Capitolo 3.a

31 Maggio 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

IL VALORE DELLA VITA

Sappiamo bene che la nostra mente, per farci orientare nella vita, non ha bisogno solo di conoscere la natura che ci circonda fatta di alberi, animali e rocce, ma deve anche avere cognizione della società a cui apparteniamo fatta di uomini. L’uomo è un animale sociale e la sua comunità costituisce l’ambiente dove vive; le leggi che governano tale ambiente devono allora essere ben conosciute per poter vivere in esso; oltre agli eventi naturali come la pioggia, la neve, le stagioni, ecc., bisogna dunque saper capire e prevedere gli eventi sociali, cioè i comportamenti degli altri esseri umani, per poter stabilire il proprio. Alla fine la logica è la stessa di sempre: si cerca il comportamento corretto per la sopravvivenza; nel tempo il nostro cervello sviluppa naturalmente dei criteri per stabilire quale comportamento sia giusto oppure sbagliato, ma indubbiamente tali criteri vengono appresi anche culturalmente.
Nella nostra mappa mentale i punti di riferimento fondamentali per scegliere il comportamento corretto sono detti valori; essi ci appaiono come qualcosa di prezioso da conservare, proteggere e tramandare, al punto che per tutelarli regoliamo in modo opportuno il nostro agire quotidiano. I valori sono una cosa molto personale, anzi intima, che tuttavia va condivisa con amici e conoscenti; un libro non è certo il mezzo più adatto per confrontare i propri valori con quelli degli altri e lo scopo principale della seguente trattazione non è infatti quello di proporre nuovi valori o dare esempi da imitare, ma quello di porre le basi per introdurre gli argomenti successivi e renderli più facilmente comprensibili. È nostra ferma convinzione che ognuno di noi debba autonomamente gestire i propri valori, criticandoli e migliorandoli se necessario, facendo le sue personali considerazioni esattamente come noi ora faremo le nostre.

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   RENATO ZERO – I MIGLIORI ANNI DELLA NOSTRA VITA

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n. 16 – I VALORI UMANI

 

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3.a.1 – Qual è il senso della vita?

1 Giugno 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

riflessioneQual è il senso della vita?

L’immagine che la scienza moderna ci fornisce della vita è quella di un fenomeno naturale, come il vento e la pioggia, una conseguenza delle leggi della fisica e della chimica; che senso hanno il vento e la pioggia?
La visione scientifica della vita sembra dirci che la vita di per sé non ha alcun senso, né l’ha mai avuto, invece a ben vedere ci dice che è la vita che dà un senso a tutto il resto in quanto ogni organo del nostro corpo, ogni cellula, persino ogni proteina è stata finemente progettata dalla selezione naturale per tramandare la vita alle generazioni successive; anche il nostro cervello non fa eccezione a questa regola: la nostra voglia di vivere, l’istinto di autoconservazione, la curiosità, la capacità di immaginazione, l’intelligenza, la memoria e persino le nostre superstizioni, come abbiamo visto, hanno un loro ruolo nel perpetuarsi della vita.
Nel mondo che ci circonda ogni oggetto acquista un significato in base al ruolo che svolge nella nostra vita: il nostro orologio può essere un mezzo utile per misurare il tempo e quindi pianificare la giornata, in tal senso può essere visto come un valido strumento di lavoro; se di marca prestigiosa può essere invece un ornamento di cui fare sfoggio nelle riunioni sociali importanti; se è un regalo della nostra dolce metà può essere il simbolo di un amore; a volte può essere tutte e tre le cose insieme.
Ogni nostro pensiero rappresenta il manifestarsi della vita della nostra mente; che cosa avrebbe senso senza la vita? Potremmo porci queste domande senza essere vivi? Ovviamente no. La vita dunque ha chiaramente un ruolo e quindi un senso, è il primo e il più importante punto di riferimento della nostra mente, il primo dei nostri valori.
La vita, essendo legata in modo indissolubile alla nostra natura, è un valore sempre attuale, ma oggi sono cambiati i pericoli che possono minacciarla: niente più orsi, leoni e lupi, ma rapinatori, sinistri stradali ed incidenti sul lavoro; ne segue che oggi devono cambiare anche i metodi per proteggerla, un adattamento culturale è necessario ed inevitabile proprio perché la vita mantiene il suo ruolo.

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PALCO D’ONORE
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pillola   n. 17 –  IL SENSO DELLA VITA

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3.a.2 – Cosa si intende per vita?

2 Giugno 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

Technorati Profile

ruscelloCosa si intende per vita?

La parola vita assume numerose sfumature di significato:
• spesso si intende l’esistenza del singolo individuo
• altre volte ci si riferisce ad un bene che si tramanda di generazione in generazione; ognuno di noi riceve la vita dai genitori e la dona ai figli.
• in biologia la vita viene considerata un fenomeno naturale originatosi miliardi di anni fa e che oggi si manifesta attraverso tutte le forme viventi
• si parla poi di vita sociale, vita familiare, vita professionale, vita spirituale, di una seconda vita, di rifarsi una vita, ecc., per individuare degli aspetti della vita individuale particolarmente importanti.
In genere la propria vita è nettamente più importante di quella degli altri; tuttavia è una regola con delle eccezioni e infatti a tutti noi appare normale che, in casi di estrema necessità, i genitori sacrifichino la vita per i figli e non ci sorprendiamo se ciò accade anche per altri familiari o per i figli di qualcun altro; evidentemente nella nostra mente si forma una gerarchia di valori o di sottovalori relativi alla vita e il loro ordine rispecchia perfettamente i criteri di sopravvivenza della specie: al primo posto troviamo la vita dei figli e poi quella dei genitori; analogamente, dovendo scegliere se salvare la vita di un bambino non nostro o di un adulto altrettanto sconosciuto, la tendenza generale è quella di salvare il bambino.
Dobbiamo notare come sia piuttosto comune che nelle società umane alla vita (o all’interesse) dell’individuo in certi casi sia anteposta quella della comunità; ne sono un esempio sia gli eroi di guerra che si sacrificano per la patria, sia i criminali che rinunciano a un forte sconto di pena per coprire i loro complici; si tratta di comportamenti tipici degli animali fortemente sociali, per i quali il gruppo assume una importanza primaria, superiore a quella del singolo esemplare, poiché questi non potrebbe comunque sopravvivere al di fuori di esso o non potrebbe crescere dei figli.
Volendo creare un’immagine suggestiva della vita, possiamo dire che essa è come l’acqua che scorre in un fiume che si dirama in mille rivoli; ognuno di noi è un tratto di questi piccoli corsi d’acqua, i nostri genitori sono il tratto precedente e i nostri figli quello successivo, mentre la vita, cioè l’acqua, scorre dai nonni ai nipoti attraverso di noi; abbiamo visto come nelle comunità umane sia di fondamentale importanza non solo la discendenza genetica, ma anche quella culturale; quindi ogni uomo ha a monte un rivolo culturale che alimenta la propria vita ed ha a valle dei corsi d’acqua che fruiscono del patrimonio culturale da esso tramandato; ne segue che ogni uomo deve essere consapevole del suo ruolo fondamentale nel flusso del fiume della vita anche in assenza di una discendenza biologica; dobbiamo dunque fare di tutto affinché il flusso non si interrompa e a questo fine dobbiamo proteggere anche i corsi d’acqua vicini che rappresentano la nostra famiglia o la nostra comunità. La vita è un fiume che scorre nel tempo, la sorgente si trova miliardi di anni indietro nel passato mentre la foce è il futuro verso il quale perennemente si dirige.
Questa immagine è solo una metafora creata per ricordare meglio il concetto, ma in altri tempi avrebbe potuto essere inserita in una mitologia e quindi essere considerata, con il passare degli anni, una cosa reale; questo ne avrebbe facilitato la trasmissione alle generazioni successive, ma allo stesso tempo ne avrebbe impedito la critica e la modifica al cambiare dei tempi e oggi, che i tempi cambiano in fretta, non possiamo più permetterci questo tipo di errore; è sempre utile, da un punto di vista educativo, usare metafore e simili espedienti, ma dobbiamo fare attenzione che rimangano tali.

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    LEONIDA I

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3.a.3 – L’educazione è importante nella vita?

3 Giugno 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

educazioneL’educazione è importante nella vita?

Iniziamo ad esplorare il fiume della vita partendo dal nostro piccolo tratto di canale, cioè dalla nostra vita individuale; il primo modo per tutelarla che ci viene in mente è quello di avere cura della nostra salute, proteggendo il nostro corpo da malattie, incidenti e aggressioni. Vediamo quindi giustamente in chiave positiva le norme igieniche, le cure mediche, la guida sicura, le protezioni degli operai e ogni invito alla prudenza se ben motivato.
La medicina moderna ci mostra che oggi abbiamo nuove possibilità per difenderci dalle malattie: vaccini e antibiotici ci consentono risultati inverosimili fino a poco tempo fa, per non parlare dei progressi della chirurgia; i dispositivi e le misure di sicurezza delle automobili, nonché degli strumenti e delle procedure sul lavoro ci indicano che anche nel campo degli incidenti si possono fare grandi progressi. E’ però da notare come in entrambi i casi la salute venga tutelata dai progressi scientifici e tecnologici, ma con scarso contributo da parte nostra, cioè dai diretti interessati: oggi sappiamo che molte cardiopatie possono essere prevenute con una sana alimentazione e lo stesso vale per molte forme di tumore; i medici oggi sono in grado di fare trapianti cardiaci, vaccinazioni e cure antibiotiche, ma noi continuiamo a mangiare in modo squilibrato, bere superalcolici e fumare; analogamente gli ingegneri inventano le cinture di sicurezza, l’abs e gli airbag, ma noi continuiamo a correre come pazzi, magari senza cintura e forse pure un po’ brilli.
È più che evidente che le nuove risorse culturali sono per lo più applicate solo da persone specializzate, ma non sono entrate a far parte del patrimonio comune e la gente comune incredibilmente non collabora per proteggere la propria vita.
Come spiegare questo fenomeno? Forse ci può aiutare un fatto a tutti noto: i medici sono una categoria di grandi fumatori e sicuramente superano i limiti di velocità come tutti gli altri; essi sono magari bravi a salvare la vita degli altri, è il loro lavoro e sono stati addestrati per questo ma, come tutti gli altri, non hanno ricevuto un’adeguata educazione a tutelare la propria. Non si tratta di ignoranza e di mancanza di informazione, ma di una mancata educazione ai corretti comportamenti: possiamo pensare che un oncologo non conosca le conseguenze del fumo? Eppure fuma. Possiamo credere che un ortopedico non conosca le conseguenze dell’alta velocità? Eppure corre. Anche la gente comune sa bene che fumare fa male e che l’alta velocità è pericolosa, ma come sappiamo questo non basta; per una corretta percezione del pericolo, per gestire emozioni come la paura, la tendenza al conformismo, alla trasgressione o alla competizione (che ci portano a fumare e a imitare i velocisti della strada) è necessario l’intervento dell’inconscio, il quale deve avere dei modelli di comportamento alternativi che siano in grado di soddisfare non solo le esigenze della sicurezza, ma anche quelle psicologiche della mente umana. Tali esempi ci confermano ancora una volta come la parte consapevole della nostra mente, anche se dotata di una cultura specifica e professionale, sia subordinata ai desideri dell’inconscio e come questo, qualora non venga opportunamente educato sin da bambini, possa portare a comportamenti autolesionisti fino a provocare la propria morte.
Come si educa l’inconscio dei nostri figli? Come possiamo aiutarli a disegnare un’efficace mappa mentale? Un tempo vi erano favole come quella di Cappuccetto Rosso che ci mettevano in guardia, fin da piccolissimi, dai lupi e dai pericoli della foresta in genere; alle terribili storie di serpenti e di belve feroci si aggiungevano poi i racconti e i consigli di genitori e nonni, tanto che alcuni finivano per odiare lupi e serpenti senza che questi gli avessero mai fatto del male. Favole, mitologie e precetti religiosi hanno costituito per millenni un efficace mezzo per educare le persone a tenere i comportamenti corretti per tutelare la propria vita rispetto a un ambiente che rimaneva piuttosto costante, un ambiente in cui lupi e serpenti costituivano una minaccia concreta.
Nell’epoca della televisione i pericoli per la nostra vita sono cambiati, ma invece di essere ben individuati e opportunamente contrastati, intere generazioni sono cresciute affascinate dalla pubblicità di superalcolici, sigarette e auto sportive, nonché da eroi televisivi fumatori che sfrecciavano su auto costose destando l’ammirazione di donne bellissime.
Solo in tempi recenti ci si è resi conto di questo errore culturale, le pubblicità delle sigarette sono state bandite e quelle delle auto non esaltano più la velocità come una volta; ciò rappresenta un passo nella giusta direzione, ma molto tardivo, perché i modelli di comportamento sbagliati sono ormai profondamente radicati nella nostra cultura.
Nonostante i progressi fatti, siamo ancora molto indietro su questo punto: osservando il tempo dedicato dai telegiornali all’esecuzione di un condannato a morte in un Paese straniero rispetto a quello dedicato alle statistiche degli incidenti stradali sembra che morire sulla strada sia un fenomeno trascurabile, eppure dipende dalla nostra società, mentre l’esecuzione riguarda quella di un Paese straniero; i morti sul lavoro sembra poi che non esistano affatto, a meno che non si muoia in modo spettacolare, esplodendo insieme alla propria fabbrica o qualcosa di simile; che idea ci facciamo dei pericoli che ci circondano guardando i telegiornali attuali? Quanti morti ci sono stati a causa della criminalità? Forse 150, forse 200? Quanti per un incidente sul lavoro? Guardando la televisione si potrebbe pensare 4 o 5, salvo poi sentire fugacemente, in un servizio marginale, mille o più; e sulla strada? Anche seimila. Per quale motivo allora abbiamo più paura di essere rapinati piuttosto che di un incidente stradale? La risposta è sempre la stessa: una errata percezione del pericolo, un’educazione non adeguata per la propria incolumità.
Tutto questo ci mostra quanto l’educazione sia importante nella tutela e nella gestione dei nostri valori a cominciare dal valore della vita e di quanto sia importante aggiornarla ai tempi, ai nuovi pericoli. È opportuno che i genitori, che sono i primi, ma non gli unici educatori dei propri figli, propongano degli esempi più validi da imitare sia con il proprio comportamento, sia attraverso la scelta e il commento dei programmi televisivi, dei libri e dei giochi; ma chi educa i genitori? Non avendola ricevuta dai nonni, i genitori devono produrre in prima persona la nuova cultura tenendo ben presente il valore di riferimento, la vita dei figli e la propria.

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APPROFONDIMENTI
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ALEXANDER FLEMING stellastellastellastella

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3.a.4 – Lo sport fa veramente bene alla salute?

4 Giugno 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

boxeLo sport fa veramente bene alla salute?

Per contrastare gli effetti negativi della vita sedentaria, per tenersi in forma, si consiglia spesso una sana attività sportiva; le varie forme di ginnastica e di attività atletiche hanno un’influenza benefica sulla nostra salute come confermano le moderne scienze mediche. Lo sport viene dunque giustamente pubblicizzato nella nostra società come un valore poiché legato alla salute e quindi alla vita; il fatto che la pratica sportiva sia piuttosto diffusa nella popolazione, soprattutto fra i giovani, sembra dimostrare che in tale ambito si sia sviluppato un adattamento culturale adeguato ai problemi della vita moderna, ma forse l’apparenza ancora una volta ci inganna, in quanto anche in questo caso non mancano le contraddizioni: come spiegare l’uso di sostanze dopanti, nocive per la salute, da parte degli atleti anche non professionisti come capita nel ciclismo? E come giustificare lo sport professionale?
Se esaminiamo il calcio, cioè uno degli sport più diffusi a livello professionale, risulta evidente che il suo fine non è tutelare la salute: a fine carriera un calciatore molto bravo sarà probabilmente ricco, ma avrà sicuramente notevoli problemi fisici a seguito di numerosi infortuni quali fratture, lacerazioni dei tendini e lussazioni ai quali potrebbero aggiungersene altri se avesse fatto uso di sostanze dopanti per aumentare le sue prestazioni. Fare il calciatore professionista pertanto è un buon lavoro, molto redditizio, ma certo non fa bene alla salute; per il calciatore non professionista il rischio di infortuni si riduce, ma rimane comunque alto, inoltre l’attività non rende un centesimo.
Cerchiamo di esaminare con calma la situazione: lo sport fa bene alla salute quando viene usato per questo scopo, ma può essere usato anche per altri fini e in questo caso la salute passa in secondo piano. Vi sono numerosi altri fini per lo sport, molti dei quali comunque positivi come lo svago, il divertimento, l’aggregazione sociale, l’educazione, la bellezza fisica e nel caso del calcio e di altri sport seguiti da un folto pubblico anche il notevole guadagno; non c’è nulla di cui vergognarsi a praticare lo sport per questi motivi, inoltre perseguire tali scopi non è in contrasto con la salute in generale, ma in certi casi può diventarlo: praticare l’agonismo è in genere un’esperienza educativa che forma i giovani, consentendogli di mettersi alla prova, di misurarsi con gli altri e allo stesso tempo li aiuta a mantenersi in forma, ma se praticato oltre un certo grado può diventare pericoloso, specialmente a livello professionale e la salute, essendo in tal caso un fine secondario, viene dimenticata.
Lo sport è diffuso fra i giovani non perché fa bene alla salute, essi sono gli ultimi ad averne bisogno, ma per il gusto dell’agonismo, per fini estetici o di aggregazione sociale e talvolta per far contenti i genitori che si preoccupano veramente della loro salute; spesso lo sport viene quindi esaltato nel nome della salute per nascondere a sé stessi altri fini ritenuti meno nobili. Lo sport nel nostro mondo non sempre fa parte della cultura della salute e a volte addirittura porta a comportamenti negativi e autolesionisti, ma a causa dell’ormai noto inquinamento psicologico spesso non ce ne rendiamo conto. Essere consapevoli del vero obiettivo che si intende perseguire è invece indispensabile per tenere i comportamenti adatti allo scopo e per valutare con maggiore cognizione i rischi e gli effetti che tali comportamenti producono. Quando lo sport sarà largamente praticato da chi non è più giovane, per tenersi in forma, invece di essere solo seguito attraverso la televisione come forma di spettacolo, allora potremo dire che la cultura dello sport-salute si sarà veramente diffusa, ma si tratta di un traguardo ancora da raggiungere.

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PALCO D’ONORE
    PIERRE DE COUBERTIN   stella1
 

CONCETTI IN PILLOLE                                                                         slide_18
 pillola1  n. 18 – IL VALORE DELLO SPORT

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3.a.5 – E’ giusto cercare il benessere?

5 Giugno 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

benessereÈ giusto cercare il benessere?

