tempo, un numero di pezzi molto maggiore a quello della lavorazione artigianale; in precedenza, nel ristretto mercato locale, tutta questa produzione sarebbe rimasta invenduta.

 

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2.b.15 – Quali sono le principali conseguenze della rivoluzione industriale?

30 Aprile 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

 

locomotiva

       

Quali sono le principali conseguenze della rivoluzione industriale?

La comparsa e la diffusione del modello di produzione in serie (o industriale) provocò profondi cambiamenti economici, sociali, tecnici e scientifici; alcuni eccezionalmente positivi, altri tragicamente negativi:
• la produzione in serie permise di abbassare i costi di produzione e quindi, a parità di prezzo di vendita del prodotto, fece realizzare un altissimo profitto all’imprenditore industriale; l’industria si rivelò un’attività altamente redditizia e ben presto si sviluppò una spietata concorrenza;
• una delle strategie adottate per sconfiggere la concorrenza fu quella di abbassare il costo del prodotto; chi adottò questa strategia, non solo sopravvisse alla concorrenza, ma innescò un circolo virtuoso in base al quale il prezzo diminuiva, aumentava il numero di clienti che potevano permettersi di acquistare, aumentava il giro di affari, aumentava il profitto a parità di operai, aumentava la possibilità di ridurre ancora i costi. Vendere alle masse oltre che ai ricchi divenne un ottimo affare;
• per abbassare i costi si poteva rinunciare ad una parte del profitto su ogni singolo prodotto venduto, si poteva diminuire il salario degli operai, si poteva diminuire il numero di operai comprando macchine più moderne e si poteva allargare il mercato e la produzione a parità di costi fissi; tutte queste tecniche vennero adottate con matematica precisione ed efficienza;
• il generale abbassamento dei prezzi sui prodotti industriali rese gli stessi accessibili a grandi masse della popolazione che prima non erano in grado di acquistarli, aumentò quindi il potere di acquisto e la ricchezza media per grandi fasce della popolazione;
• la concorrenza spietata della produzione industriale soppiantò rapidamente la produzione artigianale in molti settori quali il tessile ed il metallurgico. Gli artigiani, rimasti senza lavoro, dovettero convertirsi in operai a basso costo;
• al fine di ridurre il costo del prodotto si cercò di ridurre al massimo anche il salario degli operai fino ad arrivare al minimo indispensabile per la sopravvivenza, condannandoli ad una povertà estrema, mentre il resto del mondo diventava più ricco anche grazie a loro;
• grandi profitti permettevano grandi investimenti, specialmente nel comprare grandi macchine industriali, progettate per avere una efficienza sempre più alta e che richiedessero un minor numero di costosi operai; quindi con il tempo gli operai passarono dalla povertà alla disoccupazione ed alla miseria;
• investire in macchine si rivelò molto vantaggioso per gli imprenditori industriali, ma anche per ingegneri e scienziati che videro aumentare i loro profitti e il loro prestigio. Il risultato fu uno sviluppo tecnologico e scientifico senza precedenti: a volte dopo solo pochi anni le macchine apparivano già superate, in particolare quelle a vapore che diedero un grandissimo contributo alla produzione industriale; si svilupparono vari rami della scienza che avevano applicazioni industriali come la chimica, la meccanica, la termodinamica (per i motori a vapore e poi a scoppio), ma anche settori non direttamente coinvolti riuscirono a trarre vantaggio da questo momento di grazia goduto dalle scienze come la medicina, la biologia e l’elettrotecnica.

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2.b.16 – Quali furono le ricadute tecnologiche ed economiche negli altri settori?

1 Maggio 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

 

telegrafo

       

Quali furono le ricadute tecnologiche ed economiche in altri settori?

La rivoluzione industriale causò una espansione economica senza precedenti che coinvolse tutte le componenti della società e tutti i settori di produzione; in particolare venne fortemente incentivato il settore del commercio, sia per mare che per terra, rendendo quanto mai opportuna l’introduzione dei battelli a vapore e del treno; utilizzando le nuove tecnologie, nel corso dell’ottocento si costruirono navi sempre più grandi e stabili e una rete ferroviaria avvolse tutta l’Europa e gli Stati Uniti d’America. La rivoluzione tecnologica dei trasporti prosegui nel novecento con la diffusione dell’automobile e dei veicoli motorizzati in genere, nonché con l’invenzione dell’aereo.
Un analogo sviluppo si ebbe nel settore delle comunicazioni: dapprima migliorarono i servizi postali, grazie ai nuovi trasporti motorizzati, poi con il telegrafo del 1844 iniziò l’era delle telecomunicazioni che proseguì nel 1860 con il telefono e nel 1897 con la radio. Questi strumenti si basavano su un uso totalmente nuovo dell’elettricità che ora veniva usata per inviare dei segnali; questa nuova tecnologia oggi è detta elettronica e portò, nel 1925, al primo modello sperimentale di televisore.
Profondi mutamenti interessarono anche il tradizionale settore agricolo in cui vennero introdotte macchine sempre più sofisticate ed efficienti, nonché fertilizzanti e pesticidi chimici prodotti industrialmente.
La nuova potenza industriale e le maggiori conoscenze scientifiche e tecnologiche portarono inevitabilmente alla produzione di armamenti sempre più micidiali e a guerre sempre più sanguinose; guerre peraltro combattute per disputarsi i territori coloniali che, come abbiamo visto, rappresentavano fonte e sbocco della produzione industriale. Anche le necessità belliche, come quelle industriali, hanno dato un grande impulso alla ricerca e alla scienza; molte invenzioni, rese possibili da scopi militari largamente finanziati, hanno poi avuto ampia diffusione e applicazione in ambito civile come gli aerei a reazione, i navigatori satellitari e internet.
L’espandersi dell’uso della tecnologia tipicamente industriale al di fuori delle fabbriche influenzò la vita della gente comune anche nel tempo libero: nelle grandi città del XIX secolo si poteva viaggiare in treno o in bicicletta, si poteva telegrafare un messaggio, farsi fare delle fotografie e, a fine secolo, anche andare al cinema, volare con la mongolfiera o il dirigibile. Come sappiamo, tale fenomeno è andato poi crescendo per tutto il XX secolo e oggi, nei paesi industrializzati, in ogni casa troviamo una lavatrice, un aspirapolvere, una radio, almeno un televisore, un personal computer ed un numero imprecisato di telefoni cellulari.
Il rapido diffondersi della tecnologia fra la popolazione provocò la diffusione di un nuovo modo di concepire il mondo: un mondo in continua evoluzione, dominato dal progresso non solo tecnologico, ma anche civile ed economico; la visione di un mondo statico o ciclico venne universalmente abbandonata, tutti videro con i loro occhi le meraviglie delle nuove tecnologie e fu chiaro che il mondo non sarebbe stato più lo stesso. Non è un caso che la teoria dell’evoluzione venne concepita ed accettata in questo periodo e lo stesso possiamo dire della comparsa della fantascienza come genere letterario e cinematografico.