Quando ci prendiamo cura della nostra vita, si dice giustamente che stiamo cercando il nostro benessere; questa parola esprime fondamentalmente una sensazione, il sentirsi bene. Le squisite sensazioni che proviamo quando mangiamo dell’ottimo cibo sono dei messaggi che dicono al nostro cervello che abbiamo raggiunto nel modo migliore lo scopo di nutrirci; in generale, quando un senso di benessere ci pervade, noi sappiamo che ci siamo presi cura egregiamente di noi stessi e quindi della nostra vita.
Per sentirsi bene non basta la salute; vi sono anche altre necessità da soddisfare, come formare una famiglia, avere dei rapporti affettivi, sentirsi importanti, avere un ruolo sociale, in altre parole serve tutto ciò che ci faccia sentire realizzati. Si parla in questi casi di esigenze psicologiche, ma forse sarebbe più corretto dire esigenze naturali, considerato che siamo degli animali sociali progettati dalla natura per muoversi, fare esperienze, frequentare i propri simili e occupare un posto nella gerarchia del gruppo. Tutte le attività che mirano a farci sentire realizzati dovrebbero allora essere considerate positive, ma è facile accorgersi come non tutte siano finalizzate a migliorare la nostra vita. Come ci si può sentire realizzati mediante comportamenti contrari alla nostra salute e alla nostra vita? Eppure accade quotidianamente alla maggior parte delle persone. Si rendono allora necessarie delle riflessioni su questa bizzarra situazione ricordando come la nostra natura abbia una doppia anima: una genetica e l’altra culturale; esaminando dei casi limite risulta evidente come la nostra educazione influisca profondamente sulla percezione delle nostre esigenze: i monaci francescani conducevano una vita in povertà e piena di sacrifici per sentirsi realizzati; per gli antichi samurai il massimo era morire in guerra; per un imprenditore la migliore soddisfazione può essere quella di portare la propria azienda ad essere la prima nel suo settore e a questo fine sacrifica ogni rapporto umano. Come è possibile che per sentirsi bene si debba morire in guerra, essere poveri o lavorare tutta una vita senza risparmiarsi per vincere la concorrenza? Lo scopo del benessere non dovrebbe essere quello di indicarci la via giusta per tutelare la nostra vita? No, o almeno non sempre. La ricerca delle soddisfazioni non ci porta solo alla tutela della vita, ma alla sua realizzazione, cioè al raggiungimento di obiettivi ben determinati stabiliti dalla nostra natura sia genetica che culturale; a questo punto bisogna ricordare che la nostra cultura può essere negativa e sbagliata, che può anteporre alla nostra vita altri interessi, specialmente quelli legati al gruppo, imponendoci fatiche enormi per scalare o mantenere la posizione nella piramide sociale, facendoci adoperare per gli altri oltre il ragionevole fino a sacrificare la propria stessa vita o peggio ancora quella dei propri figli lasciando per esempio che partecipino a guerre per essi assolutamente inutili.
Ecco allora che le nostre esigenze psicologiche possono entrare in conflitto con il valore della nostra vita e quella dei nostri cari; non è sempre vero dunque che cercare di realizzarsi equivale a prendersi cura della propria vita; di nuovo dobbiamo riconoscere l’importanza di una sana educazione per tutelare i nostri valori in modo adeguato; i modelli da proporre a noi stessi e ai nostri figli ci devono indirizzare verso una vita rispettosa della nostra natura con dei comportamenti che realizzino il nostro bene e che non ci spingano verso inutili sacrifici.

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PALCO D’ONORE
    ABRAHAM MASLOW    stella

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 pillola1  n. 19 – IL VALORE DEL BENESSERE

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3.a.6 – Si deve perseguire la ricchezza?

6 Giugno 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

ricchezzaSi deve perseguire la ricchezza?

Bisogna essere chiari su cosa si intende per ricchezza: secondo la comune definizione delle scienze economiche, la ricchezza è un insieme di beni, cioè un insieme di cose in qualche modo utili alla vita, cose che soddisfano delle necessità umane. In base a questo concetto la ricchezza è per definizione uno strumento per realizzare il nostro benessere, per vivere bene la nostra vita.
In effetti, qualunque attività che ci procuri soddisfazione, come mangiare, curare la propria salute, divertirsi o viaggiare, richiede l’impiego di risorse materiali, cioè dei beni sopra citati; in realtà anche i beni immateriali come la cultura, un dignitoso ruolo sociale o gli affetti familiari, tutti preziosissimi per vivere bene la nostra vita, spesso vengono pesantemente supportati dalle risorse materiali di cui si dispone. È opportuno inoltre ricordare che anche per aiutare gli altri in genere è necessario l’impiego di risorse economiche, tanto che un antico saggio sosteneva che per aiutare i poveri la miglior cosa è essere ricchi; la ricchezza quindi è per sua natura al servizio della vita sia individuale che collettiva, è giusto dunque parlare di ricchezza di una comunità o di una nazione.
Incrementare le proprie ricchezze significa aumentare la propria capacità di vivere bene la propria vita e aiutare gli altri a fare altrettanto; la produzione di ricchezza per sé e per gli altri dovrebbe dunque essere considerata una virtù, alcuni sostengono perfino che sia un dovere morale, ma perché allora numerose religioni e diverse ideologie politiche condannano la prosperità economica e la sua ricerca? Il fatto è che la ricchezza è una parola con vari significati ed è facile fare confusione: prendiamo ad esempio una collana di diamanti, sappiamo che ha un grande valore in denaro, quindi è un bene prezioso, ma a cosa serve? In che modo aiuta la vita? Si tratta di un banale ornamento, ma è un oggetto simbolo di benessere economico, quindi di prestigio sociale, quindi di potere; dobbiamo ricordare che noi siamo animali sociali, come tali esibiamo istintivamente al resto della comunità la nostra posizione nella gerarchia sociale e lo facciamo in mille modi e in continuazione: si parte dalla scelta dei vestiti, dall’avere la scrivania più grande degli altri sul posto di lavoro, i posti migliori allo stadio o al teatro fino a esibizioni costosissime come le auto di lusso, i gioielli, le barche a vela e gli aerei personali.
Siamo di fronte a un altro tipo di ricchezza il cui fine non è vivere bene, ma competere e prevalere sugli altri, una ricchezza che può essere definita come insieme di beni utili per ottenere il massimo potere e prestigio sociale. Consideriamo ora la figura classica del vecchio tanto ricco quanto avaro, che per tutta la vita ha lavorato come uno schiavo sacrificando ogni soddisfazione per accumulare un grande patrimonio; egli è sempre vissuto da povero per essere ricco, ma di una ricchezza che non userà mai per vivere bene, essendo concepita solo per diventare ancora più ricco, per avere un posto di riguardo nella classe sociale più potente e prestigiosa. Si tratta quindi di una ricchezza nemica della vita, l’esatto contrario di quella di cui si parlava all’inizio del paragrafo, tuttavia sappiamo bene quanto è facile fare confusione o passare dall’una all’altra. La differenza fondamentale fra queste due forme di ricchezza è data proprio dal valore che tutelano: la prima la vita, la seconda il potere; quando il potere diventa più importante della vita, la prosperità economica assume un ruolo negativo.
In una situazione di spietata concorrenza, come capita spesso di trovare nella società umana, per primeggiare è opportuno schiacciare gli altri e per accumulare beni non si esita a sottrarli agli altri; nei paesi poveri inoltre il benessere economico è appannaggio della sola odiata classe dominante e quindi associato ad essa. Non dobbiamo dunque stupirci se il concetto negativo di ricchezza è quello più comune, con il lusso padre di ogni vizio e l’opulenza causa di corruzione e di ogni malvagità umana; vi è inoltre un altro vantaggio nell’esaltare la povertà, quello di aiutare la massa di schiavi, di servi e di poveri ad accettare la propria condizione e sopportarla meglio. Nel ricco mondo occidentale l’esaltazione della povertà oggi non viene più predicata, anzi viene avversata come ostacolo del consumismo, cioè di quella cultura che viene propagandata come il motore del progresso dell’umanità, ma i pericoli legati al potere economico sono invece più grandi che mai, la concorrenza sempre più dura e la qualità della vita sempre più bassa. Ciò significa che di fatto il mondo occidentale è sempre meno ricco, nel senso che la ricchezza è costituita di cose sempre meno utili per la popolazione, ma si continua ad alimentare quell’inquinamento psicologico che tende a far credere il contrario, perché un povero consapevole consuma con parsimonia e tende a risparmiare piuttosto che a indebitarsi. Acquistiamo piccoli appartamenti con mutui per quaranta anni? Compriamo qualsiasi oggetto con onerosi finanziamenti da restituire a rate? Spendiamo buona parte del reddito per telefonare? Non importa, tanto siamo occidentali, facciamo parte del ricco mondo occidentale e quindi siamo ricchi, come testimoniano i televisori al plasma nei nostri salotti, i telefonini nelle nostre tasche, e gli i-pod nei nostri orecchi.
Per facilitare le cose in seguito continueremo a chiamare ricchezza il fenomeno positivo e potere economico il fenomeno negativo, perché si tratta di concetti che nella mente sono difficilmente separabili e che di conseguenza lo sono anche nella pratica quotidiana, per cui usare dei termini differenti è sicuramente opportuno. Possiamo dunque concludere che la ricchezza è uno strumento indispensabile per vivere bene la nostra vita ed aiutare i nostri cari a fare altrettanto ed è importante educare i nostri figli a distinguerla dal potere economico in modo da non perdere di vista il valore fondamentale che è la loro vita.
Un discorso perfettamente analogo può essere effettuato sull’attività che produce la ricchezza, cioè sul lavoro, che è un valore importantissimo proprio perché fonte di benessere per il singolo, per la famiglia e per la comunità, ma che assume un ruolo negativo se al servizio del potere economico.
È opportuno aggiungere che se perseguire la ricchezza è giusto, per farlo con efficacia non basta però esserne consapevoli, è necessario anche un ambiente che ne dia l’opportunità: il nostro ambiente è la nostra società e dalla sua economia dipende in modo significativo anche la nostra; siamo animali sociali, dalla nostra collaborazione dipende ogni attività produttiva, ne segue che da una buona organizzazione della collettività, cioè da un’efficiente simbiosi, coerente con la nostra natura, che dia opportunità di crescita e distribuisca in modo equo le risorse dipende la creazione di ricchezza e quindi la tutela della vita individuale, familiare e collettiva.

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IL CASO CELEBRE
    JOHN DAVISON ROCKEFELLER 
 

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n. 20 – IL VALORE DELLA RICCHEZZA

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3.a.7 – Come si trasmettono i valori?

7 Giugno 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

valoriCome si trasmettono i valori?

Iniziamo ad esplorare il tratto successivo del nostro canale, quello che rappresenta la vita dei nostri figli; i nostri discendenti, sia genetici che culturali, sono tutto quello che rimarrà di noi quando non ci saremo più, senza di essi la nostra vita individuale ci appare come qualcosa di effimero, come un valore che siamo destinati a perdere e quindi può sembrare inutile darsi tanto da fare per tutelarlo, sarebbe in effetti una guerra senza speranza; chi sostiene dunque che i figli danno un senso alla nostra vita ha pienamente ragione e questo si può, almeno in parte, estendere alla discendenza culturale, costituita da tutti coloro che nella vita hanno imparato qualcosa da noi.
Quello che viene comunemente detto nucleo familiare è una semplice aggregazione sociale umana formata da una coppia di genitori con i loro bambini e la sua funzione principale è indubbiamente far crescere la prole; tale attività appare particolarmente impegnativa per gli esseri umani: per rendere autonomi i figli nei Paesi occidentali sono necessari circa 25 anni, impiegando tante e tali risorse economiche da dover limitare le nascite a due o tre in tutta la vita. Sappiamo che non è sempre stato così; come ancora oggi accade in altre parti del mondo, fino a pochi decenni fa anche in occidente erano comuni famiglie con sei figli che a venti anni erano considerati ormai maturi e spesso già indipendenti; rispetto ai nostri parenti più prossimi, le scimmie, venti anni sono comunque tantissimi per svezzare la prole e, considerando anche le energie impiegate, dobbiamo dar ragione a chi sostiene che i figli sono anche lo scopo della nostra vita.
Dobbiamo riconoscere che i bambini, così come il nucleo familiare, sono valori sempre attuali e nel mondo moderno sembrerebbero essere ancora più preziosi, visto il tempo dedicato a ciascun figlio, tuttavia si dice che la famiglia è in crisi e che non ci sono più valori in generale, come è possibile? Il mondo attuale dei Paesi industrializzati è molto diverso da quello dei nostri antenati ed anche rispetto a quello dei nostri nonni, e i vecchi metodi per prendersi cura dei figli non funzionano più: oggi per tirare avanti la famiglia servono due stipendi, spesso entrambi i genitori devono lavorare fuori casa, i bambini vengono affidati ai nonni quando possibile, ma spesso è necessario ricorrere agli asili nido, poi alla scuola a tempo pieno, ai campi estivi e a strutture comunque esterne; infine a casa ci sono sempre la televisione e i giochi elettronici.
A dispetto delle energie e dei soldi spesi, abbiamo sempre meno tempo da dedicare ai figli quando sono piccoli e quando sono più grandi è ormai troppo tardi. La centralità dei genitori come riferimento educativo è massima nei primi anni per poi essere integrata nel tempo da altre figure: prima i nonni, poi gli insegnanti, gli amici e la società; è dunque quando i bambini sono piccoli che l’assenza o la cattiva condotta dei genitori è più grave. Nei primi due anni le capacità di apprendimento sono simili a quelle degli altri cuccioli di mammiferi, si basano sull’esperienza diretta, sul gioco, sull’imitazione; le prime cose che apprendiamo non ci vengono spiegate, non saremmo in grado di capirle, ci vengono semplicemente mostrate attraverso delle esperienze guidate e supervisionate dagli adulti; in questo modo impariamo a camminare, a parlare, a distinguere i gesti affettuosi da quelli ostili e impariamo anche a riconoscere i primi valori.
Oggi nessuno nega l’importanza della famiglia, tutti la riconoscono come un valore e tuttavia, ricordando i tempi in cui tornava il papà dal lavoro e si mangiava rigorosamente tutti assieme, tale valore era più presente nella nostra vita; questo perché è attraverso questi comportamenti e ad altri simili che da piccoli abbiamo imparato a riconoscerlo come un valore, sono queste abitudini che ce lo ricordano e ce lo fanno sentire vicino, protetto e curato. Consumare i pasti uniti è un’usanza infatti diffusa in tutte le culture e invitare gli amici a mangiare con noi ha pertanto un grande valore simbolico, significa che li consideriamo come familiari; ecco che con lo stesso rituale abbiamo introdotto anche il valore dell’amicizia, un valore importantissimo per un animale sociale.
I valori vengono dunque conosciuti e mantenuti vivi attraverso dei comportamenti che da sempre vi sono associati; tali comportamenti nel mondo moderno non sono più praticati o lo sono molto meno e sono queste abitudini, questi modi di fare che stanno scomparendo, non ancora i valori, ma la scomparsa dei valori sarà inevitabilmente il prossimo passo se non corriamo ai ripari. Bisogna quindi sostituire le vecchie usanze non più praticabili con altre compatibili con la vita moderna, perché i valori sono qualcosa che va praticato, inserito nelle nostre abitudini quotidiane, non solo ricordato.

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3.a.8 – Lo Stato si fonda sulla famiglia?

8 Giugno 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

famigliaLo Stato si fonda sulla famiglia?

Esplorando i percorsi della vita non possiamo dimenticarci dei nostri genitori, anche se ora forse ricoprono il ruolo di nonni; una gran parte di quello che siamo oggi proviene da loro, anche se siamo grandi e indipendenti essi ci danno ancora tanto sia come consiglieri che come nonni dei nostri figli. Nelle società agricole i nonni in genere sono figure socialmente molto importanti attorno ai quali si riuniscono i nuclei familiari dei figli nelle ricorrenze sociali più importanti, come ad esempio le festività religiose. Nelle società tribali gli anziani hanno spesso anche un ruolo politico, ad esempio come membri di un consiglio degli anziani, una sorta di senato della tribù nel quale vengono prese decisioni importanti per la comunità realizzando una specie di governo su base familiare anziché popolare.
Si impone dunque un concetto di famiglia più esteso, non un semplice nucleo familiare, ma un insieme di più nuclei aventi i nonni o addirittura i bisnonni in comune, un insieme che, per evitare confusioni, si può definire casato o clan familiare. L’importanza sociale del casato è stata sempre molto rilevante e ciò si giustifica facilmente con la logica della vita tribale: la collaborazione e l’organizzazione all’interno della tribù e delle altre comunità umane sono risorse fondamentali per la sopravvivenza che vengono meglio garantite e praticate in presenza di vincoli di sangue. Aiutarsi fra parenti significa inoltre tutelare i geni in comune, ecco perchè dilatare la famiglia e con essa la sua gerarchia e la sua solidarietà è stata la strategia principale usata dalla natura per creare grandi gruppi di animali sociali. Gli antichi villaggi tribali, composti al massimo da un centinaio di individui, erano formati dall’unione di pochissimi clan familiari a loro volta imparentati fra loro; nelle società agricole molte attività produttive erano formate da piccole aziende a gestione familiare basate sulla tradizione lavorativa del casato.
Sappiamo che l’essere umano ha una dipendenza quasi totale dalla sua società, ha infatti grosse difficoltà a sopravvivere al di fuori di essa; se dunque la società umana si fonda sulla famiglia, sul clan familiare e poi sul villaggio è ovvio che questi siano dei valori molto importanti e in effetti è stato sempre così finché è durata la società tribale, ma quel mondo oggi è scomparso.
La struttura sociale del villaggio ha iniziato il suo declino con le antiche società agricole che, con il sensibile aumento dei membri, portarono alla creazione di diverse classi sociali; in tali nuove comunità venivano anche utilizzate grandi masse di schiavi ai quali, come abbiamo già detto, non poteva essere concesso di avere una propria organizzazione sociale perché avrebbero potuto usarla per ribellarsi; il casato mantenne una sua importanza economica nella popolazione libera e dedita all’artigianato e al commercio, ma perse il suo ruolo politico che rimase riservato alla classe dominante. Nel medioevo occidentale la mancanza della struttura sociale degli schiavi venne ereditata dai servi della gleba, i quali rimasero quindi in un ruolo sociale subordinato; allo stesso modo il casato mantenne la sua importanza economica nelle popolazioni dedite all’artigianato e al commercio, ma rimase privo di un ruolo politico nella società; solo nella classe nobiliare il clan mantenne tutto il suo valore, anzi venne rafforzato come elemento distintivo rispetto alle altre classi sociali. Ancora oggi i nobili vanno fieri della storia del proprio casato che viene da loro tramandata nei secoli e questa è la sola cosa che ancora li distingue dai plebei.
Nel mondo attuale la massa dei cittadini a sua volta ha ereditato la disorganizzazione sociale dei servi della gleba, mantenendo la mentalità ed il loro ruolo subordinato nei confronti dell’autorità dello Stato a dispetto di tutte le leggi democratiche; la grande industria ha ridotto ai minimi termini l’artigianato e il commercio a gestione familiare e con essi la loro tradizione culturale lavorativa basata sul piccolo casato; nelle repubbliche democratiche la ricca borghesia industriale ha spodestato la classe nobiliare togliendole il primato politico e quindi, anche per i nobili, il casato ha perso molta della sua importanza rimanendo una vuota tradizione.
Il clan familiare si presenta allora oggi come un valore in agonia, non ha più alcuna funzione politica ufficiale, quella economico-culturale è scomparsa o quasi e quella sociale, intesa come guida alle pubbliche relazioni fra parenti, non è più praticabile in quanto i figli molto spesso si trasferiscono in altre città in cerca di lavoro. La naturale struttura sociale dell’umanità non solo è andata persa, ma sembra che non possa nemmeno più ricostruirsi. Questo fenomeno ha danneggiato anche la famiglia in senso stretto, la quale ha mantenuto la sua funzione biologica e culturale, ma ha perso quella politica e sociale che aveva quando era inserita in un clan: un tempo, vivendo nello stesso villaggio, ognuno conosceva e frequentava tutti i propri parenti, la propria reputazione era legata a quella del casato e gli anziani ne erano i naturali rappresentanti, da cui il prestigio di cui godevano; la famiglia era un valore sacro ed era effettivamente alla base della società. Oggi, quando si sostiene che lo Stato si fonda sulla famiglia, si afferma semplicemente il falso: lo Stato non è più una federazione di famiglie come lo era l’antica classe nobiliare o il villaggio tribale e ciò è provato dal fatto che, quando si invocano provvedimenti a favore della famiglia, le autorità politiche possono puntualmente ignorare tali richieste senza danneggiare sé stesse.
È doveroso però far presente che la perdita della vecchia struttura sociale presenta anche notevoli aspetti positivi: si trattava di una struttura molto solida, ma anche molto autoritaria; la subordinazione dell’individuo alla famiglia era quasi assoluta, in particolare per le donne; tutti erano tenuti a mantenere un comportamento pubblicamente accettabile non solo perché ritenuto giusto, ma per tutelare l’onore del casato. La celebre storia di Giulietta e Romeo oppure la pratica dei matrimoni combinati in uso particolarmente fra i nobili ci danno un’idea di quanto potesse essere duro ed invasivo il controllo del clan familiare sui suoi membri. La figura del nonno severissimo, la cui parola era incontestabile e quella del padre padrone fanno parte di un passato molto recente e certo è che il mondo antico era lontanissimo dal concetto di democrazia. Con il tramonto del vecchio sistema sono venuti meno anche alcuni dei sui aspetti peggiori.
La perdita del ruolo politico del clan, iniziata con l’avvento delle società agricole basate sullo schiavismo, ha tuttavia aperto un baratro di separazione fra il singolo individuo e l’autorità statale; si tratta di una ferita che non si è mai rimarginata e anzi, con la formazione delle grandi città attuali, abbiamo perso anche il ruolo sociale del villaggio, cioè di una comunità unita da profondi legami di parentela, amicizia e conoscenza profonda dovuta alla convivenza; oggi viviamo in una società di estranei. Dobbiamo dunque concludere che il nucleo familiare è un valore politicamente mutilato e quindi vulnerabile, per questo va tutelato con particolare attenzione; il casato è invece un valore che è andato perduto e non può essere tutelato in quanto non esiste più, infine anche il concetto di comunità deve essere riesaminato, avendo subito profonde trasformazioni.

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UN CONCETTO DA APPROFONDIRE
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3.a.9 – Dove è finita la nostra comunità?

9 Giugno 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

comunitàDove è finita la nostra comunità?

Oggi sappiamo che l’umanità ha vissuto per almeno il 97% della sua esistenza in villaggi tribali, come presumibilmente hanno fatto anche molti dei nostri antenati ominidi; da sempre quindi siamo animali sociali che per natura formano delle comunità. In questo contesto per comunità si intende un gruppo di individui che non solo condividono lo stesso territorio, ma vivono vicini l’uno all’altro conducendo una vita in comune, interagendo continuamente fra loro.
Sappiamo anche che un grande villaggio, al crescere nel tempo della popolazione, poteva suddividersi in vari villaggi che, mantenendo fra loro contatti di buon vicinato, formavano delle alleanze a scopo sia militare che commerciale; si può allora osservare il passaggio da una popolazione riunita in un unico villaggio, ovvero da una piccola comunità con fortissimi legami di parentela e amicizia al suo interno, nonché con una ben precisa identità culturale (linguistica, religiosa, ecc.) ad una popolazione con la stessa identità culturale e facente parte di una stessa entità politica (la federazione di villaggi) che però risulta suddivisa in varie comunità.
I legami di parentela fra membri di villaggi diversi sono in genere meno stretti o possono non esistere affatto, gli incontri sono necessariamente occasionali e le amicizie assai più difficili da coltivare, alcuni membri possono essere fra loro estranei e quindi non vi è dubbio che si tratta di comunità separate, sebbene facenti parte della stessa società unita politicamente e culturalmente; manterremo quindi distinti i concetti di comunità e di società poiché la popolazione di una società umana, anche nel mondo tribale, non vive sempre in comune, ma in genere è suddivisa in comunità diverse.
Una caratteristica che ritroviamo sia nelle comunità tribali, sia in quelle agricole, è una complessa organizzazione interna con una rigida gerarchia, basata su clan familiari o altri sottogruppi (contadini, artigiani e mercanti; anziani, adulti, giovani e bambini; maschi e femmine, ecc.); una seconda proprietà che possiamo osservare nelle comunità è la loro autosufficienza, cioè la loro indipendenza le une dalle altre.
Nei piccoli centri urbani moderni, composti da poche migliaia di abitanti, ritroviamo alcuni aspetti tipici delle comunità umane: tutti i membri si conoscono personalmente; la reputazione del singolo viene spesso estesa alla sua famiglia ed è ben nota a tutti, in quanto le voci corrono in fretta; vivendo a stretto contatto si forma una sorta di opinione pubblica che osserva e giudica tutti, rivelandosi spesso fin troppo invadente e oppressiva; vi è una notevole uniformità culturale; in caso di necessità si manifesta una grande solidarietà collettiva.
I piccoli paesi però non sono più autosufficienti in quanto sono ormai strettamente legati da un punto di vista economico e politico al resto della società. Il concetto di società può ancora essere identificato con quello di nazione da un punto di vista politico, ma da quello economico è necessario estenderlo almeno a tutto il mondo occidentale se non a tutto il globo terrestre. Oggi si parla infatti di economia globale e nessuno si sorprende di trovare in un paesino sperduto una varietà di prodotti costruiti in Cina, Giappone e Stati Uniti, con materiali provenienti magari dall’Africa, dall’India o dal Sud America.
Nelle grandi città moderne troviamo cambiamenti ancora più profondi: data la grande concentrazione di persone, le risorse locali sono sempre insufficienti e la dipendenza economica dall’esterno diviene totale. Il grande numero dei cittadini rende impossibile che tutti si conoscano di persona, ma anche il vicino di casa può essere un perfetto sconosciuto, i contatti personali sono limitati al proprio nucleo familiare, ai colleghi di lavoro ed a un ristretto gruppo di amici provenienti dall’infanzia, dalla scuola, dalla palestra e di nuovo dal lavoro. In una società di estranei nessuno è interessato alla vita privata degli altri, nessuno perde tempo a giudicarti e quindi si è totalmente liberi dall’oppressiva invadenza dell’opinione della comunità; chi da un piccolo paese di provincia si trasferisce in una grande città, spesso viene preso da un esaltante senso di libertà. Chi si trasferisce dalla grande città al piccolo paese rimane invece colpito dalla sua tranquillità, dall’assenza di traffico e dal fatto di non sentirsi più soli; tutti ti conoscono e ti salutano; il cittadino ha finalmente trovato una comunità, perché evidentemente la città non lo è. Nelle grandi metropoli i contatti con i nostri amici sono frequenti, ma per vederli abbiamo bisogno di cercarli e di un pretesto per incontrarli: una serata al cinema, una pizza in compagnia, la discoteca, una partita a calcetto; queste attività esistono anche nelle comunità, ma non sono necessarie per vedersi, anzi il problema potrebbe essere quello di evitare di incontrarsi.
La differenza più sorprendente fra la vita metropolitana e quella di paese consiste nel vivere accanto ad una moltitudine di estranei che rimangono tali con il passare degli anni. Considerando che per nostra natura siamo animali profondamente sociali, è legittimo chiedersi come mai non stringiamo amicizia con i vicini di casa per formare una comunità; la risposta è che per vivere insieme è necessario svolgere delle attività in comune e non solo vivere in prossimità. In un villaggio tribale è inevitabile svolgere delle attività con i propri vicini così come in un piccolo paese forzatamente si frequenta lo stesso bar, la stessa parrocchia, la stessa piazza e gli stessi negozi; inoltre se lavoriamo in paese, anche colleghi e clienti apparterranno quasi sempre alla comunità.
In una metropoli il vicino del piano di sopra parla la nostra lingua, veste come noi e mostra la nostra stessa identità culturale, ma è un estraneo con il quale non svolgiamo nessuna attività e con cui non frequentiamo gli stessi luoghi, esattamente come se fosse un membro di un lontano villaggio alleato della nostra tribù; lo trattiamo pertanto esattamente come tale, salutandolo formalmente le rare volte che lo incontriamo per strada.
Con i nostri amici, anche se abitano lontano, il rapporto è molto diverso: rapporti informali, manifestazioni di affetto, collaborazione in attività divertenti e ludiche svolte nel tempo libero. Per certi aspetti tale rapporto è simile a quello che si avrebbe con i membri del nostro villaggio ideale, ma con alcune differenze significative:
• con i nostri amici siamo per definizione sempre in buoni rapporti, mentre nel villaggio troviamo anche profondi rancori e terribili rivalità;
• i nostri amici non si conoscono tutti reciprocamente, cosa impossibile in un villaggio.
Con i colleghi di lavoro, se facciamo parte di una grande azienda sviluppiamo un rapporto molto simile a quello del villaggio naturale, come in una tribù ci si ritrova in una condizione di necessaria ed inevitabile convivenza e ci si divide in piccoli gruppi di amici in perenne rivalità fra loro, spesso troviamo rancori e solidarietà nello stesso ambiente e tutti conoscono tutti proprio come nella vita tribale; tuttavia questo accade solo nelle aziende con decine di dipendenti e comunque i rapporti terminano alla fine dell’orario di lavoro. Di norma sul lavoro non ci si considera, giustamente, una comunità di colleghi.
La nostra natura ci porta quindi a ricostruire in qualche modo il nostro ambiente sociale naturale, ma questo è limitato all’ambiente di lavoro o frammentato in diversi circoli di amici; da questo possiamo dedurre che appartenere ad una comunità è una nostra profonda esigenza psicologica, è una necessità che costituisce quindi un valore ancora attuale, sebbene in evidente crisi.
Ancor più della famiglia il nostro villaggio sociale ha perso molte delle sue funzioni: non ha più alcun ruolo politico, non è più una unità economica autosufficiente, non è più in grado di avvolgerci ed influenzare la nostra vita, sia nel bene che nel male, spesso non è in grado di offrirci nemmeno una gerarchia da scalare, lasciandoci in un inevitabile stato di subordinazione sociale. La comunità è stata soppiantata in molte delle sue funzioni da quella che chiamiamo società e nelle città ha perso la sua identità e il suo ruolo sociale, si tratta di un valore quasi del tutto scomparso, estremamente vulnerabile, che va tutelato con particolare attenzione come le specie in via di estinzione.

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3.a.10 – La patria è un valore?

10 Giugno 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

patriaLa patria è un valore?

Spesso al posto della parola comunità si usano altri termini come società, collettività, nazione, patria, stato; ciò appare ragionevole in quanto, come abbiamo detto, molte delle antiche mansioni un tempo svolte dalle comunità tribali sono oggi svolte dalla società, identificabile con uno stato nazionale. La propria patria può dunque apparire come un’evoluzione ingigantita dell’antica tribù, tuttavia la storia ci insegna che le cose non sono andate così; le nazioni attuali sono principalmente l’evoluzione delle antiche società agricole basate sullo schiavismo, le quali non erano semplici estensioni delle antiche tribù, ma una combinazione di popolazioni dominate e dominanti. La nostra società nasce come aggregato di tribù diverse e nemiche e non come sviluppo di un unico omogeneo villaggio; questo spiega alcuni singolari fenomeni come la suddivisione in classi sociali, le guerre per interessi privati o di una ristretta minoranza, lo scarso peso politico della maggioranza della popolazione anche nei sedicenti paesi democratici e le rivolte popolari; negli antichi imperi, come quello persiano o romano, questi erano fenomeni già presenti ed evidentemente dovuti all’esistenza di una popolazione dominante che deteneva il potere politico ed economico; le guerre venivano dunque combattute per i suoi interessi anche a danno della restante popolazione, una popolazione di dominati, quindi senza peso politico, a volte suddivisa in liberi e schiavi che, avendone l’opportunità, organizzava rivolte ed insurrezioni per riconquistare il potere.
In un antico villaggio le rivalità interne potevano portare alla scissione in due villaggi distinti e non avrebbe avuto senso una guerra fratricida per imporre la riunificazione; in uno stato occidentale invece ogni scissione viene vista come un atto di insubordinazione nei confronti del potere centrale che va represso con la violenza, esattamente come poteva accadere nei confronti di una provincia romana ribelle. L’analogia di questi comportamenti non è certamente una coincidenza.
A questo punto è opportuno ricordare che le popolazioni umane dominanti tendono ad instaurare con le popolazioni dominate un rapporto del tipo uomo – bestiame; nella nostra società si è infatti ripetuto un fenomeno tipico dell’allevamento: le pecore, ad esempio, sono animali sociali i cui antenati vivevano in branchi dominati da un capo che ne costituiva la guida ed in qualche modo ne rappresentava l’unità e quindi l’identità; oggi il pastore si sostituisce al capo del branco, guida e se necessario protegge il gregge dai predatori e il branco lo segue come è nella sua natura. Questo di certo facilita molto il lavoro dei pastori, i quali ovviamente non esitano poi a macellare gli agnellini a Pasqua od anche tutto il branco se conveniente. Tale fenomeno risulta utile per ogni tipo di allevamento di animali sociali, compresi gli esseri umani stessi.
Seguendo il principio del rapporto uomo – bestiame i grandi imperi dell’antichità, come le monarchie successive, si sono sostituiti al ruolo del naturale villaggio tribale e noi, animali sociali, secondo la nostra natura abbiamo seguito e ci siamo affidati ad una società che non era la nostra, ma della popolazione dominante; l’imperatore o il re rappresenta l’unità e l’identità della nazione come ogni capo-branco o pastore che si rispetti; al villaggio e al suo territorio sono subentrati la nazione e la patria. In nome dei re, per i loro interessi o per quelli dell’aristocrazia che li sosteneva, sono stati accettati innumerevoli privilegi, discriminazioni, ingiustizie e guerre; come nell’allevamento la popolazione veniva alimentata e protetta per poi essere sfruttata con il lavoro o le tasse o fisicamente sacrificata in battaglia.
Queste nuove strutture politiche hanno portato anche notevoli vantaggi economici e politici; i grandi commerci, la grande industria e di conseguenza la moderna tecnologia probabilmente non si sarebbero sviluppati senza di esse e nemmeno le attuali libertà democratiche che sono una conseguenza dello sviluppo industriale. Non possiamo però nasconderci che alla base di tutto questo c’è un inganno: gli stati nazionali sorti in occidente dopo il medioevo sono l’evoluzione di un villaggio dominante e non del nostro; in essi i servi della gleba hanno infatti mantenuto sostanzialmente la condizione degli schiavi, animali allevati per soddisfare le esigenze dei dominanti, educati a servire la loro patria come se fosse la propria.
Una serie di tentativi per cambiare questo stato di cose vennero fatti in Europa dalla rivoluzione francese in poi, cercando di togliere il potere alla classe dei nobili a beneficio del popolo. Questi tentativi furono però di fatto guidati da una particolare classe emergente, la borghesia, che aveva particolari esigenze di cambiamento ed innovazione e che divenne infine la nuova classe dominante.
Questo cambio di regime, con l’introduzione dei diritti democratici, portò dei vantaggi anche alla popolazione dominata, sia di tipo economico che sociale come la libertà individuale, di associazione, di impresa e le protezioni legali per l’individuo nei confronti dello stato; questi sono vantaggi indiscutibili per la popolazione dominata, ma la struttura della società rimase simile alla precedente e con essa anche la mentalità e la condizione della popolazione dominata, assolutamente non in grado di autogestirsi dopo secoli di servitù; in questo modo venne favorita la formazione di nuove classi dominanti.
Nelle antiche monarchie il potere politico ed economico veniva mantenuto sia con un’adeguata propaganda ingannevole, basata su falsi valori quali l’unità nazionale (unità dei territori del monarca), la patria (terra dei padri ora posseduta da altri), false legittimazioni (il monarca governa per volontà di Dio, per diritto divino), false informazioni (la povera gente è destinata a rimanere tale, è sempre stato così, è una razza inferiore che non potrà mai competere per cultura e valore con i nobili), sia con la forza attraverso gli eserciti, le forze di polizia, la segregazione arbitraria, la tortura e la pena di morte.
Nelle moderne nazioni di tipo occidentale, grazie ai diritti democratici sopra citati, è stato ridotto od abbandonato l’uso della forza, ma ciò ha spinto la classe dominante ad incrementare l’uso dell’inganno per il mantenimento del potere. Questa attività è stata agevolata dallo sviluppo di nuovi strumenti come i giornali, la televisione e gli studi di alta psicologia sulla persuasione.
Una conferma che rispetto al passato poco è cambiato nella sostanza ci viene data dalla propaganda di stato a scopo bellico: un tempo se l’aristocrazia aveva mire espansionistiche verso una regione confinante si diffondevano affermazioni del tipo: “Sono una minaccia, dobbiamo attaccare per primi.”; “Dobbiamo portare la civiltà su territori selvaggi” oppure ” Si deve portare la vera fede fra i pagani”; oggi spesso su tutti i mass media si sente dire: “Sono una minaccia è opportuna una guerra preventiva” (le prove di tale minacce risultano poi alla storia false oppure le minacce erano dovute a provocazioni); ” Dobbiamo portare la nostra economia superiore in quelle povere regioni” (nelle quali sotto il dominio occidentale la povertà continua a crescere); “Dobbiamo portare la democrazia in questi paesi arretrati civilmente” ( dopo che la dittatura in quel paese è stata da noi sostenuta e finanziata per decenni).
Se gli attuali governi occidentali raggirano in modo così scandaloso, oltre che sfacciato, il proprio popolo è evidente che non possono essere governi democratici, cioè governi che rispettano il popolo e la sua volontà ed è altrettanto palese che il popolo è ancora guidato e sacrificato come bestiame. Ne segue che il processo di democratizzazione iniziato dai rivoluzionari del settecento non è concluso e che il loro compito deve essere ripreso dalle generazioni attuali; grazie all’impegno di questi eroi del passato, oggi rispetto ad allora abbiamo il grande vantaggio di non dover ricorrere alla violenza, con tutti i rischi che ciò comporterebbe, poiché la classe dominante governa principalmente con l’inganno e quindi il campo di battaglia si è spostato dalle barricate nelle piazze ai blog di controinformazione su internet.
Come sappiamo l’evoluzione può essere positiva o negativa, ma non torna mai indietro e dunque per tutelare la nostra vita e il nostro benessere dobbiamo andare avanti: non possiamo più rinunciare all’economia industriale e alla collaborazione di milioni di persone dell’attuale società; i piccoli villaggi non possono più svolgere il ruolo politico di un tempo e quindi oggi noi abbiamo bisogno di una vera patria nazionale.
Ora noi sappiamo che la patria e la nazione sono stati sempre dei valori fittizi, forme gravissime di inquinamento psicologico che hanno costituito un danno per la vita individuale, per la vita della famiglia e per la vita di tutta la popolazione; tale situazione perdurerà fino a quando non riusciremo a creare delle nazioni veramente democratiche che mettano in primo piano la tutela e gli interessi dei propri cittadini. La patria non è mai stata e attualmente ancora non è un autentico valore, ma deve essere considerata come un importante valore per il futuro, un obiettivo da realizzare senza ulteriori indugi.

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APPROFONDIMENTI
 libro1  IMPEROMONARCHIAPENA DI MORTEPROPAGANDATORTURA

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    GIUSEPPE MAZZINI   stella2stella2stella2

CONCETTI IN PILLOLE                                                                            
pillola   n. 21 –  IL RE ED IL PASTORE                                                                    Il Re e il Pastore

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3.a.11 – Esistono valori globali?

11 Giugno 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

globalizzazioneEsistono valori globali?

Avendo esaminato il valore della vita dell’uomo e le sue relazioni con il contesto sociale, risulta opportuno soffermarsi anche sul contesto ambientale. Si tratta di un valore assolutamente nuovo in quanto l’ambiente in passato non aveva mai avuto bisogno di particolari tutele e appariva come una cornice eterna e inattaccabile, al di fuori della nostra influenza; nessuno ha mai dubitato dell’importanza dell’ambiente, ma non poteva essere visto come un bene da gestire.
Oggi la situazione è ben diversa, sappiamo che la nostra vita ha avuto origine e dipende dall’ambiente naturale, che ogni danno all’ambiente si ripercuote inevitabilmente sul nostro benessere. Nell’ultimo secolo i danni arrecati ai vari ecosistemi del pianeta sono stati di tale portata da rendere urgente un cambiamento culturale che inserisca l’ambiente naturale fra i valori fondamentali da proteggere. Tale processo è già in atto, ma non si sta sviluppando con la necessaria velocità che la gravità della situazione imporrebbe.
Si tratta inoltre di un valore da proteggere necessariamente attraverso una collaborazione internazionale e ciò complica ulteriormente le cose perché una simile alleanza politica non è mai esistita; è altrettanto vero che una simile alleanza è sempre più necessaria per affrontare problemi globali quali la gestione dell’economia, la sovrappopolazione e tutti i problemi legati all’umanità nel suo insieme. Il recente avvento dei problemi globali, cioè quelli che ci interessano tutti, fa paradossalmente acquistare un nuovo valore all’umanità nel suo complesso in quanto risorsa indispensabile per la soluzione dei suddetti problemi.
Esaminando il ruolo dell’ambiente e dell’umanità nella nostra vita, abbiamo compreso come l’intero fiume della vita, anche nei suoi rivoli più distanti da noi, sia un valore da proteggere.