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2.b.17 – Si ebbero anche conseguenze politiche e sociali?

2 Maggio 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

monarca

        

Si ebbero anche conseguenze politiche e sociali?

La ricchissima borghesia industriale presto divenne una classe sociale a parte, destinata a separarsi dal popolo dominato e ad entrare in competizione diretta con la nobiltà, formata principalmente dai ricchi proprietari terrieri che detenevano il potere politico in quanto classe dominante; gli industriali erano ormai più ricchi dei nobili e mal sopportavano la tradizionale subordinazione nei loro confronti. In passato, in caso di crisi politica, un re o un duca poteva essere deposto con una insurrezione popolare o con un colpo di Stato, ma sarebbe poi stato sostituito con un altro re o un altro duca; ora la supremazia dei nobili veniva invece contestata in linea di principio e considerata una prepotenza piuttosto che un diritto divino; si sentiva insomma la necessità di un nuovo modello socio-politico e la nuova cultura industriale sostenne la democrazia in contrapposizione all’aristocrazia. Questa rivalità insanabile per il dominio della società portò ad una serie di insurrezioni e guerre che insanguinarono l’Europa, la più famosa delle quali è la rivoluzione francese del 1789; fu un periodo travagliato dal quale la borghesia uscì vincente, sebbene con notevole fatica, e varie nazioni adottarono governi e istituzioni di tipo democratico.
Altra importantissima conseguenza dell’economia industriale fu il tramonto della schiavitù e della servitù della gleba. La categoria degli operai discendeva culturalmente da quella degli artigiani i quali da sempre, bene o male, venivano pagati per il loro lavoro; era inoltre interesse dell’azienda che gli addetti alle macchine avessero un minimo di istruzione per poter manovrare apparecchi sempre più complessi e per poterli specializzare in mansioni particolari. Gli schiavi, come quelli degli Stati Uniti, non venivano pagati, ma mantenuti; il costo era grosso modo lo stesso, ma prima dovevano essere comprati ad un prezzo stabilito dai precedenti padroni, mentre gli operai venivano assunti a costo zero; gli schiavi non potevano essere licenziati, ma solo venduti ad un altro padrone e ciò paradossalmente risultava vantaggioso per gli schiavi in quanto assicurava la sopravvivenza, mentre risultava scomodo per i padroni che dovevano trovare un acquirente (una forma di licenziamento in tronco esisteva anche per gli schiavi e consisteva nella soppressione degli stessi, ma comportava una sensibile perdita economica); gli schiavi dovevano avere necessariamente un grado di istruzione pari a zero e i loro strumenti dovevano essere particolarmente semplici e robusti in quanto molti tendevano a danneggiarli per sfogare la loro rabbia contro il lavoro e ciò rendeva difficile impiegarli come operai. Con la servitù della gleba, costituita dalle masse di contadini al servizio dei nobili proprietari terrieri, la situazione, sebbene migliore, era assai simile; i contadini non venivano comprati o venduti, ma per il resto avevano lo stesso ruolo degli schiavi e mantenevano simili caratteristiche, facevano dunque parte anch’essi di un antichissimo sistema economico, che ora era visto come un ostacolo al progresso.
Il risultato di questa incompatibilità fu la terribile guerra di secessione negli Stati Uniti intorno al 1860 a seguito della quale venne abolita la schiavitù, almeno formalmente. All’antica economia agricola si cercò di sostituire un’agricoltura imprenditoriale basata sul modello industriale; anche i campi vennero dunque invasi dalle macchine, si ridusse la necessità di contadini e questi dovettero riconvertirsi in operai analogamente agli artigiani. Il mondo del lavoro venne quindi sconvolto dall’economia industriale e con esso tutta la società e la cultura, basti pensare ai grandi fenomeni migratori e alla rapida e disordinata creazione dei grandi agglomerati urbani.

APPROFONDIMENTI
 libro2   BORGHESIA,  CLASSE SOCIALE

PALCO D’ONORE
    KARL MARX
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2.b.18 – L’istruzione pubblica attenuò la lotta di classe?

3 Maggio 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

scolari

        

L’istruzione pubblica attenuò la lotta di classe?