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APPROFONDIMENTI
 libro3   AMBIENTE

PALCO D’ONORE
    LESTER RUSSEL BROWN   stella3
                                     

CONCETTI IN PILLOLE                                                                            
pillola   n. 22 –  I VALORI GLOBALI
                                                            I Valori Globali                         

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Capitolo 3.b

12 Giugno 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

IL VALORE DELLA LIBERTA’

Tutte le volte che pianifichiamo una nostra azione, che sia una cosa banale come fare una passeggiata oppure una cosa impegnativa come aprire un’attività commerciale, abbiamo bisogno del necessario presupposto di avere la libertà di compiere tale azione; non avrebbe infatti senso fare progetti senza la libertà di realizzarli. Anche la tutela dei propri valori presuppone la libertà di poterli proteggere; la libertà è allora un valore indispensabile e praticamente onnipresente nella nostra esistenza, la cui importanza è seconda solo alla vita stessa.

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CONCETTI IN MUSICA
   EDOARDO BENNATO – SONO SOLO CANZONETTE

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3.b.1 – Cosa significa libertà?

13 Giugno 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

tuffatoreCosa significa libertà?

La parola libertà fondamentalmente significa avere la capacità e la possibilità di compiere un’azione senza impedimenti, restrizioni e limiti. In tale definizione di libertà possiamo notare due aspetti basilari: la possibilità di fare qualcosa e la possibilità che qualcosa ce lo impedisca; a seconda dei casi viene evidenziata ora l’una ora l’altra prospettiva: parlando di libertà di azione, senza fare riferimento ad eventuali ostacoli, oppure parlando di libertà da qualcosa, sottolineando i pericoli che possono minacciarla. Pertanto un aumento delle nostre possibilità di agire comporta sempre un aumento della nostra libertà e viceversa; in modo analogo il superamento o la comparsa di un qualsivoglia ostacolo o limite ne implica rispettivamente un incremento o un calo.
Secondo i diversi casi la parola libertà assume molte diverse sfumature di significato; di particolare importanza è la libertà di diritto o legale, la quale si ha quando l’ordinamento giuridico ci riconosce la facoltà di agire, autorizza espressamente il nostro comportamento o quantomeno non lo proibisce, come nel caso della libertà di pensiero, di stampa, di espressione, di circolazione, di religione, ecc..
Alla precedente spesso si contrappone la libertà di fatto, che si ha quando la nostra azione è materialmente possibile e non comporta conseguenze tali da scoraggiarci, nemmeno se proibita dalla legge, vuoi perché la pena è irrisoria, vuoi perché si ha la certezza (o quasi) di non essere scoperti.
Combinando poi questi due tipi di libertà si ottiene una serie di casi da tenere ben presenti:
• quando la libertà di diritto rende legale quella di fatto, si ha una libertà reale che risulta concretamente attuabile (libertà di esercitare un’impresa commerciale in un contesto economico-giuridico favorevole; libertà di svolgere un’attività di lavoro dipendente che assicuri una vita dignitosa);
• quando alla libertà di diritto non corrisponde quella di fatto, a causa di grandi ostacoli da superare che rendono la nostra azione sconveniente, si ha una libertà apparente; tale apparenza, indotta proprio dalla legalità, può portare a comportamenti autolesionisti (libertà di esercitare un’impresa commerciale in un groviglio di adempimenti burocratici e amministrativi, di pesanti oneri fiscali e previdenziali, di difficoltà di accesso al credito, di mancanza di lavoratori specializzati e di flessione dei consumi; libertà di svolgere un’attività di lavoro dipendente mettendo a rischio la propria incolumità, svolgendo mansioni alienanti e subendo vessazioni di vario tipo);
• quando si ha solo la libertà di diritto in assenza di ogni libertà di fatto, perché la nostra azione è del tutto impraticabile (o lo diventa in breve tempo) si ha una falsa libertà (libertà di esercitare un’impresa commerciale con licenze di autorizzazione, concorrenza da parte di operatori abusivi, estorsioni da parte di organizzazioni criminali, finanziamenti a tassi da usura, tributi anticipati su un reddito ipotetico e contributi previdenziali dovuti anche in caso di reddito negativo; libertà di svolgere un’attività di lavoro dipendente la cui remunerazione non permette di disporre di una casa e di provvedere al proprio sostentamento, non permette cioè di essere autosufficienti).

Sulla cresta dell'onda

 PALCO D’ONORE
    ISAIAH BERLIN    stella4stella4

CONCETTI IN PILLOLE                                                                            
pillola   n. 23 –  IL VALORE DELLA LIBERTA’
                           Il Valore della Libertà                                          

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Domenica 14 giugno 1309

14 Giugno 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

Knight by Chateau Langeais

SI ABBASSI IL PONTE LEVATOIO!

Oggi è festa nel Villaggio di Ofelon!

A quattro mesi dalla fondazione del Villaggio di Ofelon
oltre ventiduemila “viandanti telematici”
hanno visitato il Villaggio.
vi aspettiamo tutti con piena cittadinanza, muniti del vostro avatar,
per ampliare sempre di più la nostra tavola rotonda
in cui vogliamo confrontarci su temi importanti,
ma sempre divertendoci insieme
e fino a raggiungere risultati concreti
per un effettivo, diffuso e percepito miglioramento
della qualità della nostra vita.

Ofelon per tutti
e tutti per Ofelon!

logo_ofelon_60_colore

 

3.b.2 – Di quali libertà abbiamo veramente bisogno?

15 Giugno 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

ostacoloDi quali libertà abbiamo veramente bisogno?

Essere liberi di fare ciò che non ci interessa o che non vogliamo non è certo una grande fortuna, sarebbe una libertà di nessun valore; il valore della libertà dipende allora da ciò che essa ci permette di fare, dall’importanza dell’attività che ci consente di svolgere. In base a questo criterio è sufficiente chiedersi quali sono le attività più importanti per avere le risposte che cerchiamo.
La nostra natura animale ci impone delle necessità da soddisfare; in particolare quella di muoversi è profondamente radicata nella nostra natura, è una necessità sia fisica che psicologica e non possiamo farne a meno; da sempre la prigionia è usata come punizione per i criminali, gente spesso dura e abituata a tutto, ma essere rinchiusi a lungo è difficile da sopportare anche per loro. Se impediamo poi a qualcuno di soddisfare esigenze ancora più fondamentali come nutrirsi, bere, dormire e riscaldarsi, entriamo nel campo della tortura.
La nostra innata socialità ci induce inoltre ad avere dei contatti con i nostri simili, è un’esigenza psicologica importante e non deve quindi sorprendere che l’isolamento sia una delle punizioni aggiuntive alla prigionia più comuni, oppure uno dei sacrifici che i religiosi come gli eremiti impongono a sé stessi, a fianco del digiuno e dell’astinenza sessuale, per mettere alla prova ed esercitare la propria forza di volontà.
Strettamente legate alle necessità fondamentali sopra citate sono quelle economiche e sociali in genere: avere una casa, poter mantenere una famiglia, quindi avere un lavoro, poter educare i propri figli ( e quindi avere del tempo da dedicare loro), avere almeno la speranza di poter scalare qualche gradino della gerarchia sociale di cui si fa parte, quindi prospettive di carriera e prestigio sociale. Avere la libertà di soddisfare almeno queste esigenze vuol dire avere la possibilità di poter vivere in modo dignitoso e di potersi sentire giustamente realizzati.
È facile tuttavia controllare su qualunque libro di storia che, in periodi diversi, tutte le libertà associate alle suddette esigenze sono state negate: talvolta in seguito all’imposizione di varie forme di schiavitù da parte di una popolazione su un’altra, talaltra a causa di tradizioni culturali molto forti anche a livello familiare, come il maschilismo e il conseguente asservimento delle donne.
Volendo studiare come tutelare al meglio il valore della libertà, è da qui che dobbiamo partire: quali sono le libertà fondamentali e quali sono i pericoli che oggi possono minacciarle.

Sulla cresta dell'onda

PALCO D’ONORE
    NELSON MANDELA   stella4stella4stella4stella4
     

CONCETTI IN PILLOLE                                                                            
pillola   n. 24 –  LA VERA LIBERTA’                                                        La Vera Libertà 
                                  

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3.b.3 – Il rispetto degli altri è in contrasto con la propria libertà?

16 Giugno 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

rispettoIl rispetto degli altri è in contrasto con la propria libertà?

All’interno dell’affollata società umana le regole e le usanze legate alla convivenza sono viste come dei limiti alla libertà individuale; si dice che la nostra libertà finisce dove inizia quella degli altri e in questo antico detto troviamo due profonde verità: la prima è che il rispetto delle esigenze degli altri impone dei limiti al nostro agire; la seconda è che le regole del vivere sociale, del buon costume, tendono a volte ad essere opprimenti.
Esaminiamo però con attenzione se la comunità presenta solo aspetti negativi rispetto alle nostre libertà individuali: sappiamo che il gruppo è una delle nostre principali strategie per la sopravvivenza, da sempre le nostre attività fondamentali come nutrirsi, vestirsi e lavorare sono svolte grazie alla collaborazione diretta o indiretta dei nostri simili, grazie alla comunità oggi possiamo inoltre disporre di case con acqua corrente, servizi igienici e luce elettrica, possiamo comunicare mediante telefoni e computer, possiamo spostarci con treni ed aerei, ecc.. Quante cose non potremmo fare vivendo da soli? Di quanto diminuirebbe la nostra libertà di azione? Se dunque da un lato la società ci impone di inibire un certo numero di comportamenti asociali, dall’altro ci permette di fare un enorme numero di cose importantissime o altrimenti impossibili e il bilancio risulta nettamente positivo. Rispettare gli altri inoltre vuol dire anche rispettare la loro sfera di libertà e quindi, in condizioni di reciprocità, impone di preservare anche la nostra.
Non è pertanto corretto vedere il rispetto per il prossimo come un limite alla propria libertà poiché, sebbene sia vero che ci pone dei limiti, ci permette di superarne tanti altri essendo uno dei valori più importanti legati alla comunità; senza di esso la convivenza sarebbe impossibile e perderemmo tutte quelle libertà che la società ci consente. Il rispetto dunque, oltre ad essere un valore sociale e come tale legato al valore della vita, può essere visto anche come un sostegno al valore della libertà.
È importante sottolineare che ha un senso porci dei limiti in nome del rispetto altrui solo nei casi in cui il nostro agire comporta disagio, fastidio o danno agli altri; una cosa è sopprimere la libertà di azione, un’altra è limitarla in casi particolari e per giunta con un buon motivo.
È doveroso ammettere però che solo una parte delle regole del vivere sociale sono finalizzate al rispetto del prossimo, molte perseguono altri scopi e possono diventare un peso difficile da sopportare; è opportuno quindi non confondere il rispetto verso gli altri con il rispetto verso un’autorità; ubbidire agli ordini del capoufficio non aiuta certo a tutelare la nostra sfera di libertà anche nei casi in cui è giusto farlo. Il significato originale di rispetto è quello di avere riguardo, tenere in considerazione; rispettare gli altri implica dunque avere riguardo per loro, tenere in considerazione le loro necessità; rispettare un ordine o una legge significa certo tenerli in considerazione, ma in buona sostanza vuol dire ubbidire e basta. Chiaramente questa seconda forma di rispetto può essere utilizzata anche per supportare delle imposizioni che vanno contro ogni libertà. Vi è dunque una sostanziale differenza fra rispetto delle regole e rispetto del prossimo, e questo ci porta a riesaminare meglio il valore della legalità.

Sulla cresta dell'onda

PALCO D’ONORE
 de1  IMMANUEL KANT   stella4stella4stella4stella4

CONCETTI IN PILLOLE                                                                            
pillola   n. 25 –  RISPETTO E LIBERTA’                                                         Rispetto e Libertà 
                                           

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3.b.4 – La legalità è un valore?

17 Giugno 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

legalitàLa legalità è un valore?

Per legalità si intende il rispetto delle leggi e le leggi sono l’espressione di un’autorità, ma sono anche delle norme con la funzione di regolare la vita civile, una forma istituzionale delle regole di convivenza. Quando le leggi assolvono a questa funzione, esse rappresentano un sostegno più che un limite alla libertà: permettono la convivenza e con essa garantiscono una libertà di azione altrimenti impossibile; impongono il rispetto reciproco a cominciare dal rispetto della libertà di ciascuno.
Purtroppo però non sempre le leggi hanno la suddetta funzione; la storia ci documenta come molte di esse siano nate per sostenere un regime autoritario e tutelare gli interessi di una classe dominante, ecco come mai alla legge spesso vengono associati i concetti di angheria, sopraffazione ed ingiustizia. Non vi sono dubbi che le leggi possono avere un ruolo negativo, ma allo stesso tempo non si può negare che assolvono anche delle funzioni positive; è possibile allora distinguere le leggi buone da quelle cattive? Spesso sì, e sembrerebbe anche piuttosto facile, in quanto basta vedere se sono coerenti con i nostri valori: la vita, la famiglia, la comunità, il benessere e, ovviamente, la libertà e il rispetto reciproco. In realtà, tale capacità di giudizio presuppone che si abbiano ben chiari i concetti dei suddetti valori e che si abbia un grado di cultura e una possibilità di informazione da poter ben interpretare i veri fini che la legge persegue, a volte camuffati dalla propaganda proprio dietro l’ostentata tutela dei suddetti valori; si tratta quindi di un compito a volte decisamente difficile, sebbene indispensabile per difendere la propria libertà.
Tutti sanno che la bontà delle leggi dipende da chi le fa, quindi in generale il valore della legalità dipende dal tipo di regime politico, dalla forma di governo vigente; i valori che le leggi esprimono sono infatti quelli della classe politica al potere. È bene allora sapere in quali mani si trova effettivamente il potere politico, capire su quali valori realmente si basa il governo da cui dipendiamo e analizzare le alternative possibili.
La legalità è pertanto un valore attuale, ma solo nella misura in cui effettivamente sostiene la comunità e tutela le nostre libertà, nella misura in cui impedisce disordini, prepotenze e ingiustizie, le quali, è bene notarlo, alla lunga portano a regimi autoritari incoraggiando l’avvento di leggi dure e severe per ristabilire l’ordine.
In altre parole rispettare le autorità della nostra società è giusto e doveroso, purché tali autorità se lo meritino e ciò dipende proprio da come esse rispettano i nostri valori, a cominciare dalla nostra libertà.

Sulla cresta dell'onda

PALCO D’ONORE
  CESARE BECCARIA  stella4stella4

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3.b.5 – Cosa si oppone alla libertà di pensiero?

18 Giugno 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

gabbiaCosa si oppone alla libertà di pensiero?

La storia ci insegna che le principali forme di oppressione e asservimento hanno avuto origine da regimi politici autoritari (dagli imperi dell’antichità alle recentissime dittature naziste e comuniste) o da tradizioni culturali dispotiche come il maschilismo e il razzismo; l’esperienza ci dimostra che l’evoluzione culturale può prendere una direzione illiberale e tirannica e ciò è indubbiamente una delle strategie di sopravvivenza delle complesse società umane con il fine di proteggere la propria stabilità.
Razzismo e maschilismo, fascismo e comunismo, imperialismo e assolutismo sono tutti prodotti dell’evoluzione culturale; di nuovo dunque si presenta l’esigenza di poterla controllare e dirigere affinché tale evoluzione non risulti contraria ai nostri interessi, ma oggi come in passato essa è invece quasi del tutto abbandonata a sé stessa.
Dirigere l’evoluzione vuol dire usarla per un progresso stabile dell’essere umano, per risolvere i problemi che ci affliggono senza produrne altri; l’adattamento è il motore dell’evoluzione e, come abbiamo già visto, esso è reso possibile dalla varietà dei tratti individuali: tanto maggiore è questa ricchezza di alternative, tanto maggiore è la probabilità che ve ne sia almeno una vantaggiosa nella nuova situazione. Nel caso di adattamento culturale la nostra ricchezza è data dall’abbondanza di idee alternative, nonché dalla libertà di utilizzarle e sperimentarle; in questo contesto l’uniformità è pertanto un grave difetto.
Non possiamo però nasconderci il fatto che anche la tendenza all’uniformità fa parte della natura umana e quindi, se essa è stata privilegiata dalla selezione naturale, deve avere anche una funzione positiva. Nella storia delle società umane troviamo sempre due atteggiamenti opposti: da una parte la conservazione delle antiche tradizioni culturali e l’uniformarsi ad esse; dall’altra la ricerca di innovazione e cambiamento. Da un punto di vista biologico entrambi gli atteggiamenti presentano dei vantaggi: la protezione del patrimonio culturale è un atteggiamento analogo alla protezione del patrimonio genetico dalle malattie genetiche, la quale è necessaria per preservare dalle mutazioni, che spesso sono dannose, i risultati tanto faticosamente raggiunti dalla selezione naturale; le mutazioni però non possono essere eliminate del tutto poiché senza di esse non sono possibili ulteriori adattamenti e la specie prima o poi sarebbe condannata all’estinzione; la ricerca di innovazione risponde appunto a questa seconda esigenza. Siamo di fronte a due necessità diametralmente opposte e, dato che per soddisfare l’una bisogna togliere qualcosa all’altra, si forma nella nostra società una sorta di braccio di ferro fra tradizione e innovazione in cui nessuna delle due prevale mai completamente sull’altra; in questo modo si raggiunge un punto di equilibrio molto instabile che può essere vicino a una delle due posizioni estreme possibili: perfetta fedeltà alla tradizione e rifiuto di ogni tradizione; esattamente come nel caso genetico nessuna delle due è compatibile con la sopravvivenza della società.
La comunità umana è stata rappresentata dal modello tribale per molte decine di migliaia di anni, un ambiente culturalmente molto più stabile di quello attuale in cui era necessaria una minore capacità di adattamento. In questa situazione per il gruppo era vantaggioso che il punto di equilibrio fra tradizione e innovazione fosse piuttosto vicino alla totale fedeltà alla tradizione, sebbene fosse cosa poco rispettosa verso la libertà individuale. Questo spiega la naturale inclinazione a rendere sacre e indiscutibili le proprie tradizioni culturali, nonché il fatto che l’antica cultura basata sul clan familiare fosse molto dura, severa e limitativa della libertà personale: non solo vi erano molte restrizioni, ma anche molti obblighi disciplinati con complessi rituali.
Sappiamo inoltre che la nostra mente rifiuta di rivedere i propri schemi se non vi è costretta da gravi necessità in base al principio che abbiamo chiamato economia mentale; questa forma di naturale oscurantismo, se applicata a schemi ereditati culturalmente, si presta a servire la causa del tradizionalismo ed è plausibile che tale vantaggio abbia rafforzato la sua selezione anche dal punto di vista genetico durante l’evoluzione della nostra specie che, è bene ricordarlo, si è sviluppata per decine di migliaia di anni in un ambiente tribale.
Possiamo concludere che la natura e la cultura umana hanno sviluppato delle naturali difese contro il cambiamento che sono:
• l’attaccamento alle tradizioni nell’età adulta che può arrivare ad essere una vera paura nei confronti delle novità;
• l’oscurantismo, ovvero il rifiuto di verità evidenti pur di conservare i vecchi schemi mentali;
• il dogmatismo, cioè rendere indiscutibili alcune credenze ritenute particolarmente importanti;
• l’intolleranza, che è l’ostilità verso chi non rispetta la regola dell’uniformità verso le tradizioni del gruppo;
• la produzione di severe leggi a sostegno della naturale intolleranza della società.
Il mondo tribale è però ormai tramontato e ciò che prima era oppressivo ed ingiusto per l’individuo, ma vantaggioso per la comunità, ora porta solo problemi a tutti i livelli; dato che i rapidi cambiamenti del mondo attuale impongono oggi una maggiore adattabilità, il punto di equilibrio fra tradizione ed innovazione si deve necessariamente e sensibilmente spostare verso l’innovazione. Tale spostamento è già in atto, nella nostra cultura sono infatti comparsi nuovi valori come la tolleranza, il pluralismo (inteso come rispetto e valorizzazione di una pluralità di idee), nonché la libertà di pensiero e di opinione, che non solo permettono al cittadino una maggiore libertà di azione, ma favoriscono una maggiore varietà e diffusione di nuove idee, premessa fondamentale per l’innovazione.
Ribadiamo infine che il processo di innovazione, se abbandonato a se stesso, porta all’evoluzione culturale e non al progresso; l’evoluzione può però essere sia positiva che negativa. Innovazione e progresso sono cose diverse: le nuove tecnologie nel campo delle comunicazioni permettono ad esempio un maggiore scambio e condivisione di informazioni con un effetto moltiplicativo delle conoscenze, ma un bombardamento indiscriminato di informazioni inutili, commerciali, eccessive, inesatte, parziali, alterate, ecc., ingenera tensioni e malesseri sociali.
La stessa innovazione quindi può essere buona o cattiva a seconda che venga inserita bene o male nella società; spetta a noi fare le scelte giuste per costruire in modo consapevole il nostro futuro ricordando che l’innovazione è una premessa necessaria, ma non sufficiente al progresso.