Durante il XIX secolo la scienza e l’istruzione divennero dei valori quasi sacri e, in modo coerente con il pensiero liberale e illuminista, si iniziò a introdurre l’istruzione pubblica per tutti o quantomeno per una fascia più larga di popolazione. La crescente diffusione dell’istruzione scolastica permise una maggiore specializzazione e quindi una maggiore varietà di attività e di prodotti; il valore del singolo operaio, la sua capacità lavorativa, dipendeva sempre più dalla sua formazione professionale la quale, rendendo sempre più difficile la sostituzione dell’operaio stesso, fece aumentare i livelli di salario.
Questo fenomeno contribuì ad attenuare la tremenda tensione sociale che si andava accumulando tra la nuova classe dominante, quella dei capitalisti industriali, e la nuova classe subordinata del proletariato operaio. I moderni schiavi industriali infatti si resero presto conto che rischiavano di essere stritolati dagli ingranaggi del progresso e che la loro condizione peggiorava rapidamente anziché migliorare; essendo inseriti nel processo produttivo al pari delle macchine, essi vennero trattati come tali: dal rapporto uomo-animale si passò a quello uomo-macchina. Analogamente ai loro padroni, essi reagirono sia in maniera violenta, con sommosse e occupazioni di fabbriche, sia producendo o abbracciando una nuova cultura, quale il pensiero socialista o una delle sue evoluzioni come il pensiero anarchico o il pensiero comunista. I lavoratori delle fabbriche fecero ciò che per gli schiavi era impossibile: si organizzarono per ottenere un peso politico maggiore; il risultato fu un lento e sofferto miglioramento delle condizioni di vita degli operai che ottennero, ad esempio, il diritto di formare dei sindacati, poi quello alle ferie, al riposo settimanale ed alla pensione. Se dunque i primi cento anni di economia industriale furono tormentati dalla guerra ideologica tra pensiero liberale e aristocratico, i cento successivi furono straziati dal conflitto fra il pensiero socialista e quello liberale, basti ricordare la rivoluzione russa del 1917, la guerra del Vietnam e la guerra fredda.

APPROFONDIMENTI
 libro2   GUERRA FREDDA

PALCO D’ONORE
    MARIA MONTESSORI   stellastellastella

 

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2.b.19 – Anche l’emancipazione femminile è figlia dell’industrializzazione?

4 Maggio 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

pilota

        

Anche l’emancipazione femminile è figlia dell’industrializzazione?

Alla liberazione della classe operaia dall’oppressione economica seguì l’emancipazione delle donne. Se lo sfruttamento scientifico degli operai era un fenomeno recente, l’oppressione sociale delle donne era una tradizione assai più antica e quindi profondamente radicata nella cultura; una cultura legata alla civiltà agricola nella quale, in genere, le donne avevano ruoli sociali e lavorativi nettamente separati da quelli degli uomini. Nel mondo industriale invece, le donne erano operai come gli uomini, sebbene pagate meno, e una volta diffuso il pensiero che gli operai potevano e dovevano pretendere dei diritti attraverso la lotta di classe, per analogia fu semplice per le donne identificarsi in una nuova classe sfruttata che doveva lottare per emanciparsi. L’analogia era semplice, ma molto difficile da attuarsi: si trattava di interrompere una millenaria tradizione culturale di tipo maschilista.
Già durante la rivoluzione francese, sull’onda dei nuovi principi di libertà, uguaglianza e fratellanza, nel 1792 Olympia de Gouges scrisse la “Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina”, ma il nuovo sistema sociale basato sui suddetti principi, evidentemente non abbastanza rivoluzionario per estenderli anche alle donne, fece in modo che l’autrice della pietra miliare dell’emancipazione femminile venisse prontamente ghigliottinata. Il processo di emancipazione femminile è tutt’ora in corso in quanto non c’e Paese al mondo che tratti le donne esattamente come gli uomini, sebbene gli Stati occidentali, almeno sulla carta, riconoscono parità di diritti. Lo stesso vale anche per altri tipi di discriminazione come quella razziale e quella religiosa.
Oggi, in Italia, fumare in pubblico o indossare i pantaloni è per una donna assolutamente normale e non è proprio concepibile un diverso atteggiamento, ma bisogna ricordare che nel 1965 tali comportamenti venivano ancora considerati come altamente trasgressivi.
Anche il diritto di voto è per le donne una conquista più recente di quanto si pensi: in Italia per esempio tale diritto è stato riconosciuto dopo la fine della seconda guerra mondiale e nella civilissima Svizzera solo negli anni settanta.
Il diritto al voto seguì al riconoscimento di altri due diritti fondamentali: il diritto all’istruzione, che comunque cominciò ad affermarsi solo a fine ottocento, e il diritto all’indipendenza economica, di cui si cominciò a parlare solo nel secondo decennio del novecento. Precedentemente le università erano assolutamente precluse alle donne e i salari, benché guadagnati con il proprio lavoro da operaie, venivano gestiti dagli uomini di famiglia, prima dai padri e poi dai mariti.
Lo sgretolamento di tradizioni così radicate nei millenni nel giro di poche generazioni ci deve insegnare come una nuova cultura, anche profondamente innovativa, possa diffondersi rapidamente e portare conseguenze immediate; sta a noi credere nella possibilità di cambiamento, agire insieme per la sua realizzazione e fare in modo che le conseguenze siano dei benefici per i singoli e per la collettività.

APPROFONDIMENTI
 libro2   EMANCIPAZIONE FEMMINILE

PALCO D’ONORE
    EMMELINE PANKHURST   stella

 

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2.b.20 – Terziario e terzo settore: due fenomeni da distinguere?

5 Maggio 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

mensa

        

Terziario e terzo settore: due fenomeni da distinguere?