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libro1  APPROFONDIMENTI
ASSOLUTISMO,  COMUNISMOFASCISMO,  IMPERIALISMO,  TIRANNO

IL CASO CELEBRE
de1  MARTIN LUTHER

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3.b.6 – I dogmi sono utili?

19 Giugno 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

I dogmi sono utili?

Avere libertà di pensiero e di opinione di norma vuol dire non subire penalizzazioni a causa delle proprie idee da parte delle autorità oppure da parte dei propri concittadini; abbiamo già visto però che non sono solo questi gli ostacoli che dobbiamo superare, ve ne sono altri meno evidenti, quindi ancora più insidiosi, legati alla nostra natura e alla nostra tradizione culturale; pertanto non dobbiamo difenderci solo dagli altri esseri umani, ma dalla nostra educazione in parte dogmatica e dai nostri stessi istinti, creati entrambi per un ambiente che non esiste più.
I nostri simili, per quanto prepotenti siano, non sono in grado di leggere nel pensiero e se noi teniamo segrete le nostre opinioni non possono impedirci di pensarle; molte tradizioni culturali, non solo religiose, sono invece in grado di educarci fin da bambini a non pensare, a rifiutare contro ogni logica idee alternative, a vedere in ogni innovatore un sovversivo; sono in grado di fare questo facendo leva sulle nostre naturali inclinazioni verso l’oscurantismo e l’intolleranza. Queste forme culturali sono i nemici naturali della nostra libertà in ogni senso e sono quelli che agiscono più in profondità, direttamente sulla nostra capacità di pensare. È necessario un adattamento culturale che ci protegga da questi fenomeni, attraverso il rifiuto di ogni dogma o verità indiscutibile; una verità autentica può essere messa in discussione quanto si vuole, ma alla fine risulterà sempre vera; quindi solo ciò che è falso ha la necessità di essere protetto come dogma. Si potrebbe avere il timore che il rifiuto dei dogmi possa comportare una mancanza di certezze assolute e quindi un senso di smarrimento e di insicurezza, ma l’esperienza ci dice che di fatto non accade, le certezze assolute sono infatti quelle su cui non si hanno dubbi non quelle indiscutibili (nel senso che è proibito discuterne) e quindi i dogmi non servono a dare sicurezza, ma a proteggere una tradizione; si ricordi poi che quando cade una nostra ferma convinzione, in breve tempo la nostra mente la sostituisce con un’altra secondo la sua natura; si tratta di una necessità psicologica che facilmente viene soddisfatta e pertanto non vi sono pericoli per la nostra psiche, ma solo per le nostre idee antiquate.
Pur ammettendo che, al tempo della vita tribale, rendere immorale discutere certe credenze serviva a rafforzare la stabilità di una cultura in un mondo altrettanto stabile, bisogna prendere coscienza che oggi i tempi sono cambiati e che questo modo di fare non è solo inutile, ma altamente dannoso.

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libro  APPROFONDIMENTI
DOGMA

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  WILLIAM KINGDON CLIFFORD  stella4

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3.b.7 – Cosa lega la libertà di espressione a quella di opinione?

20 Giugno 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

Cosa lega la libertà di espressione a quella di opinione?

La cultura tradizionalista, illiberale ed intollerante, produce ovviamente comportamenti restrittivi e punitivi che sviluppano il timore di subire discriminazioni o rappresaglie a causa delle nostre opinioni; ciò rappresenta un grande limite sia per la libertà di pensiero, sia per quella di espressione.
Sappiamo bene tutti che è una cosa naturale esprimere le proprie opinioni davanti ad amici e conoscenti, lo è al punto che se volessimo tenerle nascoste ci riuscirebbe assai difficile. Possiamo dire che confidare le proprie idee è un’ennesima necessità psicologica, quasi scontata in animali sociali e culturali quali noi siamo, ma c’è di più: se anche non dichiariamo apertamente il nostro pensiero, esso traspare dal nostro comportamento quotidiano, dalle espressioni del viso e da piccoli gesti involontari, tutti segnali che i nostri simili con estrema facilità sono in grado di interpretare per poi giudicarci di conseguenza.
La nostra tendenza alla comunicazione ci espone dunque a rappresaglie dettate dall’intolleranza e rende difficile separare la libertà di pensiero da quella di espressione; infatti è ovvio che se qualcuno subisce delle discriminazioni o punizioni per le sue opinioni è perché in qualche modo le ha espresse, magari involontariamente; viceversa se qualcuno vuole soffocare la libertà di espressione è perché vuole evitare che certe idee si diffondano. Pertanto, per una autentica libertà di opinione è necessaria anche la libertà di espressione ed infatti in campo giuridico vengono tutelate insieme come fossero una cosa sola.
Non dobbiamo però pensare che la libertà di espressione vada tutelata solo per proteggere quella di opinione: comunicare è una profonda esigenza dell’essere umano, la nostra capacità di socializzare dipende da quella di parlare; quindi esprimersi liberamente è importantissimo anche quando non si discute di opinioni politiche, religiose, filosofiche o di altri argomenti spesso oggetto di censura.
Per completezza dobbiamo ricordare che la libertà di espressione non è sufficiente da sola a tutelare la libertà di opinione, la quale può essere attaccata da un’ educazione oscurantista ed intollerante o dalle moderne forme di plagio mentale a prescindere dalla libertà di esprimersi.

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libro  APPROFONDIMENTI
PLAGIO

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it1  SILVIO PELLICO  stella4stella4

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3.b.8 – La religione è una minaccia oppure un bene da tutelare?

21 Giugno 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

La religione è una minaccia oppure un bene da tutelare?

Da quanto detto sopra si potrebbe pensare che le religioni siano un pericolo costante per la libertà in quanto per loro natura sono tradizionaliste, portatrici di dottrine autoritarie e dogmatiche, ostili a ogni forma di libertà a cominciare proprio da quella di religione e capaci di toglierci la capacità di pensare liberamente sin da bambini; si potrebbe pertanto ritenere che andrebbero eliminate sia in nome della libertà che del progresso.
Esaminiamo con calma qual è la vera natura delle religioni: esse sono veramente tradizionaliste? Questa è forse la loro caratteristica principale poiché esse sono uno strumento per tramandare gli assi portanti della cultura di un popolo alle generazioni successive, in particolare i valori, i modelli di comportamento, i rituali e la filosofia (intesa come mappa mentale collettiva). Sono per natura portatrici di dottrine autoritarie e dogmatiche? Solo se devono tramandare una cultura altrettanto autoritaria e dogmatica, come quella europea derivata da quella dell’Impero Romano e delle popolazioni barbare. Il confronto con altre culture ci può aiutare a capire questo concetto: in Asia, ad esempio, è possibile per un singolo individuo essere sia buddista che taoista, ovvero seguire due religioni differenti allo stesso tempo, cosa impensabile in occidente anche per i laici; eppure si tratta pur sempre di religioni, i loro rituali e l’atteggiamento devoto dei loro seguaci non lasciano dubbi. Molte delle caratteristiche normalmente attribuite a tutte le religioni sono in realtà peculiari solo della nostra particolare religione e della nostra cultura; se dunque provenissimo da secoli di tolleranza, libertà e cultura dell’innovazione anche la nostra dottrina religiosa avrebbe queste caratteristiche.
Come abbiamo detto in tutte le culture vi è sia un lato tradizionalista che uno innovativo e in genere il primo è dominante; lo stesso vale per le religioni le quali, avendo il compito di conservare le tradizioni, lasciano ancor meno spazio all’innovazione; tuttavia è accertato che anch’esse evolvono insieme al retaggio culturale che tramandano.
Tutte le fedi religiose hanno infatti due componenti fondamentali, una molto intima detta credo personale o percorso di fede e l’altra collettiva costituita dalla dottrina ufficiale, dal sistema di credenze collettivo e dalle tradizioni in genere; alla seconda parte è affidata chiaramente la tradizione, ma alla prima è riservato un minimo di interpretazione e adattamento al contesto in cui si vive; è infatti risaputo che ognuno tende ad aggiustarsi i precetti religiosi a modo suo. Quando dei nuovi valori si inseriscono nel credo personale e si diffondono nella popolazione, essi finiscono per essere accettati dalla dottrina ufficiale per quanto contraddittori possano essere con i precedenti; a volte questo processo può richiedere dei secoli, ma a volte basta una generazione, dipende dalla spinta innovativa presente nella popolazione.
Si può pertanto affermare che le religioni non producono intolleranza, violenza ed oscurantismo, ma le tramandano come ogni altra caratteristica culturale, positiva o negativa che sia. Eliminare le religioni non è dunque necessario; una volta inseriti nel credo individuale i nuovi valori di tolleranza, pluralismo, libertà, adattamento, innovazione ecc., questi diffondendosi entreranno prima o poi nella tradizione collettiva e quindi nella dottrina religiosa. Nel nostro mondo in rapida evoluzione, anche le religioni per sopravvivere devono spostare il loro punto di equilibrio il più possibile verso l’innovazione e ciò significa dare maggiore spazio al credo personale, cosa che in occidente sta già accadendo anche contro l’opinione delle autorità religiose; queste vedono infatti diminuire il loro ascendente sulla popolazione che sta sviluppando una nuova tradizione religiosa tutta sua. Se quindi le antiche religioni europee non riusciranno a stare al passo con i tempi, si estingueranno e saranno soppiantate da nuove forme di culto.
Si è spiegato perché non è necessario cercare di eliminare le religioni, ma possiamo anche affermare che è assurdo provarci: per secoli in Europa la religione ha condannato il piacere sessuale e ha cercato di reprimere la sessualità umana in ogni modo come se fosse una cattiva usanza, una moda da cancellare, ma non vi è riuscita, come mai? Perché è impossibile, è decisamente contro natura, la sessualità è profondamente radicata nella nostra natura biologica, non può essere separata dall’essere umano, è come combattere contro i mulini a vento, non si può vincere questa battaglia.
Paradossalmente, lo stesso vale per le religioni; l’uomo è per sua natura religioso, è un animale culturale che deve trasmettere il suo sistema di credenze e lo strumento che la natura gli ha dato per farlo è il credo religioso. Le religioni si possono modificare, sostituire, ma non eliminare; alcuni, durante la grande spinta innovativa dell’inizio dell’era industriale, ci hanno provato, ma essi stessi hanno presto iniziato ad assumere atteggiamenti religiosi nei confronti del loro sistema di credenze, specialmente in ambito politico e filosofico.
Un uomo senza religione dunque ne produce spontaneamente una nuova su misura per lui e cercherà di diffonderla; è chiaramente un’esigenza psicologica profondamente radicata nella nostra natura e questo spiega come mai dopo secoli di razionalismo, ateismo, cultura laica e scientifica, non solo le vecchie religioni non sono scomparse, ma ne sono comparse di nuove e con notevole successo.
Come l’evoluzione culturale, le religioni possono nel tempo prendere una direzione positiva o negativa, spetta a noi guidarle inserendovi i nostri nuovi valori e dimenticando i vecchi oppressivi atteggiamenti, il resto verrà da sé.
Con le religioni bisogna dunque conviverci e nel mondo sempre più globalizzato bisogna imparare a farlo anche con quelle degli altri; in questo nuovo contesto la libertà di culto assume una nuova importanza: un tempo non era possibile scegliere a quale fede aderire e questa era una delle offese più evidenti alla libertà di pensiero; dato che un pensiero libero implica un credo libero, la libertà di culto nasce come naturale conseguenza della libertà di pensiero e della libertà di espressione che, come sappiamo, non possono essere separate; ecco allora che la libertà di religione include anche quella di professare liberamente la propria fede.
È importante ora osservare che la libertà di espressione non può implicare la libertà di oltraggio e ciò in quanto ogni libertà di azione deve sempre rimanere nei limiti del rispetto reciproco; coerentemente anche la pratica religiosa deve rimanere libera entro i limiti stabiliti dalla legge, non si può giustificare un’azione illegale invocando la libertà di culto e la repressione legale di tale azione non è discriminazione religiosa.
Nel mondo attuale, dove popoli con fedi diverse e un tempo distanti ora convivono uno accanto all’altro, la libertà di culto è diventata anche una necessità per la convivenza ed offre nuove possibilità di scelta fra nuove idee, nuovi modelli di comportamento, nuovi valori e tradizioni, quindi maggiore libertà in generale e nuove prospettive di progresso.
Possiamo allora concludere dicendo che oggi la libertà di religione è un valore molto importante e che le religioni del futuro, se arricchite dei valori anzidetti, potranno essere uno strumento al servizio della tolleranza, della libertà e del progresso, ma ancora una volta dipenderà solo da noi.

Sulla cresta dell'onda

libro1  APPROFONDIMENTI
ATEISMOBUDDHISMO,  LAICISMO,  OSCURANTISMORAZIONALISMO, RELIGIONETAOISMO

IL CASO CELEBRE
TENZIN GYATSO

 

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3.b.9 – La capacità di pensare liberamente è ancora in pericolo nel mondo moderno?

22 Giugno 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

La capacità di pensare liberamente è ancora in pericolo nel mondo moderno?

Nel mondo industrializzato il pensiero liberale ha riportato grandi vittorie sulle antiche tradizioni, ma anche grandi sconfitte con l’affermarsi delle grandi dittature del XX secolo; la tutela giuridica della libertà di pensiero è tuttavia oggi affermata con un’intensità e una diffusione geografica mai viste prima e ciò ci induce a ritenere che non ci siano più particolari ostacoli a tale libertà. Abbiamo però visto come la libertà legale, se non accompagnata da un’effettiva capacità, sia solo una falsa libertà; abbiamo anche esaminato come la libertà di pensare, intesa come facoltà intellettiva, possa essere fortemente limitata dall’ambiente culturale in cui si vive e le tradizioni oscurantiste, antiche e recenti, religiose e politiche, non sono ancora del tutto scomparse e altre nuove possono svilupparsi; abbiamo infatti appurato che l’oscurantismo è un prodotto culturale delle naturali inclinazioni umane, esso si innesta su degli innati meccanismi di difesa e quindi può sempre tornare a diffondersi con nuove forme, soprattutto se ci si trova in situazioni di instabilità sociale che stimolino tali meccanismi.
Vi sono inoltre nuovi e insidiosi pericoli in agguato: i progressi della psicologia, stimolati da esigenze commerciali ed aziendali, hanno prodotto tecniche di persuasione di grande efficacia, tanto da essere vere forme di controllo e manipolazione della mente.
Da decenni ormai la psicologia è usata con successo sia nelle varie forme di pubblicità commerciale che di propaganda politica, ma le nuove tecniche sono molto più pericolose e il successo delle tristemente note società di vendita piramidale o multilivello non lascia dubbi su questo punto.
Questi espedienti psicologici sono strumenti studiati per condizionare le nostre scelte, essi consentono, dosando in modo sapiente verità e menzogna di guidare i ragionamenti attraverso il dialogo o le immagini, sfruttando la nostra naturale attitudine all’immedesimazione in un racconto, a seguire un ragionamento che ci viene presentato e a rimanerne suggestionati; il tutto avviene spontaneamente da parte del nostro inconscio ed è pertanto impossibile, da parte nostra, accorgerci di quanto sta avvenendo. Per dare un’idea della potenza di questi nuovi strumenti, ne citiamo due caratteristiche:
• anche le poche persone che, in un secondo momento, comprendono da sole di essere state manipolate, in situazioni analoghe rimangono di nuovo vittime di tali raggiri tanto risulta difficile resistervi, essendo basati su reazioni istintive;
• spesso anche il manipolatore diretto, quello con cui stiamo parlando, è inconsapevole di quello che in realtà sta facendo; per primo infatti è stato sottoposto ad un corso di formazione basato su queste tecniche, è stato convinto che sta facendo del bene ai propri clienti e quindi agisce con perfetta naturalezza, applicando senza saperlo le tecniche di manipolazione come se fosse sotto ipnosi.
Risulta ovvio che non possiamo dirci liberi se non lo sono le nostre scelte. Non conosciamo la prossima frontiera della persuasione umana, ma sappiamo che vengono investiti ingenti capitali per mettere a punto tecniche sempre più efficaci, tecniche con cui condizionare i nostri comportamenti trasformandoci sempre di più in perfetti burattini.
E’ importante notare che queste tecniche di plagio mentale, a differenza dei tradizionali condizionamenti sociali, non si basano su lunghi periodi di educazione rivolti ai bambini, non sfruttano sentimenti di oscurantismo o intolleranza e non sono un semplice prodotto della cieca evoluzione culturale; sono il risultato di studi scientifici pienamente consapevoli, sono come armi sofisticate a disposizione di chiunque le sappia usare.
Lo sviluppo di adeguate difese da queste armi è un problema di immediata urgenza, da affrontare partendo ovviamente da uno studio approfondito, poiché il cittadino comune è attualmente del tutto indifeso.
La facoltà e la libertà di pensiero sono alla base della libertà di azione che è fondamentale per realizzarsi e per apprezzare la vita, esse vanno difese strenuamente, ma per farlo bisogna essere consapevoli che oggi, a causa dell’influenza dei mass media e delle moderne armi psicologiche, risultano più in pericolo che mai, a dispetto di tutte le vittorie sui loro vecchi nemici.
Inoltre nel mondo moderno la libertà di pensiero in tutte le sue forme è poi ancora più preziosa che in passato poiché rappresenta la necessaria premessa all’adattamento culturale di cui c’è tanto bisogno.

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3.b.10 – E’ vero che l’unione fa la forza?

23 Giugno 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

È vero che l’unione fa la forza?