Il terziario è il settore economico in cui si forniscono servizi, cioè tutte quelle attività complementari e di ausilio alle attività del settore primario (agricolo) e a quelle del settore secondario (industriale). Tale tripartizione dei settori economici con le relative denominazioni, sebbene universalmente diffusa, non rispecchia il reale e dinamico assetto economico e ingenera confusione: il settore terziario non è infatti meno importante di quello secondario, così come questo non è subordinato a quello primario; le denominazioni numeriche dei settori non rispecchiano neanche la successione con cui sono comparsi nell’evoluzione economica perché, mentre si può sicuramente affermare che il settore industriale si è sviluppato dopo di quello agricolo, altrettanto non si può dire del settore dei servizi rispetto a quello industriale (si pensi all’avvento dei servizi commerciali, bancari e della ristorazione). Siamo poi sicuri che i settori economici siano tre? C’è chi distingue il terziario tradizionale da quello avanzato e chi inizia a parlare di settore quaternario, ma forse sarebbe meglio abbandonare ogni denominazione numerica (diffusasi come moda) e tornare a chiamare i vari settori con il loro nome, cioè con quello che rispecchia le attività economiche che raggruppa.
Per terzo settore si intende invece il settore degli enti non profit, cioè delle organizzazioni di volontariato, delle associazioni culturali, delle ong, ecc, così definito in contrapposizione al settore pubblico delle istituzioni e al settore privato delle imprese (in questa ulteriore fittizia tripartizione nessuno si preoccupa di sapere quale sia il primo e il secondo settore).
Gli enti non profit operano nel contesto socio-economico come organizzazioni di natura privata che però producono beni o servizi nell’interesse del pubblico o di una collettività. Da un punto di vista economico bisogna distinguere tali enti dalle imprese operanti sul mercato in quanto prive di fini lucrativi e allo stesso tempo separarli dalle istituzioni pubbliche in quanto di natura privata. Da un punto di vista sociologico è importante invece sottolineare gli aspetti di natura culturale, etica e motivazionale che implicano necessariamente un profondo coinvolgimento personale degli associati.
Fatta chiarezza sulle definizioni, è importante osservare che, nell’economia moderna o post-industriale dei Paesi occidentali, fasce sempre più numerose di popolazione trovano occupazione nel settore dei servizi con riduzione sia del settore agricolo, sia di quello industriale; tale fenomeno, seguendo la criticata denominazione dei settori, viene comunemente definito terziarizzazione dell’economia.
Anche i fenomeni associativi non profit sono in larga diffusione nei Paesi occidentali; essi tendono a supplire alle carenze di servizi sociali da parte delle istituzioni pubbliche mediante la spontanea auto-organizzazione dei cittadini e ciò, se da una parte allevia i bisogni della popolazione, dall’altra aumenta la percezione della pressione fiscale (che non si trasforma in servizi pubblici) e la sfiducia nelle istituzioni (incapaci di svolgere il proprio ruolo).

ORGANIZZAZIONI NEL MONDO
 lente_ingrandimento1   GREENPEACE

 

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2.b.21 – Può esistere una fabbrica dell’immateriale?

6 Maggio 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

design

        

Può esistere una fabbrica dell’immateriale?

A partire dagli anni sessanta, nei Paesi occidentali, iniziò un rapido periodo di espansione economica dovuto alla diminuzione delle disuguaglianze economiche fra le classi sociali; vi fu un arricchimento generale, testimoniato dall’aumento della domanda sia di beni agricoli e industriali, sia di servizi, che portò a un grande sviluppo di tutti i settori economici. E’ però immediatamente evidente come il mantenimento di una simile prosperità sia necessariamente subordinato a una continua espansione della domanda di beni e servizi e quindi al consumo degli stessi.
Tale fenomeno, definito consumismo, ha portato a un esubero di produzione rispetto ai bisogni della popolazione e ciò nonostante la penetrante persuasione pubblicitaria che induce continuamente nuovi bisogni per alimentare l’insaziabile macchina della produzione. A prescindere dalle conseguenze positive (come la maggiore disponibilità di beni a prezzi decrescenti) e da quelle negative (come l’inquinamento ambientale) provocate dal consumismo, attualmente, ciò che crea valore e vantaggio competitivo in un bene non è più costituito solo dalle sue proprietà funzionali (la confortevolezza di un indumento, il gusto di una bevanda, la versatilità di un telefonino, ecc.), ma è rappresentato sempre di più dalla sua capacità di suscitare una gratificante emozione. Quando sostituiamo un cappotto, probabilmente non lo facciamo perché il vecchio è ormai logoro o perché il nuovo scalda di più, ma semplicemente perché veniamo attratti da una nuova linea di moda che gratifica il nostro desiderio di pavoneggiarci con qualcosa che ci avvolge. Se nella produzione del cappotto la materia usata dal produttore manifatturiero costituisce solo il 15 % del prezzo richiesto, significa che il restante 85 % è rappresentato da un insieme immateriale di design, di griffe, di status symbol; la maggior parte del prezzo non è costituita dalla remunerazione della fabbrica materiale dell’abbigliamento, ma dalla fabbrica immateriale delle emozioni gratificanti.
Un altro fenomeno da osservare è che anche all’interno della fabbrica manifatturiera assume sempre più importanza il lavoro immateriale rispetto al tradizionale lavoro materiale di trasformazione dei beni. La trasformazione fisica dei beni è infatti sempre meno effettuata manualmente dall’uomo e affidata a macchine sempre più complesse; le macchine devono essere progettate con nuove tecnologie, alimentate con nuove fonti di energia, gestite con nuovi flussi di coordinamento, finanziate con nuovi modelli contrattuali, ecc. Il lavoro dell’uomo sta dunque passando dalla trasformazione fisica dei beni alla produzione delle conoscenze che, mediante le macchine ideate, le fonti di energia scoperte e i servizi complementari concepiti, dovranno portare alla trasformazione dei beni. Ecco prendere forma un nuovo tipo di capitalismo: il capitalismo cognitivo.
La conoscenza è senz’altro un bene immateriale, ma è anche un bene molto particolare: è infatti un bene facilissimo da riprodurre (con i moderni mezzi di comunicazione il costo tende a zero), ma difficilissimo da produrre la prima volta. Abbiamo visto come la conoscenza dell’uomo si sia cumulata nel corso del tempo, ma attualmente, vista l’importanza della conoscenza in tutti i processi economici, peraltro sempre più veloci, si rende indispensabile una nuova strategia adattativa all’ambiente che cambia: la condivisione della conoscenza. Con tale strategia si tende a creare una vera e propria filiera cognitiva che porti alla formazione di un moltiplicatore di conoscenze che assecondi il sempre più frenetico sviluppo socio-economico dell’uomo.

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    FRANK LLOYK WRIGHT    stella1stella1

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2.b.22 – Esiste una rivoluzione in corso?

7 Maggio 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

internet

        

Esiste una rivoluzione in corso?

Oggi la nostra economia sta vivendo un profondo riassetto strutturale basato su nuovi principi competitivi come l’apertura, l’outsourcing, la condivisione delle conoscenze e l’azione su scala globale. I nuovi concetti di collaborazione collettiva e di organizzazione autonoma si stanno affiancando a quelli tradizionali di gerarchia e controllo; si stanno affermando delle nuove visioni del mondo e nuovi modelli economici che stanno introducendo una nuova era in cui, oltre al cambiamento delle regole del gioco, si sta modificando la natura del gioco stesso.
E’ sicuramente l’evoluzione di internet che ha permesso l’avvento di questa rivoluzione in atto, lo sviluppo di una rete che già collega più di un miliardo di persone e in cui si rafforzano continuamente delle comunità, si sviluppano collaborazioni partecipative, si condividono esperienze basate sul concetto di uguaglianza, esperienze fra pari. Tutto ciò non va confuso con l’altruismo, né con il non profit o l’hobby; applicare i suddetti nuovi concetti significa spesso sviluppare nuovi ecosistemi di business che, oltre a sviluppare l’innovazione e la crescita generale, producono ingenti profitti per gli operatori economici. Imprese multinazionali come IBM, BMW, Boeing e Lego, solo per citarne alcune, hanno accettato la nuova sfida e hanno già ottenuto grandi risultati. Il coinvolgimento dei consumatori nella fase di produzione (attraverso i nuovi strumenti delle chat, dei forum, dei blog e dei wiki, nonché secondo i nuovi criteri di apertura delle risorse proprietarie, un tempo tenute segretissime dalle imprese) ha, per esempio, portato alla produzione di beni più confacenti alle esigenze delle persone e sviluppato un senso di appartenenza da parte della comunità coinvolta che inevitabilmente ha comportato un importante incremento delle vendite.
La trasformazione delle imprese fornitrici di componenti in imprese partner di un comune progetto di produzione ha altresì permesso una notevole compressione sia dei costi, sia dei tempi di progettazione e realizzazione del prodotto, benché queste avvengano in diversi Stati di diversi continenti in una sorta di catena di montaggio globale.
La generazione dei ragazzi nati negli anni novanta sta crescendo abituata all’interazione permessa da internet; oltre ad essere semplici spettatori passivi della televisione e passivi ricettori del consumismo, i ragazzi della “generazione i” (i come internet ma anche i come iniziativa) crescono navigando nel web, cercando attivamente le informazioni e collaborando fra loro, organizzando creativamente ed autonomamente una grande varietà di attività. Non si può più tornare indietro, come in occasione degli altri fondamentali eventi che hanno caratterizzato la storia culturale dell’uomo, anche ora i nuovi cambiamenti stanno penetrando nella società, stanno mutando il modo di pensare e il comportamento della gente e potranno portare a un nuovo ordine sociale e a nuove istituzioni.

APPROFONDIMENTI
libro2 CHAT, FORUM, OUTSOURCING, WIKI

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LINUS TORVALDS stella1stella1stella1

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2.b.23 – Qual è la cronologia delle tappe fondamentali?

8 Maggio 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

orologio

        

Qual è la cronologia delle tappe fondamentali?

Al fine di poter agevolmente confrontare i periodi di tempo che si sono susseguiti nella nostra storia, ripetiamo il gioco di paragonare la durata di tutto il percorso ad un giorno per poi collocare in esso i momenti storici di riferimento:

ore 00:00 epoca a cui risalgono le tracce più antiche di cultura cumulativa
ore 14:38 epoca a cui risalgono i resti più antichi di homo sapiens moderno
ore 23:25 fine dell’ultima glaciazione
ore 23:37 comparsa dell’agricoltura
ore 23:42 comparsa della scrittura, fine della preistoria ed inizio della storia
ore 23:58:49 inizio dell’era industriale
ore 23:59:42 invenzione della radio
ore 23:59:58 diffusione di internet e dei telefonini

Risulta dunque che, fino agli ultimi minuti della nostra giornata, siamo vissuti di caccia e raccolta come gli ultimi ominidi che ci hanno preceduto; quella che noi chiamiamo storia corrisponde a circa 18 minuti e l’era industriale a 1 minuto e 11 secondi. Se inoltre consideriamo che i resti più antichi dell’uomo moderno risalgono a circa 200.000 anni fa, mentre le prime forme di agricoltura intensiva compaiono circa 6.000 anni fa, risulta che l’umanità ha vissuto in tribù di cacciatori per il 97% della sua esistenza; il periodo dell’economia industriale occupa infine lo 0,15% della nostra storia. E’ da notare che l’evoluzione culturale ha avuto una brusca accelerazione proprio nel periodo di maggiore stabilità del clima e dell’ecosistema.

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    IBN KHALDUN   stella1

 

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2.b.24 – Cosa si intende per emergenza evolutiva?

9 Maggio 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

competizione

        

Cosa si intende per emergenza evolutiva?