Tra le esigenze fondamentali dell’uomo vi è quella di socializzare, di formare un gruppo, per il nostro benessere sia materiale che psicologico; ne segue che fra le libertà più importanti vi è quella di associazione, intesa anche come la possibilità di formare dei sottogruppi all’interno della società. Si tratta di una libertà molto temuta dalle autorità politiche, poiché associandosi la popolazione dominata si può organizzare e pianificare una ribellione; non a caso un antico detto dice “dividi e governa”, si tratta di un principio ben noto ed applicato in tutte le epoche; come ultima conferma ricordiamo che un tempo era proibito formare o aderire a dei sindacati di lavoratori oppure a determinati partiti politici.
A questo punto è opportuno far presente una caratteristica della libera associazione: essa nasce per soddisfare delle esigenze dei suoi membri, quindi questi si aspettano dei vantaggi da essa; il gruppo è una strategia per vivere meglio, se viene meno questo interesse è opportuno scioglierlo. Una logica conseguenza di questo principio è che tutti devono ricevere dei vantaggi dall’adesione al gruppo; se qualcuno appartiene a una comunità, ma viene danneggiato da essa senza trarne alcun beneficio, non dovrà più essere chiamato membro della comunità, ma vittima della stessa. Ciascuno dunque deve avere il diritto di formare o scegliere l’associazione che più gli fa comodo ed è molto importante che abbia la possibilità di andarsene se non conviene più rimanere; affinché il gruppo non diventi una prigione e si evitino soprusi al suo interno è necessario dunque includere nella libertà di associazione anche quella di dissociazione.
L’associazione sfrutta il principio che l’unione fa la forza, grazie al quale apre nuove possibilità di azione e quindi di libertà: in particolare vanno ricordate le imprese commerciali, le associazioni per la tutela dei lavoratori e quelle dei consumatori, le quali consentono di produrre benessere e di tutelarlo, producendo posti di lavoro, rendendo il lavoro più vivibile e proteggendo le famiglie e i loro risparmi da prodotti e servizi truffaldini.
Le attività fondamentali come mangiare, bere, proteggersi dalle intemperie e dalle malattie sono svolte non in modo individuale, ma grazie alla collaborazione di un grande numero di persone e lo stesso si può dunque dire della tutela di alcuni valori fondamentali come la famiglia e il lavoro; l’associazione allora è un valore certamente legato a quello della vita ma, consentendo attività altrimenti impossibili e facilitandone tante altre, è strettamente legata anche al valore della libertà; inoltre è il caso di ricordare che la difesa dei propri diritti e quindi delle proprie libertà, essendo anch’essa un’attività spesso svolta in modo collettivo, richiede un certo grado di associazione.

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3.b.11 – Si può parlare di libertà di istruzione?

24 Giugno 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

Si può parlare di libertà di istruzione?

La cultura, come sappiamo, è una delle risorse fondamentali dell’essere umano, anche considerando un singolo individuo. Una delle parti fondamentali della nostra cultura è quella data dalle istituzioni scolastiche e che viene detta comunemente istruzione; avere la possibilità di accesso a scuole, licei, università e a tutte le possibili fonti di istruzione è in effetti una libertà molto importante, ritenuta solo un sogno irrealizzabile fino a pochi decenni fa. La libertà di accesso all’istruzione da sola però non basta; essa risulta infatti vanificata in caso di scuole inefficienti, che preparano male i nostri ragazzi o che addirittura forniscono loro una cattiva educazione; peggio ancora se non sono in grado di tutelarli da forme di bullismo e dal contatto con vari tipi di sostanze stupefacenti; un primo nemico della libertà di istruzione è dunque dato dalla pessima qualità delle scuole.
Un secondo pericolo viene dall’introduzione del numero chiuso nelle università pubbliche, nate proprio per garantire a tutti una possibilità di istruzione elevata; indubbiamente nel tempo la popolazione degli studenti è aumentata a dismisura, ma come può essere considerata una soluzione accettabile limitarne l’accesso? Se aumentassero i malati faremmo nuovi ospedali od ospedali a numero chiuso? Perché si possono costruire nuovi ospedali, ma non nuove università? Aggiungiamo inoltre che tali università non sono affatto gratuite e l’aumento delle rette è certo un altro ostacolo all’accesso.
Per esempio oggi in Italia abbiamo indubbiamente un accesso all’istruzione molto superiore rispetto a quello di cento anni fa, ma rispetto a 25 anni fa vi è stato chiaramente un regresso, sia per un calo della qualità del servizio offerto, sia per un aumento dei costi, sia per l’introduzione del numero chiuso. La libertà di accesso alla cultura è dunque un bene da tutelare perché sta attraversando oggettivamente un periodo molto difficile che può causare gravi danni. La limitazione dell’istruzione non è infatti solo una preclusione per il singolo, ma rappresenta una grave minaccia per la collettività che non potrà valorizzare a pieno le proprie risorse umane; oggi, in piena emergenza adattativa, un tale spreco proprio non possiamo permettercelo.

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3.b.12 – Cosa lega democrazia e libertà?

25 Giugno 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

Cosa lega democrazia e libertà?

Quando la democrazia venne introdotta per la prima volta in Grecia nel VI secolo a.C. essa aveva chiaramente lo scopo di togliere potere politico alla classe dominante dell’epoca. Una situazione simile si formò in Francia al tempo della Grande Rivoluzione, vi era una classe dominante di ricchi proprietari terrieri (gli aristocratici) ed una nuova classe emergente (gli industriali) sempre più insofferente del predominio aristocratico. Nelle colonie inglesi in America, nello stesso periodo, il passaggio alla democrazia avvenne contestualmente all’ottenimento dell’indipendenza da un governo centrale, ancora di tipo aristocratico, dispotico e distante; più volte nella storia dunque la democrazia è stata proposta come forma di governo alternativo a quella di una classe dominante sentita come troppo oppressiva. La classe dominata, ovvero il popolo, essendo costituita in genere dalla stragrande maggioranza della popolazione, si libera dal giogo dei suoi dominatori e decide quindi di governarsi da sé; la parola democrazia in greco antico aveva infatti il significato di governo del popolo (demos= popolo, cratos= forza, potere, governo). In linea di principio il concetto è molto semplice: niente più dominatori, quindi nessuna autorità al di sopra del popolo, il quale dovrà allora trovare una qualche forma di autogoverno; la democrazia ha dunque due caratteristiche fondamentali:
• il popolo è la massima autorità;
• il governo dipende dalla volontà popolare.
Di conseguenza, le forme di governo non democratico, prevedono che il popolo sia governato da qualcun altro, sia cioè ad esso subordinato, soggetto ad altra autorità, in altre parole non libero. La democrazia è dunque la premessa fondamentale per avere un popolo libero da autorità superiori, comprese le Istituzioni pubbliche che sono a loro volta soggette all’autorità popolare (autogoverno).
Un popolo libero non garantisce che ogni singolo individuo sia politicamente libero, anche un governo democratico può stabilire delle limitazioni ingiuste e discriminatorie, specialmente nei confronti di minoranze etniche, linguistiche, religiose, ecc., tuttavia il singolo non può dirsi veramente libero se non lo è il popolo a cui appartiene; la democrazia è quindi una premessa necessaria, anche se non sufficiente, anche per la libertà dei singoli cittadini.
Per quanto il principio della sovranità popolare possa apparire semplice e banale, la sua realizzazione appare di sicuro assai più difficile: le società tribali nelle quali l’essere umano si è evoluto non erano, per quanto ne sappiamo, di tipo democratico; sebbene non vi fosse una classe dominante, il suo ruolo era svolto dal capovillaggio e dalla tradizione, in particolare quella religiosa, che disciplinava il comportamento quotidiano di ciascuno; la popolazione non si autogestiva, ma seguiva gli insegnamenti ricevuti dagli antenati e le direttive del capo, che venivano accettati con una certa passività, ma che in genere risultavano validi, essendo frutto di una lenta evoluzione culturale e di una navigata esperienza in un ambiente abbastanza stabile. Ne segue che la natura dell’essere umano non è spontaneamente democratica, si tratta di un nuovo adattamento culturale che, peraltro, si è diffuso solo parzialmente fra la popolazione incontrando molta resistenza.
Le popolazioni dei paesi occidentali discendono infatti dai servi della gleba del medioevo, a loro volta discendenti degli schiavi dell’Impero Romano, la loro tradizione culturale è ancor meno democratica di quella tribale e dopo millenni di servitù risulta difficile inserire nella propria mentalità concetti come la sovranità popolare e l’autogoverno; questo spiega come mai esista tanta difficoltà ad accettare e utilizzare con profitto una cultura democratica; a cosa serve allora la legittimazione dell’autorità popolare se poi il popolo non è in grado di usarla per ignoranza o mancata educazione? Abbiamo visto che una libertà legale priva di quella di fatto è una libertà apparente, analogamente un’autorità legale che di fatto non può essere esercitata dai cittadini è un’autorità del popolo apparente, cioè un’apparente democrazia.

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DEMOCRAZIA, RIVOLUZIONE AMERICANA, RIVOLUZIONE FRANCESE

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pillola n. 26 – DEMOCRAZIA E LIBERTA’ Libertà e Democrazia

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3.b.13 – Come riconoscere la vera democrazia?

26 Giugno 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

Come riconoscere la vera democrazia?

La prima cosa da esaminare, come abbiamo già osservato, è se la popolazione detiene effettivamente l’autorità suprema (la sovranità); questo vuol dire due cose:
• nessuna autorità può imporre alla popolazione la sua volontà;
• la popolazione deve avere la possibilità di imporsi ad ogni altra autorità.
I cittadini dunque devono avere degli strumenti di facile utilizzo per rifiutare collettivamente qualunque tipo di legge o di governo non gradito; allo stesso tempo devono anche poter agevolmente esprimere e far rispettare la propria volontà.
In democrazia dunque è necessaria non solo una libertà di espressione individuale, ma anche una collettiva, quale ad esempio possono essere i referendum o le libere elezioni, ma tale libertà, per essere effettiva, non deve avere ostacoli rilevanti da un punto di vista pratico. La volontà popolare, una volta espressa, deve godere di un’autorità tale che nessuna altra entità politica vi si possa sottrarre, essa deve nei fatti prevalere su ogni altra disposizione o comando.
Se consideriamo invece il caso di una monarchia assoluta, la massima autorità è il Re, egli può imporre la sua volontà a chiunque nel suo regno e nessuno può dargli ordini; la popolazione può fare delle richieste, non direttamente, ma attraverso degli intermediari, magari dei protettori aristocratici; un re saggio sa assecondare le richieste del suo popolo, ma in linea di principio non è affatto tenuto a soddisfarle. L’unico modo di difendersi da un re dispotico e malvagio è l’insurrezione violenta, ma si tratta di una scelta disperata in quanto il Re dispone sempre di un esercito organizzato, addestrato e bene armato, mentre il popolo vive da sempre nella massima disorganizzazione, avendo perso dai tempi della schiavitù la sua struttura sociale e organizzativa. Il Re giustamente teme un colpo di stato da parte di aristocratici ribelli piuttosto che una spontanea insurrezione popolare.
Immaginiamo ora un Re potentissimo, un sovrano che abbia ottenuto da una qualche divinità poteri magici tali da non temere alcuna insurrezione né colpo di stato, egli può togliersi qualsiasi capriccio e nessun crimine gli è proibito, tuttavia in cambio di tanto potere gli è stato imposto uno strano rito, ogni due anni il popolo dovrà votare liberamente se mantenere sul trono il proprio Re o deporlo aspettando che la divinità ne scelga un altro. Questo potentissimo Re sarebbe ancora un vero monarca? Se la cittadinanza può legalmente cacciarlo via è evidente che la massima autorità è ora il popolo e non il Re, quindi per non rischiare di perdere la sua regale poltrona egli dovrà fare di tutto per non inimicarsi gli abitanti del suo regno, cercando di assecondare ogni loro richiesta.
Il potere di questo Re non sarebbe assoluto, ma quanto mai vincolato, la gente comune potrebbe subire ancora pesanti imposizioni in teoria, ma solo per un periodo massimo di due anni dopodichè cacciando il Re se ne libererebbe; quindi, sia pure con qualche difficoltà, quella che era la classe dominata sarebbe in grado di farsi rispettare essendo in grado di esercitare un’autorità effettiva superiore a tutte le altre, quella che abbiamo immaginato non potrà mai essere chiamata monarchia, ma sarebbe una vera democrazia, per quanto singolare ed irrealistica, ed il Re dovrebbe chiamarsi Presidente, Governatore o qualcosa di simile.
Facciamo notare che il Re non viene eletto dai cittadini, ma solo deposto se il suo comportamento risulta inaccettabile, il suo successore viene infatti scelto, con un criterio sconosciuto, dalla divinità. Il diritto di deporre la massima autorità di governo è dunque sufficiente a garantire un’autentica democrazia? Rimanendo nel sistema da noi immaginato, si può vedere come basti poco a renderlo inutilizzabile: se la divinità scegliesse il nuovo Re sempre e solo fra i nobili, ecco che l’aristocrazia diverrebbe di nuovo una classe politica inamovibile dal governo, non vi sarebbe effettivo ricambio politico ed il giudizio popolare sarebbe vanificato. Lo stesso accadrebbe se la divinità scegliesse sempre un medico od un tassista poiché immediatamente si formerebbe una nuova classe dominante; il criterio di scelta dunque è molto importante e non può privilegiare una minoranza senza compromettere la democrazia; in particolare se vi sono elezioni con liste di candidati scelti da un qualunque ente diverso dal popolo, la libertà di scelta nel voto viene compromessa, di fatto si è obbligati a votare chi è stato scelto da qualcun altro ed è facile immaginare verso chi si rivolgerà l’impegno e la reverenza degli eletti.
Nella realtà poi la libertà di voto viene condizionata anche in altri modi: con la violenza, con la propaganda, con l’inganno; con adeguate campagne di disinformazione è facile impedire ai cittadini di votare in modo da tutelare i propri interessi, la libertà di voto è allora strettamente legata alla libertà di stampa e divulgazione, senza di esse la gente comune non può dare un giudizio indipendente e meno che mai esprimerlo in forma collettiva.

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CONCETTI IN PILLOLE
pillola n. 27 – DEMOCRAZIA REALE Democrazia Reale

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3.b.14 – La democrazia è un valore attuale?

27 Giugno 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

La democrazia è un valore attuale?

Nel mondo attuale, anche in assenza dei problemi anzidetti, la popolazione nel suo complesso non sarebbe comunque in grado di esercitare la sua autorità democratica per il semplice fatto che non è stata educata a farlo. Come abbiamo già detto in precedenza, la nostra mentalità è ancora assai simile a quella dei sudditi, la maggior parte di noi non vota per sostenere un programma di governo o per ottenere un ricambio politico, ma per favorire dei protettori inamovibili come i nobili di un tempo e si accetta pertanto con incredibile passività che i nostri eletti (sulla fiducia) non mantengano la parola data e ci prendano in giro sfacciatamente.
Tale grave fenomeno, che possiamo definire sindrome della gleba, ci evidenzia come il primo nemico della democrazia sia la mancanza di cultura democratica; nelle condizioni attuali la democrazia è impraticabile nella maggioranza dei paesi occidentali e ciò viene confermato dal fatto, già posto in evidenza nel capitolo precedente, che i governi dei moderni paesi industrializzati mantengono una condotta assai simile a quella delle antiche monarchie, trattando di fatto i propri cittadini come sudditi da sfruttare, sebbene con meno violenza e molta disinformazione applicata con metodo.
La democrazia, come abbiamo detto, è una premessa necessaria per la libertà della popolazione nel suo complesso ed anche per quella dei singoli individui, è quindi fondamentale per il benessere e per il progresso dell’umanità, ma le democrazie che conosciamo sono solo apparenti, sono dei tentativi mal riusciti, la democrazia effettiva non esiste ancora e quindi non può essere tutelata nel presente, ma solo costruita per il futuro; ancor più della patria deve essere considerata un valore fondamentale da realizzare negli anni a venire.

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3.b.15 – Le false libertà rappresentano un grave pericolo?

28 Giugno 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

Le false libertà rappresentano un grave pericolo?

Abbiamo visto come il comportamento di ognuno di noi segua la propria mappa mentale, come questa sia basata su dei punti di riferimento rappresentati dai valori umani e come la poca chiarezza, anche terminologica, su tali concetti provochi un inquinamento psicologico che ci porta ad agire contro i nostri interessi. Con riferimento al valore della libertà abbiamo appurato come esso possa essere pienamente tutelato solo in presenza di una vera democrazia, ma abbiamo anche capito che le attuali democrazie sono solo apparenti, in quanto non esistono i due presupposti che garantirebbero una piena sovranità popolare. Se non si raggiunge questa consapevolezza, come si può progredire? Come si può ricercare un sistema democratico se si è convinti di averlo già ottenuto? Ecco il grave problema costituito dalle false libertà, cioè da quelle situazioni in cui non risultano immediatamente evidenti le costrizioni di fatto in cui ci si trova.
Le false libertà vengono sicuramente alimentate dall’utilizzo improprio delle parole: se definiamo democrazia un sistema che democratico non è, difficilmente proveremo a capire quale sia il vero significato di tale termine e di conseguenza non proveremo mai a perseguire una vera democrazia. Sicuri di essere in un sistema democratico, quando inevitabilmente si diffondono dei gravi problemi sociali, si cercherà di apportare dei correttivi al sistema come possono essere il modello elettorale maggioritario, la soglia di sbarramento, ecc., ma in questo modo, pur potendo ottenere dei risultati di breve periodo, non si elimineranno le tensioni sociali in modo stabile e le stesse tenderanno a ripresentarsi in forme sempre più accentuate. Essere consapevoli di non essere liberi è il primo presupposto per cercare di liberarsi, ma da solo esso non basta, perché immediatamente dopo si deve individuare la vera causa che limita la nostra libertà e la giusta alternativa; se il popolo si sente oppresso dal sistema politico e rimane convinto che sia un sistema democratico, con l’esasperazione delle tensioni sociali arriverà a odiare la democrazia invece di perseguirla e tutelarla come sua primaria risorsa. In una situazione di tale disagio il popolo tenderà a rimuovere la vera causa dei propri problemi, cioè il presente sistema politico, ma confondendo questo con la democrazia, potrebbe aprire le porte al ritorno di sistemi autoritari e tirannici che per definizione sono la negazione della libertà.
Rimanendo in tema di libertà democratiche, abbiamo già detto come una falsa libertà di fondo consiste nella libertà di votare senza la libertà di scegliere i candidati; il caso limite è quello del candidato unico, ma si tratta di un caso dove almeno la falsità della libertà è più che evidente; cosa cambia se i candidati sono un migliaio, ma sono comunque tutti imposti? Praticamente nulla se non il fatto che è molto più difficile rendersi conto di trovarsi in una condizione di falsa libertà; una seconda falsa libertà consiste nella libertà di votare una pluralità di candidati riconducibili a pochi gruppi di interesse o a poche persone, cioè la libertà di votare una falsa pluralità; una terza falsa libertà è data dalla libertà di votare scegliendo fra candidati di cui non si conoscono né le capacità, né i rispettivi programmi e senza avere la possibilità di verificarne l’operato.
Oltre a una vera libertà di voto, in una democrazia è necessaria una vera libertà di informazione; su questo versante una falsa libertà consiste nel poter accedere a una pluralità di fonti di informazione che veicolano informazioni censurate, incomplete o, cosa da sottolineare, assolutamente inutili, ma adattissime a distrarre la popolazione dai veri problemi; una seconda falsa libertà si ha quando la stessa pluralità di informazione è solo apparente in quanto tutte le principali fonti sono riconducibili allo stesso gruppo di interessi o, in casi estremi, addirittura alla stessa persona.
Non si può concepire una democrazia che non assicuri ai propri cittadini la libertà di lavorare, ma se con un onesto lavoro, autonomo o dipendente che sia, non si riesce ad assicurarsi un’abitazione e ad essere autosufficienti, si avrà l’ennesima falsa libertà.
Anche la libertà di tutelare la propria salute può degenerare in una falsa libertà; la salute va salvaguardata soprattutto a livello preventivo e per farlo bisogna avere le giuste conoscenze, tenere i corretti comportamenti e fruire di quelli altrui: una alimentazione squilibrata può causare cardiopatie e quindi risultare anche letale, seguire i corretti principi alimentari sarebbe sicuramente preferibile, ma se poi si è costretti a mangiare alimenti trattati chimicamente (al fine di migliorarne il colore, il sapore, la conservazione) con sostanze tossiche, anche se moderatamente, è chiaro che si vanifica ogni sforzo individuale.
Ecco allora la necessità di un adeguato sistema giuridico che ponga le regole a tutela della libertà di vivere bene e di vivere con dignità, nonché di un efficiente sistema giudiziario che tali regole faccia rispettare, ma sia l’uno che l’altro dipendono dal sistema politico di cui si dispone e in una condizione di falsa democrazia anche la libertà di veder tutelati i propri diritti diviene facilmente una falsa libertà.
Tutte queste considerazioni non devono abbatterci, anzi devono servire da stimolo per cominciare a riconoscere e contrastare le false libertà; a questo fine diviene fondamentale un valore antico, ma sempre più attuale: il valore della conoscenza.