Quando cambiano le condizioni di vita di una specie, questa tende ad evolversi a causa della selezione naturale; ciò avviene perché le mutate condizioni ambientali selezionano in modo diverso i geni; quelle che prima erano irrilevanti caratteristiche individuali ora diventano preziose risorse per la sopravvivenza.
Un brusco cambiamento ambientale, per esempio la fine di una glaciazione, provoca una sorta di emergenza evolutiva per le specie coinvolte; esse si trovano nella necessità di cambiare, di evolversi, poiché sottoposte a una nuova pressione selettiva. Questo periodo di disagio, in cui la selezione naturale apparirà particolarmente dura, tenderà ad esaurirsi con il diffondersi dei geni adeguati alle novità ambientali; con il procedere dell’adattamento la pressione selettiva diminuirà e con essa la velocità dell’evoluzione. Possono comunque comparire nuove mutazioni positive, ma esse diverranno sempre meno probabili, l’evoluzione rallenterà e l’ambiente apparirà sempre meno ostile; con il tempo ci si avvicinerà ad una nuova situazione di equilibrio.
Dallo studio del mondo animale e da quello della nostra storia fino alla fine dell’ultima glaciazione, si evince che il suddetto processo è presente anche nell’evoluzione culturale. L’uomo, mediante la cultura, si è infatti adattato agli ambienti più diversi sviluppando vari stili di vita, escogitando le più disparate tecniche per la caccia, per proteggersi dalle intemperie e dai predatori, ecc., raggiungendo infine un equilibrio stabile con l’ambiente; ne sono un esempio gli Eschimesi, gli Indio dell’Amazzonia, i Boscimani del Kalahari e tutte le altre culture tribali che sono sopravvissute nei millenni con piccoli cambiamenti corrispondenti a minime mutazioni ambientali. A parità di ogni altra condizione dunque, in presenza di un brusco cambiamento, l’evoluzione ha la sua massima velocità all’inizio dell’emergenza presentatasi per poi calare in modo più o meno regolare secondo la comparsa di nuove mutazioni. Per quale motivo allora l’evoluzione culturale umana oggi incrementa la sua velocità invece di rallentare? Che cosa è successo dalla comparsa dell’agricoltura in poi? Come mai ci comportiamo come se fossimo sottoposti ad una perenne e crescente emergenza evolutiva?
Tutti gli studi del clima del passato ci dicono che l’evoluzione culturale ha paradossalmente iniziato ad accelerare in un periodo di particolare stabilità ambientale, un periodo in cui non sono comparsi nuovi predatori, né nuove prede, né nuove specie concorrenti ed in cui il clima era mite e regolare come non mai. Cosa spinge dunque la nostra evoluzione culturale se l’ambiente dove viviamo è sempre lo stesso? Per trovare la risposta basta guardarsi attorno: oggi viviamo in città formate da molte migliaia o milioni di abitanti, formate da cemento, asfalto, vetro e acciaio; mezzi motorizzati circolano ovunque e senza di essi non andiamo da nessuna parte; i principali pericoli per la salute e per la sopravvivenza sono gli incidenti stradali, gli incidenti sul lavoro, l’uso di droghe o superalcolici e le varie malattie legate alle mille forme di inquinamento.
Siamo sicuri di poter dire che l’ambiente dove viviamo è sempre lo stesso di 9 mila anni fa? Dobbiamo ammettere che un villaggio fatto di capanne con 70 – 100 abitanti che vivono di caccia, raccolta e forme rudimentali di allevamento o agricoltura è un ambiente diverso dalle città odierne. Il clima non è cambiato negli ultimi millenni, ma l’ambiente dove viviamo sì; è mutato molto profondamente e non accenna a fermarsi. Siamo pertanto veramente sottoposti a una perenne emergenza evolutiva? La risposta è sì, a causa dell’evoluzione culturale dell’ambiente umano.

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    AUGUSTE COMTE   stella1stella1

 

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2.b.25 – L’evoluzione culturale influenza l’ambiente umano?

10 Maggio 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

grattacieli

        

L’evoluzione culturale influenza l’ambiente umano?

I cambiamenti ambientali che ci hanno interessato dopo l’ultima glaciazione non sono una conseguenza del clima, ma della nostra stessa cultura nonché della spietata concorrenza fra i nostri popoli per contendersi le risorse del pianeta, un pianeta sempre più piccolo per un’umanità sempre più numerosa.
Abbiamo detto che in tempi recenti non sono comparse nuove prede o nuovi predatori, né nuove specie concorrenti; questo non è del tutto corretto e può risultare molto fuorviante. La comparsa di nuove prede nel proprio ecosistema rappresenta infatti la disponibilità di nuove risorse alimentari che aumentano le probabilità di sopravvivenza, turbano i vecchi equilibri e interessano quindi in vario modo tutto l’ambiente; ebbene, che cos’è la diffusione dell’allevamento e dell’agricoltura se non la comparsa di nuove risorse alimentari? Il loro impatto nella nostra vita è stato inoltre molto più grande di quanto abbia mai potuto fare l’introduzione di una nuova preda o di un nuovo vegetale selvatico nel nostro abituale menù: colonizzando tutto il pianeta ci siamo trovati innumerevoli volte davanti a nuove piante commestibili e nuovi animali da cacciare, ma la rivoluzione agricola ha fatto molto di più che aumentare le risorse alimentari, ha profondamente modificato il nostro stile di vita e la nostra economia da sempre basati sulla caccia e la raccolta. Da questo punto di vista la comparsa dell’agricoltura e dell’allevamento costituiscono un cambiamento più profondo di tutti i mutamenti climatici precedenti: mai nulla ci aveva indotto ad abbandonare la vita tribale che aveva accompagnato da sempre la nostra evoluzione biologica.
Un cambiamento così profondo implica una grande spinta evolutiva, cioè la necessità di un rapido adattamento, e noi, secondo la nostra natura, ci siamo adattati culturalmente.
Resta però da spiegare come mai, dopo la diffusione delle civiltà agricole, l’evoluzione culturale non abbia iniziato a rallentare. Come abbiamo detto per le nuove prede, anche la comparsa di nuovi predatori o di nuove specie concorrenti è importante per l’evoluzione, in quanto altera anch’essa le nostre possibilità di sopravvivenza; sappiamo bene però che, da tempo immemorabile, le varie popolazioni umane, non strettamente imparentate tra loro, si considerano e si trattano vicendevolmente come se fossero specie differenti; da sempre esiste per l’umanità una sorta di speciazione culturale, anche all’interno della stessa società, dove spesso appaiono diverse classi o caste sociali nettamente separate, anche sessualmente, grazie ad opportune leggi o convenzioni che proibiscono i matrimoni misti. L’antico detto “homo homini lupus” vuol dire che l’uomo è il predatore dell’uomo e ci indica quindi una triste e ben nota realtà: nel corso della storia sono effettivamente comparsi nuovi predatori e nuovi concorrenti, solo che si trattava di specie culturali umane. Fra popoli diversi non vi è un isolamento genetico e culturale totale, ma è sufficiente da favorire comportamenti tipici dei rapporti fra specie diverse come la predazione e la concorrenza spietata.
Oggi sappiamo che l’allevamento e l’agricoltura sono cambiamenti culturali che ne hanno provocati altri ancora più grandi, come l’abbandono della vita tribale, innescando una reazione a catena che si alimenta da sola; l’evoluzione culturale ha iniziato a girare su sé stessa a velocità crescente come un cane che si morde la coda. Dalla rivoluzione agricola in poi, la nostra vita si è separata dai vecchi ecosistemi e il nostro ambiente è diventato sempre più artificiale, cioè sempre più dipendente dalla nostra cultura; l’ambiente quindi si evolve con la cultura e lo stesso vale per i nostri predatori e concorrenti che, essendo umani, hanno le nostre stesse capacità e velocità di adattamento culturale.
Vi è dunque qualcosa di profondamente vero quando si dice che l’uomo si è separato dalla natura, se per natura intendiamo il nostro ambiente originario; tuttavia, nei nuovi ambienti che abbiamo generato, siamo ancora soggetti alle leggi di natura più spietate come la lotta per la sopravvivenza e la selezione naturale; le regole del gioco sono rimaste le stesse, solo che ora la partita si gioca sul piano culturale anziché genetico.
Per vincere la gara della sopravvivenza la velocità di adattamento è importante, soprattutto se mutano rapidamente le condizioni ambientali e se vi sono dei concorrenti da battere; questo ci porta a sfruttare al massimo le nostre capacità di adattamento culturale, provocando però mutamenti altrettanto rapidi nel nostro mondo artificiale e nei nostri concorrenti, che sono bravi quanto noi ad adattarsi ad essi. Possiamo dunque concludere che da alcuni millenni viviamo veramente in uno stato di perenne e crescente emergenza evolutiva, alimentata e rafforzata dalla nostra concorrenza interna.

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    DONALD NORMAN   stella1

 

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2.b.26 – La storia si dirige naturalmente verso il progresso dell’uomo?

11 Maggio 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

gas

        

La storia si dirige naturalmente verso il progresso dell’uomo?

Se è vero che l’evoluzione culturale è come una trottola impazzita che gira sempre più velocemente, è doveroso fare le seguenti inquietanti considerazioni:
a) l’emergenza evolutiva è crescente, quindi richiede adattamenti sempre più rapidi e profondi mediante una selezione naturale sempre più esigente, dura e mutevole; abbiamo dunque ragione di credere che l’evoluzione culturale post-agricola abbia portato nel tempo a un peggioramento della qualità media della vita. In effetti la vita degli schiavi era presumibilmente assai peggiore di quella dei loro antenati liberi e, dato che gli schiavi costituivano una percentuale notevole della popolazione totale, la qualità media totale si abbassò in modo significativo; lo stesso si può dire con riferimento agli operai della prima rivoluzione industriale ed oggi in relazione alle popolazioni del terzo mondo, per non parlare dei nativi americani che, in nome del progresso, sono stati addirittura sterminati. I libri di storia, in origine, sono nati con una funzione celebrativa delle gesta dei re e degli imperatori, nonché dei successi delle grandi potenze militari ed economiche; queste finalità, almeno in parte, sono ancora presenti oggi, ma non bisogna confondere i progressi ottenuti da una parte dell’umanità, la parte dominante, con i progressi dell’intera umanità; ciò naturalmente a meno che non si considerino gli schiavi e gli abitanti del terzo mondo come non umani;
b) Quello che in genere chiamiamo progresso spesso altro non è che la soluzione ai problemi creati dal progresso precedente. Il vero progresso culturale esiste veramente, intendiamoci, ne sono evidenti esempi i progressi della medicina, i diritti umani e quelli dei lavoratori, ma costituisce solo una piccola parte dell’evoluzione culturale, spesso si presenta in modo isolato e occasionale e nulla prova che sia permanente. Esempi di regresso civile e culturale non sono rari nella storia, basti ricordare il medioevo ellenico e quello occidentale;
c) Quando si parla di progresso, questo spesso è tale per il gruppo, il popolo o la nazione che crescono come territori ed economia, ma non per tutti gli individui che la compongono.
d) Che la concorrenza fra gruppi umani sia il motore dell’evoluzione culturale è confermato dal fatto che molte delle più importanti innovazioni tecnologiche, come l’acciaio, il radar, l’energia atomica e i satelliti artificiali, sono nate per applicazioni militari e la maggioranza delle altre sono avvenute per scopi industriali, guidati dalla concorrenza economica;
Vi sono dunque ottime ragioni per mettere in dubbio l’ipotesi che la storia tenda spontaneamente verso il progresso dell’uomo; alle considerazioni precedenti se ne aggiungono poi altre di carattere biologico, demografico ed economico: il nostro ecosistema culturale, estendendosi, ha tolto spazi sempre maggiori a quelli naturali, provocando disastri ambientali in tutto il pianeta; il mondo industriale consuma risorse non rinnovabili come il carbone e quelle rinnovabili, come il legno, le consuma troppo velocemente, rendendole di fatto non rinnovabili e quindi esauribili; l’aumento demografico incrementa i problemi precedenti alimentando nuovi consumi, provocando la crescita dell’inquinamento e guerre più frequenti, con eserciti più grandi e tecnologicamente più efficienti e spietati; le due guerre mondiali del XX secolo sono un esempio ben noto a tutti; si disse allora che dopo tanto orrore l’uomo avesse imparato ad apprezzare la pace e che quelle due guerre fossero state un prezzo da pagare affinché non vi fossero più guerre, ma fu un’illusione di breve durata: nei successivi 50 anni sono state combattute molte guerre, meno estese nel numero delle nazioni coinvolte, ma altrettanto inumane e con armi ancor più terribili.
Ancora una volta è dunque importante fare distinzione fra evoluzione e progresso: il progresso è una evoluzione positiva, un miglioramento in un certo contesto che non è sempre cumulabile, poiché può essere perso in un ambiente diverso; l’evoluzione invece non è sempre positiva e non è tenuta affatto ad accumulare miglioramenti: l’evoluzione tecnologica produce il progresso medico, ma se questo regredisse l’evoluzione andrebbe avanti lo stesso; un’evoluzione negativa o regresso è comunque un’evoluzione che procede avanti nel tempo; infatti nessuno si sogna di dire che gli uccelli che hanno perso la capacità di volare, come gli struzzi o i pinguini, sono meno evoluti dei loro antenati; l’evoluzione va sempre avanti negativa o positiva che sia, il progresso invece no.
La teoria della selezione naturale applicata alla cultura ci dice che l’evoluzione non tende al progresso umano, può farlo in certi casi utili per la sopravvivenza, ma la naturale tendenza della storia verso un futuro migliore appare oggettivamente solo un mito, una favola, una speranza e nulla più.