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Capitolo 3.c

29 Giugno 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

IL VALORE DELLA CONOSCENZA

Qualunque attività umana, come giocare a carte, leggere un giornale, guidare la propria automobile, richiede delle conoscenze sue particolari; ogni attività presuppone dunque delle specifiche forme di sapere, ecco perché la conoscenza è un altro valore indispensabile e onnipresente nella nostra vita i cui vantaggi sono inestimabili. Tale semplice considerazione può apparire fin troppo banale e scontata, tuttavia accade spesso di non darle il giusto peso e di non tenerne conto nella vita di tutti i giorni. La conoscenza ha la fondamentale funzione di presentarci un modello del mondo dove viviamo e di rendere fruibili tutti gli altri valori con cui ci orientiamo quotidianamente; una conoscenza carente o falsata può provocarci danni enormi, per cui è opportuno soffermarsi a riflettere su tali concetti.

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3.c.1 – Come mai l’uomo apprende in tanti modi diversi?

30 Giugno 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

Come mai l’uomo apprende in tanti modi diversi?

Per conoscenza si intende il sapere, ovvero l’insieme delle nozioni acquisite da un singolo essere umano, da una comunità o dall’umanità intera. Abbiamo detto che tale patrimonio conservato nella memoria è suddiviso, interpretato, organizzato nella nostra mappa mentale. Sappiamo già che la capacità di fare tesoro delle esperienze, accumulandole sotto forma di conoscenza, è una capacità tipica del mondo animale, una delle strategie di sopravvivenza di maggior successo; le esperienze che facciamo vengono riutilizzate per tutta la vita, ad esempio da bambini impariamo a camminare e a riconoscere i cibi dal sapore, attività che poi non abbandoneremo mai. È interessante notare che ciò che viene appreso dagli animali non sociali, in genere non solo viene acquisito anche dall’uomo, ma anche con lo stesso processo: l’esperienza diretta; rientra in questa categoria tutto ciò che riguarda il movimento del nostro corpo, i gusti personali, i rapporti con i propri simili, cioè tutto quello che fanno gli animali non sociali. L’accumulo di esperienze permette di superare i limiti dell’istinto rendendoci enormemente più adattabili all’ambiente dove viviamo.
Questa facoltà si è grandemente potenziata negli animali sociali grazie allo sviluppo della cultura, ovvero la conoscenza trasmessa da un individuo all’altro; in questo modo l’esperienza di uno diviene patrimonio comune. Anche in questo caso il processo di apprendimento umano sembra rimanere fedele alla nostra storia evolutiva, un gran numero di comportamenti sociali vengono infatti appresi inconsciamente per imitazione esattamente come avviene nel mondo animale.
Nell’essere umano vi sono poi stati nuovi sviluppi con la comparsa della parola, il cui uso viene acquisito per imitazione come le altre forme di comunicazione animale, ma che apre le porte a nuove forme di apprendimento, come ascoltare la narrazione di storie da parte di altri uomini; questi non si limitano a raccontare gli eventi accaduti, ma anche le proprie riflessioni e le loro generalizzazioni, trasmettendo così dei concetti astratti che superano di molto le capacità della semplice imitazione in quanto trasferiscono direttamente il pensiero. Il legame fra parola e pensiero è strettissimo, ascoltando i nostri simili istintivamente tendiamo ad imitare il loro modo di ragionare, memorizziamo i loro percorsi mentali come facciamo con le strade per tornare a casa e li inseriamo nella nostra mappa mentale come alternative possibili di pensiero da cui deriveranno scelte alternative di comportamento. Tale forma di apprendimento è praticamente impossibile con la semplice imitazione, il linguaggio ci ha reso animali culturali di un livello mai visto prima. L’evoluzione dell’apprendimento, ovvero quella della trasmissione culturale, tuttavia non si è fermata qui; lo sviluppo della scrittura, ed in seguito della stampa, ha aperto nuove frontiere: un singolo messaggio può infatti da allora rimanere inalterato per millenni ed essere diffuso a milioni di individui; infine con la comparsa di internet questa operazione sta diventando alla portata di tutti, oggi abbiamo possibilità di apprendimento e di evoluzione culturale molto maggiori di venti anni fa. Dato che la conoscenza, il patrimonio che accumuliamo nel nostro archivio mentale, può derivare da fonti molto più numerose e ricche rispetto al passato, forse sarebbe bene approfittarne.

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3.c.2 – E’ importante fare le proprie esperienze?

1 Luglio 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

È importante fare le proprie esperienze?

Vi sono cose che per loro natura vanno apprese per esperienza diretta, come camminare, gestire le proprie amicizie, ecc., altre invece si apprendono con l’insegnamento delle esperienze altrui, come la matematica, la storia, la geografia ecc.. In realtà la distinzione non è così netta, vi è quasi sempre una componente di esperienza diretta e una culturale; ad esempio la matematica è basata molto sull’insegnamento, ma per essere ben compresa sono necessarie lunghe ore di esercizi, è dunque indispensabile fare anche esperienza diretta.
Dire che tutti, soprattutto i giovani, debbano fare le proprie esperienze, è cosa del tutto ovvia, ma bisogna fare molta attenzione alla reale portata della suddetta affermazione perché altrimenti la stessa può degenerare in un luogo comune con cui giustificare illogicamente ogni comportamento scorretto. Per esempio, l’esperienza altrui, riassunta in precisi dati scientifici, ci dimostra che fumare è nocivo e a volte letale: è logico allora ritenere normale che un adolescente fumi perché tanto “deve fare le sue esperienze”?
Sappiamo che la trasmissione culturale è una strategia di sopravvivenza della natura che permette di risparmiare molto tempo rispetto all’apprendimento per esperienza diretta, ma non tutte le esperienze si prestano alla trasmissione culturale. In alcuni casi è pertanto conveniente ripetere le esperienze ad ogni generazione, magari con una piccola integrazione culturale. I bambini devono esplorare direttamente il mondo che li circonda, ma seguiti, protetti e consigliati premurosamente dai genitori, sempre attenti che non si facciano male.
Non è sempre facile stabilire quanto sia bene seguire e controllare i ragazzi, rischiando di essere oppressivi, piuttosto che lasciarli liberi, esponendoli ad inutili rischi; istintivamente i genitori tendono a seguire la propria storia personale, spesso ritengono che sia giusto fare certe esperienze e seguire un certo percorso perché questo è quanto hanno fatto loro. Questo criterio di giudizio si basa su due presupposti:
• l’educazione ricevuta e l’esperienza fatta dai genitori è la migliore possibile o quantomeno di un buon livello;
• le esperienze dei genitori non presentano grandi rischi per i figli.
Si dimostra facilmente che tali presupposti non sono sempre veri: non tutti hanno avuto dei bravi genitori, alcuni sono stati trascurati altri troppo oppressivi, se dunque i figli seguiranno il loro esempio saranno anch’essi dei cattivi genitori; imparare a guidare il motorino richiede una notevole componente di esperienza diretta, ma al tempo dei nostri nonni, quando circolavano pochissime automobili, non presentava gli stessi rischi di oggi in una grande città oppressa dal traffico. Non ci si può dunque affidare solamente all’istinto, ma anche ad una valutazione razionale dei rischi nel mondo attuale.

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ESPERIENZA

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3.c.3 – Cosa è importante sapere?

2 Luglio 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

Cosa è importante sapere?

Riuscire a stabilire quale conoscenza abbia più valore delle altre è particolarmente difficile; la curiosità umana si basa infatti sul seguente principio: siamo curiosi un po’ di tutto poiché tutto potrebbe poi rivelarsi utile, anche se non sappiamo quando; è un principio sicuramente valido, tuttavia a volte è necessario fare una selezione. Tutti sappiamo bene infatti che davanti a una grande varietà di alternative si può rimanere bloccati dall’imbarazzo della scelta, come ad esempio accade spesso facendo delle ricerche su internet; davanti all’attuale ricchezza di cultura disponibile sorge dunque la necessità di trovare dei criteri di scelta che ci indichino che cosa sia meglio imparare, cosa sia più urgente o più importante e quali siano le fonti più affidabili. Data l’importanza e la delicatezza di tali criteri è bene che ciascuno segua le sue considerazioni personali mettendole però anche a disposizione degli altri proprio come si dovrebbe fare per tutti i valori. Ancora una volta è importante confrontarsi con gli altri per ponderare meglio le proprie riflessioni che poi potranno tornare utili all’intera comunità, ma come sempre dipende da noi fare il primo passo.
Dal nostro personale punto di vista, la funzione biologica della conoscenza ai fini della sopravvivenza ci può essere di aiuto per definire i nostri criteri: la cultura e il sapere aiutano a vivere, dunque appaiono tanto più importanti quanto più risultano utili. Il problema allora si sposta su come valutare l’utilità di ciò che sappiamo; a tal fine ciascuno di noi già utilizza, anche contemporaneamente, vari metodi: una nozione risulta più utile di un’altra se:
1. viene usata in un’attività più importante
2. le sue applicazioni sono più numerose
3. viene utilizzata da un maggior numero di persone
4. viene usata più spesso.
Nel selezionare le nozioni necessarie, in base a tali criteri vengono valorizzati al massimo gli elementi culturali che riguardano la collaborazione fra individui (ad esempio il linguaggio) e i valori ad essa legati come l’amicizia, il rispetto, la solidarietà e il lavoro; possiamo infatti osservare che tale cultura della collaborazione è ampiamente utilizzata in ogni attività umana, comprese quelle più fondamentali per la sopravvivenza: grazie alla collaborazione noi ci procuriamo il cibo, ci riscaldiamo, ci vestiamo, ci proteggiamo da vari pericoli come malattie, intemperie e nemici, ecc.. La cultura della collaborazione risulta allora ai primi posti in base ad ogni criterio in quanto:
1. è usata nelle attività più importanti per la sopravvivenza
2. le sue applicazioni sono innumerevoli
3. viene utilizzata da tutti
4. viene utilizzata in continuazione ogni giorno.
Allo stesso modo viene valorizzata quella che normalmente viene chiamata cultura di base ovvero quell’insieme di conoscenze su cui si basano tutte le altre dette specialistiche; la cultura di base è infatti patrimonio comune, viene usata da tutti in ogni attività e dobbiamo quindi riconoscere che giustamente si cerca di far coincidere con essa gli insegnamenti scolastici.
In diversa misura viene riconosciuta grande importanza anche al sapere specialistico in quanto usato in attività spesso importanti per la collettività, ma dal punto di vista individuale esso permette di lavorare e quindi diviene fondamentale per la sopravvivenza: conoscere le leggi è utile a tutti, ma per un avvocato è indispensabile.
A questo punto è necessario osservare che non sempre i nostri interessi culturali sono guidati dall’importanza delle applicazioni, anzi questa sembra essere l’eccezione e non la regola. L’interesse viene stimolato da meccanismi inconsci, non razionali; ciascuno di noi avverte una sorta di attrazione, in genere detta passione, per una data disciplina, un dato argomento, ecc. Gli interessi culturali non sono dunque una scelta consapevole, ma il risultato di una programmazione inconscia, forse innata o risalente all’infanzia; i criteri di valutazione sopra esaminati allora vanno considerati come un’integrazione alla propria inclinazione naturale. Se tale inclinazione dipende da esperienze infantili, è opportuno pensare ad una educazione mirata a un sano sviluppo di queste tendenze, che non le inibisca, che le incoraggi e le indirizzi sui giusti binari, che dia l’opportunità di sperimentare nuove possibilità e che le protegga da proibizioni, ostacoli o sviluppi già sperimentati come negativi.

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INCONSCIO

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  PIERO ANGELA  stella2stella2stella2

CONCETTI IN PILLOLE                                                                            
pillola   n. 28 –  I PERICOLI DELL’IGNORANZA                                                 I Pericoli dell'Ignoranza

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3.c.4 – E’ meglio una cultura vasta o specialistica?

3 Luglio 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

È meglio una cultura vasta o specialistica?

Riteniamo una credenza pericolosa e diseducativa l’opinione che la scuola debba insegnare ciò che serve per imparare un mestiere, perché ciò è altamente riduttivo: la conoscenza serve a vivere e non solo a lavorare, la cultura di base scolastica serve anche ad innumerevoli e fondamentali attività extralavorative come capire la società che ci circonda, capire la tecnologia che ci circonda, sapere a quali specialisti rivolgersi per un dato problema e capire i loro suggerimenti.
La logica di studiare solo per lavorare porta a vedere come positiva una suddivisione dei corsi scolastici in base alla futura specializzazione lavorativa, ma si tratta di una tendenza molto pericolosa che può portare alla formazione di masse di specialisti ignoranti, quindi dipendenti e manipolabili: quanti medici e ingegneri conoscono la differenza fra una democrazia reale ed una apparente? Quanti biologi ed architetti conoscono i diritti fondamentali previsti dalla costituzione? Quanti commercialisti ed avvocati conoscono la differenza fra una teoria scientifica ed una superstizione?
Un sapere molto specialistico riduce inoltre il numero di possibili impieghi, ci rende poco adattabili al mercato del lavoro; quante persone svolgono un lavoro diverso da quello previsto ai tempi della scuola? La possibilità di poter ripiegare su un’attività alternativa, magari migliore, dipende da una cultura di base che consenta di acquisire una diversa specializzazione. La scuola pertanto deve puntare principalmente alla vastità della cultura di base in vista di future specializzazioni, le quali si delineeranno gradualmente nel tempo. Ovviamente la situazione cambia a livello universitario e si ribalta completamente una volta entrati nel mondo del lavoro; la formazione più specialistica quindi deve concentrarsi nelle università e nei corsi di formazione del personale e non a scuola.
Capita l’importanza della cultura di base bisogna però chiarirsi le idee su tale concetto. La cultura di base è un’insieme di conoscenze fondamentali necessarie per orientarsi nella vita quotidiana, ma abbiamo anche visto che i punti di riferimento per i nostri comportamenti sono rappresentati dai valori umani; è scontato che leggere, scrivere e far di conto sono nozioni fondamentali, è altrettanto scontato che è utile affinare tali conoscenze con studi di dizione, letteratura, grammatica e matematica, ma in quanti, genitori, insegnanti e istituzioni, sono consapevoli dell’importanza della conoscenza e della pratica dei valori umani? In quanti sono consapevoli che la cultura di base deve adattarsi anch’essa alle sempre più veloci modifiche dell’ambiente in cui viviamo? La cultura di base, per essere efficace, deve far acquisire le nozioni sulla natura dell’uomo sia da un punto di vista biologico che culturale, deve abituare a riflettere sui valori umani e sul loro adattamento al mondo attuale, deve insegnare un metodo per individuare, circoscrivere e risolvere i problemi. Quanti di noi possono vantarsi di possedere un’adeguata cultura di base?

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  WERNHER VON BRAUN  stella2stella2stella2stella2

CONCETTI IN PILLOLE                                                                            
pillola   n. 29 –  LE RISORSE CULTURALI                       Le Risorse Culturali

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3.c.5 – Si deve conoscere la verità?

4 Luglio 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

Si deve conoscere la verità?

Fin da piccoli siamo abituati a pensare che bisogna conoscere la verità dei fatti, delle situazioni e delle leggi della natura per tenere dei comportamenti che risultino vantaggiosi, mentre seguire delle false credenze è sempre dannoso o nel migliore dei casi inutile; esaminando invece il modo in cui la mente umana costruisce la famosa mappa mentale abbiamo visto che in realtà le false credenze sono una componente fondamentale ed indispensabile della nostra visione del mondo. Ipotesi e supposizioni anche molto fantasiose colmano le nostre enormi lacune riguardo la conoscenza della verità sul mondo che ci circonda; ricordiamo ancora che nessuno di noi ha una magica sfera di cristallo che mostri la verità che vorremmo sapere, possiamo solo immaginarla sulla base di quanto percepiamo con i nostri sensi; le nostre sensazioni sono di fatto le uniche verità di cui disponiamo, la loro interpretazione e tutto ciò che ne segue è frutto della fantasia e della ragione, intesa come capacità di verificare la coerenza fra le sensazioni ricevute e le nostre fantasie. Gran parte della verità ci è preclusa e tale vuoto viene colmato con le credenze che in un secondo momento risulteranno più o meno vicine alla realtà dei fatti.
Secoli di scienza sperimentale e millenni di filosofia ci hanno mostrato che credenze molto lontane dalla verità si sono rivelate utilissime poiché inducevano a comportamenti comunque corretti; in mancanza della verità ci si può dunque accontentare di una buona falsità. Tra la realtà ed un’ottima illusione c’è comunque una differenza che rende la realtà sempre preferibile, ma non sempre tale difformità si rende evidente, rendendo così equivalenti di fatto le due situazioni. In base a questa considerazione il concetto risalente all’antica Grecia di una verità mai conoscibile completamente, ma alla quale ci si può avvicinare, risulta ancora oggi valido e largamente applicato dalla scienza le cui teorie sono viste come approssimazioni, in genere molto precise, della realtà.
La verità dunque in linea di principio non è un valore che si possiede, ma un valore da ricercare anche se spesso rappresenta una meta irraggiungibile, un bene prezioso che non sarà mai completamente nostro. Se invece consideriamo la verità come un bene da proteggere, quindi posseduto, significa che quasi sicuramente stiamo proteggendo una buona falsità come verità, scivolando inevitabilmente nel dogmatismo.
Quando affermiamo che una credenza falsa, ma efficace, risulta equivalente alla verità e quindi ne è un ottimo surrogato, stiamo sottovalutando i suoi vantaggi; molto spesso infatti la falsa credenza risulta indubbiamente migliore della verità perché è molto più semplice da capire ed usare.
Se dunque possiamo affermare che la ricerca della verità è il primo valore, il più importante legato alla conoscenza, il secondo è la capacità di inventare delle buone falsità. Questa capacità dipende, come abbiamo detto, da due preziosissime facoltà della nostra mente: l’immaginazione e la razionalità, a cui corrispondono due valori altrettanto importanti da coltivare: la creatività e la coerenza all’evidenza dei fatti. La creatività va protetta dalla paura del nuovo che tende a soffocarla, la coerenza invece ha bisogno soprattutto di essere esercitata con la pratica poiché è un’arte difficile ed impegnativa.

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IMMAGINAZIONE

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3.c.6 – Come riconoscere le cattive falsità?

5 Luglio 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

Come riconoscere le cattive falsità?