IL CASO CELEBRE
    JOSEF KRAMER

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2.b.27 – La cultura è oggi un problema o una risorsa?

12 Maggio 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

gabbia

        

La cultura è oggi un problema o una risorsa?

L’evoluzione culturale è un fenomeno naturale e può essere benigna o maligna come la natura stessa; dalla rivoluzione agricola in poi si è inserito in essa un negativo percorso a spirale; ora anche nelle ricche e grandi città, dove vivono i privilegiati dell’economia industriale, quelli che hanno ragione nel vedere un loro progresso nella storia recente, il sovraffollamento sta infatti provocando una serie di problemi psicologici e sociali, la criminalità è sempre in crescita, come anche lo stress, l’isolamento e l’alienazione dell’individuo, la depressione e l’inquinamento locale. Alcuni chiamano le attuali metropoli giungle d’asfalto per evidenziarne alcuni aspetti crudeli, altri le paragonano a dei formicai umani, per la loro densità di popolazione, ma il noto zoologo e divulgatore Desmond Morris, che è stato a lungo il direttore dello zoo di Londra, ha osservato che gli animali, nella giungla, cioè nel loro ambiente naturale, non soffrono di nervosismo, non si sottopongono a delle automutilazioni, non hanno esplosioni di aggressività e tanto meno uccidono i propri simili; qualora invece gli stessi animali vengano costretti in cattività e ammassati in soprannumero nella stessa gabbia, si riscontrano tutti i suddetti comportamenti; nel caso di animali che vengano costretti in isolamento troviamo invece depressione, apatia e persino devianze sessuali. La costrizione in un habitat innaturale porta insomma gli animali a tenere gli stessi comportamenti riscontrabili nelle società umane e ciò avviene per le medesime cause: la riduzione dello spazio vitale o sovraffollamento e l’isolamento sociale del vivere in una città di estranei.
Pertanto definire una grande città come una giungla d’asfalto è decisamente improprio, è molto meglio definirla come uno zoo umano. Noi, i segregati dello zoo umano, abbiamo per giunta delle aggravanti: ci autorecludiamo e spesso ci consideriamo liberi, abbiamo la possibilità di migliorare la gabbia e invece la peggioriamo o la devastiamo, siamo la causa dei nostri problemi, siamo ognuno il carceriere dell’altro e non ce ne rendiamo conto.
I moderni direttori degli zoo, conoscendo questi fenomeni, evitano di ammassare troppi animali in uno spazio ristretto o di privarli di rapporti sociali; noi non abbiamo lo stesso riguardo per noi stessi, o meglio non ce l’ha la nostra evoluzione culturale.
È possibile allora sfuggire a questa spirale negativa? Con il nostro numero è cresciuto anche il nostro grado di specializzazione e la nostra dipendenza dalla comunità; i cittadini di oggi non sarebbero in grado di sopravvivere se posti improvvisamente in una foresta e se anche qualcuno insegnasse loro come fare, sarebbero in troppi, non esistono tante foreste da ospitarli tutti; non si può dunque assolutamente tornare indietro, bisogna andare avanti sfruttando al meglio le nostre risorse, compresa la collaborazione in una grande comunità. Considerando che il mondo cambia sempre più velocemente, per risolvere i problemi del futuro, compresi quelli relativi all’evoluzione culturale, abbiamo sempre meno tempo; ne segue che l’unica speranza di salvezza, paradossalmente, è proprio un rapido adattamento culturale, dei singoli e delle comunità.
La cultura è la nostra unica risorsa disponibile in questa situazione di rapidi cambiamenti; la fonte di tutti i grandi problemi sopra citati, d’altro canto, è un’ evoluzione culturale fuori del nostro controllo; partendo da queste due premesse, vediamo che il nocciolo del problema non è la cultura, ma la mancanza di controllo del processo evolutivo, che avanza abbandonato a sé stesso, guidato solo dalle impietose leggi della concorrenza e della selezione naturale. Dobbiamo però ora ricordare che esiste una componente dell’evoluzione che invece è sotto il nostro controllo: è quella parte dovuta a un nostro studio consapevole e sistematico, guidata dalla scienza e dalla ragione, quella che abbiamo definito come la selezione artificiale della cultura e che in genere realizza il vero progresso per l’umanità. Questa componente ha già fatto molto per mitigare gli effetti negativi della spirale perversa in cui ci troviamo, tanto da farcela confondere con il vero progresso, ma non è ancora abbastanza forte da fermare tale spirale; il mondo continua infatti a cambiare a velocità crescente e gli aspetti negativi non possono più essere ignorati.
Per nostra fortuna il progresso delle scienze naturalistiche, altro frutto dell’evoluzione culturale, oggi ci consente di capire i meccanismi dell’evoluzione stessa e ci dona la possibilità di poterli gestire a nostro vantaggio; oggi abbiamo la possibilità di rafforzare la parte positiva dell’evoluzione per bloccare quella negativa, dobbiamo solo imparare a gestire meglio la nostra cultura. Solo quando si riuscirà in tale gestione, avendo ben capito i meccanismi evolutivi, l’evoluzione frenetica si orienterà nella giusta direzione e finalmente rallenterà.
In altre parole, prendendo atto che il progresso spontaneo è un mito, dobbiamo concludere che a realizzare un futuro migliore dobbiamo pensarci noi, curando intenzionalmente e razionalmente i nostri interessi, a cominciare dal benessere individuale. Di nuovo, la cultura si presenta come la nostra risorsa principale, come la vista per i falchi e l’olfatto per i cani, non possiamo e non dobbiamo farne a meno.

IL CASO CELEBRE
 uk1   JAMES CHADWICK

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