Il fatto che la nostra conoscenza si basi di norma su false credenze non ci deve indurre a sottovalutare i pericoli delle falsità negative, cioè quelle basate su concetti del tutto errati ed ingannevoli, perché in tali casi seguire la falsa pista comporterà sempre un danno. Per esempio, se oggi ci ostinassimo a credere nelle antiche superstizioni secondo le quali le malattie dipendono dall’influenza degli astri o dalle colpe di cui il singolo individuo si è macchiato, sicuramente impediremmo di salvare molte migliaia di vite all’anno; allo stesso modo, continuare a credere che il popolo debba essere governato da un’aristocrazia di nobili significa favorire una lunga serie di ingiustizie sociali.
Quando il nostro sistema di credenze perde la sua efficacia, si passa da una conoscenza funzionale, benché approssimata, ad una pericolosa superstizione, ad un inquinamento psicologico i cui effetti sono sempre negativi e a volte possono essere anche disastrosi. Come possiamo allora riconoscere le credenze dannose? Un esame accurato dei fatti, come quello previsto dal metodo scientifico, consente di individuare i limiti del nostro sapere: quando questo non rispecchia più l’evidenza oggettiva dei fatti significa che abbiamo sconfinato in un contesto nel quale non è più valido.
Come testimoniano secoli di credenze assurde, riconoscere l’evidenza dei fatti non è però sempre una cosa banale; tanto è vero che in ambito scientifico sono state create delle procedure rigorose per questo scopo: le osservazioni devono essere indipendenti dal soggetto che osserva e vanno ripetute da vari individui al fine di eliminare errori individuali; purtroppo, in certi casi, neppure questo è stato sufficiente e a distanza di molti anni si è dovuto ammettere l’errore; è il caso degli studi a sostegno della superiorità della razza bianca su quella nera, o dell’antica fisiognomica che affermava di poter dedurre le caratteristiche psicologiche di un individuo dai lineamenti del suo viso.
Mentre il metodo scientifico è fondato sulle osservazioni, il nostro sistema di credenze individuale, formatosi in buona parte per via culturale, è basato sulle informazioni. L’analogia fra la ricerca scientifica e quella personale è data dal fatto che le osservazioni possono essere viste come il mezzo per ottenere informazioni dalla natura: quanto più le osservazioni saranno rigorose ed accurate, tanto più le informazioni da esse ricavate saranno attendibili. Seguendo questa analogia anche noi dobbiamo valutare con molta cura le informazioni che riceviamo per poi costruire la nostra immagine del mondo.
Le informazioni sono i mattoni fondamentali della cultura; esse vengono interpretate, organizzate ed immagazzinate per essere usate in futuro. Non tutte le informazioni contribuiscono però alla formazione della cultura: se ci dicono che ore sono, otterremo certamente un’informazione, ma non arricchiremo il nostro patrimonio culturale; la cultura inoltre non è un semplice accumulo di informazioni, poiché queste vengono interpretate dalla nostra rielaborazione personale a sua volta influenzata dalla cultura già presente. Tuttavia la nostra visione del mondo e la nostra cultura in generale si basano sulle informazioni che la nostra mente riceve sia dall’esperienza diretta, sia dai nostri simili; se ne riceviamo di sbagliate è inevitabile che l’efficacia della nostra mappa mentale venga compromessa.
Valutare l’attendibilità delle informazioni è dunque una priorità fondamentale per tutelare il valore della conoscenza; ogni ragionamento si basa su delle ipotesi di partenza, se queste non sono vere o sono incomplete, le conclusioni a cui si giunge sono inaffidabili e a volte assurde; anche le nostre interpretazioni delle informazioni devono essere coerenti con l’evidenza oggettiva dei fatti della nostra vita quotidiana; davanti a delle conclusioni in contrasto con la realtà, come quella secondo la quale le donne non possono competere con gli uomini a scuola, dobbiamo avere il coraggio di fare autocritica e rivedere le nostre convinzioni.
Quando i fatti osservati sono inconciliabili con le nostre convinzioni, ci deve venire il dubbio di essere vittime di un inquinamento psicologico che può essere originato da un errore nelle informazioni o nella loro interpretazione e a volte in tutte e due.

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ANALOGIA

IL CASO CELEBRE
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CESARE LOMBROSO

CONCETTI IN PILLOLE
pillola n. 30 – I SELVAGGI CREDULONI I Selvaggi Creduloni
 

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3.c.7 – Come valutare l’attendibilità delle informazioni?

6 Luglio 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

Come valutare l’attendibilità delle informazioni?

Vista l’importanza delle informazioni nella formazione della cultura e vista l’importanza della cultura per la sopravvivenza, la selezione naturale ha provveduto a dotarci di meccanismi innati biologicamente, poi rafforzati culturalmente, per valutare l’attendibilità delle informazioni. Ricordando sempre di essere animali sociali, normalmente ci basiamo su due criteri:
• la fiducia nell’autorità gerarchica, la quale varia secondo la complessità della comunità e secondo il nostro ruolo in essa ricoperto; nei vari casi si riterranno affidabili le informazioni ottenute dal capo famiglia, dal capo del villaggio, dal sacerdote, dall’insegnante, dall’anziano, ecc.
• la fiducia nel comportamento diffuso, la quale tende a ritenere affidabile l’informazione ricevuta o confermata da più persone; è evidente che se tali persone rappresentano anche diverse autorità, l’affidabilità diventa massima.
D’altra parte un anziano viene ritenuto affidabile per la sua esperienza, un capo per la sua capacità, un insegnante per la sua conoscenza, perché mai un’autorità non dovrebbe essere affidabile? Possibile che una moltitudine di persone che ci confermano la stessa informazione siano tutte in errore? Ancora una volta dobbiamo ricordarci come per milioni di anni ci siamo evoluti in un ambiente tribale di poche decine di membri ed è in questo contesto che tali comportamenti risultano validi per valutare l’attendibilità delle informazioni. Guardiamoci intorno: l’esperienza dell’anziano e la preparazione dell’insegnante possono essere superate da un mondo che cambia sempre più velocemente; in una comunità di milioni di persone difficilmente si conoscono i propri governanti e spesso non c’è alcuna garanzia sulle loro capacità; non conosciamo né frequentiamo neanche la maggior parte degli altri membri della comunità con cui magari condividiamo il condominio, la metropolitana o il parrucchiere.
Tuttavia l’istinto del rispetto dell’autorità e del confronto con gli altri ci è rimasto; esso è talmente forte da indurci a rispettare non solo l’autorità, ma anche la rappresentazione della stessa, nonché a seguire il comportamento degli altri anche se perfettamente sconosciuti. Un produttore di decaffeinati può vantare le virtù dei propri prodotti rispetto alle conseguenze cardiache facendoli pubblicizzare ad un attore che per molti anni ha interpretato il ruolo di un medico in una serie televisiva e ottenere ottime vendite; il pubblico rispetterà l’autorità del medico pur consapevole che l’informazione è pervenuta da un attore. Allo stesso modo, dopo aver incontrato occasionalmente tanti sconosciuti in vari bar e averli sentiti decantare le proprietà dei dolcificanti per il caffè, tenderemo ad abolire lo zucchero.
Ecco allora sorgere il problema della falsa affidabilità dovuto a meccanismi inconsci di valutazione; più la struttura sociale diventa complessa e più la stessa cambia velocemente, tanto più aumenterà l’inquinamento psicologico da informazioni inattendibili; allo stesso tempo una popolazione sempre più specializzata ha bisogno di un numero sempre maggiore di informazioni.
In questo contesto:
• tendiamo a dare fiducia a chiunque ci parli con autorevolezza e chi c’è di più autorevole di chi ci parla dalla televisione?
• è noto che un’informazione ripetuta più volte alla fine viene ritenuta vera e chi ci ripete incessantemente le stesse informazioni più della televisione?
• siamo soliti organizzare le nostre giornate in modo ripetitivo fino a conferire una vera e propria ritualità anche ai gesti più semplici e quale fonte di informazione ci dà appuntamento alla stessa ora più del telegiornale?
I pubblicitari lo sanno bene ed è per questo che usano massicciamente il mezzo televisivo, ma anche i politici ne sono consapevoli, tanto da effettuare la propaganda elettorale nei migliori salotti dei più autorevoli conduttori televisivi. Quando la televisione si dichiara pubblica, ma di fatto è in mano ai politici, quando i politici subiscono l’influenza dei grandi imprenditori, quando i grandi imprenditori possiedono le televisioni private, potete immaginare l’attendibilità delle informazioni provenienti dalla televisione. Il cerchio si chiude quando i grandi imprenditori controllano tutte le televisioni private e assumono direttamente anche l’incarico di politici; dovrebbe essere tutto più chiaro per tutti, l’attendibilità delle informazioni dovrebbe essere considerata minima se non nulla, invece succede esattamente il contrario; chi è più autorevole di una persona con grande potenza economica e grande potenza politica che ci parla dai diversi grandi televisori che abbiamo in casa? Le informazioni che ci fornisce sono continuamente confermate da autorevoli giornalisti, conduttori, opinionisti e politici, tutti sconosciuti, ma tutti avvalorati dall’autorevole e quindi attendibile totem televisivo. Possono non essere attendibili le persone che ospitiamo tutti i giorni dentro le nostre case e che magari ascoltiamo durante i pasti nel momento in cui si riunisce la famiglia?
L’attendibilità delle informazioni non può dunque prescindere dall’attendibilità delle fonti e per giudicare tali fonti non possiamo non essere consapevoli delle nostre fragilità psicologiche. 

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AUTORITA’
 

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3.c.8 – Sappiamo distinguere i fatti dalle opinioni?

7 Luglio 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

Sappiamo distinguere i fatti dalle opinioni?

Le informazioni di base, cioè i fatti oggettivi, anche se non provenienti da un’esperienza diretta, vengono elaborate dalla nostra mente per trasformarsi in opinioni soggettive. Se la fonte d’informazione è attendibile, lo saranno anche i fatti che ci comunica e le sue opinioni personali; perché dovremmo faticare a costruire una nostra opinione soggettiva partendo dalla materia prima dei fatti quando si può fruire di opinioni preconfezionate? In questo caso il problema non si ferma all’attendibilità della fonte, ma riguarda anche la differenza terminologica dei termini.
Qualora non si abbia chiara tale distinzione, se cioè si confonde l’opinione con il fatto, le conseguenze per la nostra conoscenza e per la nostra libertà saranno gravissime. Fare propria l’opinione altrui è un processo naturale, ma significa condividere un elaborazione di ragionamento su fatti che rimangono oggettivi. Come si può non condividere un’opinione se non si conoscono i fatti su cui si basa? L’opinione per esempio che un governo si debba dimettere perché non ha mantenuto le promesse elettorali è senz’altro condivisibile, ma presuppone la conoscenza di tali promesse e dei dati sull’operato del governo.
A questo punto è ovvio che se si ha interesse a manipolare l’informazione bisogna coprire i fatti con un gran numero di opinioni, che diano il senso del pluralismo in quanto contrastanti, che diano il senso della vera contrapposizione alzando i toni degli interlocutori, che diano il senso dell’autorevolezza perché trasmessi in televisione, ma sempre rigorosamente distaccate da fatti obiettivi; si arriva a dibattiti assurdi in cui si discute con opinioni divergenti su fatti altrettanto diversi; è infatti frequente assistere a discussioni fra politici che affermano di aver governato bene perché per esempio hanno diminuito il tasso di disoccupazione e altri che li accusano di aver governato male in quanto hanno alzato il tasso di disoccupazione. Non si tratta forse di due opinioni ambedue condivisibili? Ha senso seguire una tale discussione senza avere notizia sullo scostamento del tasso di disoccupazione, sul termine di paragone di tale scostamento e sulle metodologie usate per effettuare il calcolo?
Un altro metodo molto diffuso per coprire i fatti è semplicemente quello di parlare d’altro e non è un caso che i telegiornali, cioè la nostra fonte d’informazione più utilizzata diano ampio spazio a notizie sportive, a curiosità sulla vita di personaggi famosi, a eventi accaduti in paesi lontani, fino a presentare con collegamenti in diretta il programma di varietà che seguirà a pochi minuti.
Si può concludere che non sono necessarie solo le informazioni sui fatti, ma anche la consapevolezza di averne bisogno.

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3.c.9 – E’ necessario che le opinioni siano largamente diffuse?

8 Luglio 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

E’ necessario che le opinioni siano largamente diffuse?

Avendo capito l’importanza della ricerca di informazioni attendibili è legittimo chiedersi come mai normalmente non ci preoccupiamo molto di valutare le nostre fonti. La risposta può essere trovata nell’esigenza dei membri di una comunità di rimanere coesi per poter convivere e trarre i vantaggi che tale convivenza offre; per una pacifica e utile convivenza è infatti necessario che le opinioni siano largamente diffuse e condivise ed è evidente che ciò avviene meglio se i singoli non si incaponiscono ad approfondire e rielaborare ogni notizia. Le religioni hanno avuto un importante ruolo a questo fine conservando per secoli credenze e opinioni che sono rimaste diffuse in modo più o meno omogeneo nella popolazione.
L’esigenza di affidarsi alle opinioni altrui è inoltre divenuta ancor più marcata con la specializzazione dei ruoli sociali, oggi infatti non avremmo né il tempo, né la competenza per poter approfondire ogni informazione; la nostra superficialità che quotidianamente dimostriamo nei confronti dell’informazione è quindi il prezzo che paghiamo per una società più unita e più specializzata; si può allora dire che in una comunità è più importante avere informazioni e opinioni largamente diffuse e condivise piuttosto che vere.
Tutto ciò non deve far pensare che oggi non esista il problema della disinformazione perché bisogna sottolineare che le suddette affermazioni rimangono valide in una vera comunità. Abbiamo già avuto modo di chiarire come invece oggi non viviamo in una comunità, ma in sistemi dominati da monarchie e dittature o da partiti politici e poteri economici; in tale contesto la tendenza a rimanere superficiali ci si ritorce contro in quanto diviene un potente strumento nelle mani della classe dominante per mantenere i propri privilegi; è per esempio frequente sentir esaltare l’importanza della comunità e dei sacrifici che bisogna affrontare in suo nome quando invece non esiste alcuna comunità.
La nostra naturale inclinazione alla superficialità ci colpisce tutti: prendiamo per buone le informazioni comunicateci da degli sconosciuti per televisione, seguiamo le vicende familiari di personaggi dello sport e dello spettacolo, ecc., ma in un mondo che cambia dobbiamo necessariamente adattarci ai nuovi pericoli e sviluppare degli antidoti alle nuove insidie.

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IL CASO CELEBRE
de1
JOSEPH GOEBBLES

 

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3.c.10 – Anche i pettegolezzi hanno una funzione importante?

9 Luglio 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

Anche i pettegolezzi hanno una funzione importante?

Il pettegolezzo viene spesso confuso con la maldicenza; in realtà diventa tale solo quando riferisce menzogne e calunnie, negli altri casi la sua funzione naturale non è quella di distruggere la reputazione di una persona attraverso fatti distorti, bensì quella di svelarne la vera identità morale o di riportare fatti di pubblico interesse.
Il pettegolezzo ha quindi l’obiettivo di trasferire informazioni all’interno della comunità riguardo alla personalità dei suoi membri e, sebbene spesso poco rispettoso della privacy, è di evidente utilità poiché i fatti che riguardano i comportamenti delle persone con cui conviviamo e interagiamo inevitabilmente riguardano anche noi, sono fatti da conoscere nel nostro interesse.
Si tratta dunque della primaria fonte d’informazione da sempre usata nelle comunità ed è per questo che le siamo così legati; come abbiamo visto per le superstizioni anche i pettegolezzi non hanno solo aspetti negativi ed hanno un importante funzione sociale. Dobbiamo però ribadire che tale funzione rimane valida in una vera comunità e nei confronti dei membri della stessa; purtroppo l’inquinamento psicologico sempre più diffuso ci porta a identificare come membri della nostra comunità i personaggi famosi presentati dai mass media, quando magari si tratta di persone che vivono in stati lontani, con cui non avremo mai alcun rapporto diretto e che sentiamo parlare attraverso la voce di un doppiatore o di un interprete. Ecco perché ci interessiamo tanto dell’infedeltà coniugale della tale attrice o dei problemi di tossicodipendenza del tale campione sportivo, in pratica attiviamo la nostra naturale attitudine al pettegolezzo senza renderci conto che in questi casi non è di alcuna utilità, anzi può risultare nociva nel momento in cui toglie spazio importante alle informazioni di cui abbiamo veramente bisogno.
In una comunità il pettegolezzo viene effettuato da ogni membro nei confronti di tutti gli altri, ma in una popolazione che annovera milioni di membri c’è bisogno di pettegoli professionisti che vengono definiti giornalisti. Qual è infatti la funzione del giornalista se non quella di rendere pubblici i fatti di comune interesse? Si tratta di una funzione tanto fondamentale quanto delicata perché, essendo svolta in modo professionale, acquista automaticamente una maggiore autorevolezza e quindi è in grado di influenzare l’opinione del resto della popolazione.

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GIORNALISTA

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3.c.11 – Sappiamo interpretare le informazioni?

10 Luglio 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

Sappiamo interpretare le informazioni?

Abbiamo detto che il punto di partenza della nostra conoscenza è rappresentato dalle sensazioni che riceviamo dall’ambiente mentre il resto è dato dalla nostra immaginazione, la quale però non produce fantasie arbitrarie, ma razionali, ovvero coerenti con le esperienze che andiamo accumulando. Immaginazione e ragione sono gli strumenti con cui la nostra mente elabora le informazioni che riceve, tuttavia sappiamo anche che la nostra psiche ha anche altre esigenze oltre alla coerenza: ai fini della sopravvivenza noi dobbiamo trovare soluzioni ai nostri problemi e dobbiamo farlo in tempi rapidi, inoltre dobbiamo anche preoccuparci di mantenere stabile il nostro sistema di credenze; può capitare quindi che la coerenza con i fatti oggettivi passi in secondo piano rispetto a queste ultime esigenze.
Bisogna ricordare che anche disponendo di informazioni vere, queste possono essere male interpretate o mal gestite per vari motivi, ad esempio:
• il giusto modo di collegare ed interpretare le informazioni in nostro possesso può risultare difficile da intuire a causa di casi apparentemente simili che ci traggono in inganno; se per esempio vediamo una persona sdraiata su una panchina è più facile dedurre che sia un barbone o a un ubriaco piuttosto che una persona che si è sentita male;
• le informazioni vengono interpretate sulla base della cultura già in nostro possesso, includendo nella cultura anche il nostro consueto modo di ragionare; dato che quest’ultimo è basato sui già citati percorsi mentali che noi memorizziamo ascoltando gli altri, se non disponiamo della giusta cultura non saremo in grado di interpretare bene i fatti. Si tratta di un fenomeno molto comune, sappiamo tutti che le superstizioni si rafforzano nella mente di una persona perché questi continua meccanicamente ad interpretare male i fatti; chi per esempio si affida a un portafortuna tende ad associare ogni evento positivo al possesso del proprio amuleto e sarà sempre più convinto dei poteri dello stesso;
• le informazioni possono essere alterate, ignorate e associate in modo assurdo per soddisfare esigenze psicologiche di vario tipo come affermare la propria superiorità esaltando o inventando i difetti altrui; è il caso dei maldicenti che, in buona fede, tendono a denigrare le altre persone tanto più queste sono virtuose per lenire il proprio senso di inferiorità.
Siamo inoltre abituati a pensare che la veridicità delle informazioni sia sufficiente ad assicurarne la validità, ma un elemento che non deve mai mancare è la completezza delle stesse rispetto al fine che stiamo perseguendo. Se pensiamo ad un qualsiasi teorema di geometria studiato a scuola probabilmente non ricorderemo i particolari, ma rammentiamo come fosse sostenuto da una dimostrazione che partiva da delle premesse e che, dopo vari passaggi, con una logica schiacciante terminava in una conclusione. Passaggio dopo passaggio tutte le ipotesi venivano sfruttate e tutte erano necessarie; ne fosse mancata solo una la dimostrazione si sarebbe interrotta oppure avrebbe portato ad un risultato assurdo. Per capire il mondo che ci circonda, non bastano dunque informazioni vere, ma è necessario che siano anche complete, cioè sufficienti a dare un giusto giudizio; a conferma di ciò basta ricordare quanto sia facile stravolgere un discorso tagliandone opportunamente alcune parti: mancando alcune informazioni necessarie l’interpretazione delle stesse risulterà completamente compromessa o porterà addirittura a risultati opposti.
Se vogliamo evitare od almeno ridurre questo tipo di problemi dobbiamo di nuovo ricorrere all’esperienza diretta; se le nostre idee sono sbagliate, prima o poi si riveleranno in contrasto con la realtà dei fatti e a questo punto dovremo essere bravi a dubitare delle nostre convinzioni. In alcuni casi però, nonostante che la nostra visione del mondo sia in palese contrasto con l’evidenza dei fatti, la nostra mente rifiuta inconsciamente di accorgersene, in altre parole vogliamo sbagliare anche se non lo sappiamo.
In tali circostanze dobbiamo lasciare che siano gli altri a farci notare le suddette discordanze ed avere poi la forza e l’umiltà di ascoltare le loro critiche; in questo contesto allora l’umiltà è un valore che dobbiamo imparare ad apprezzare; rivedere le nostre posizioni, non è certo una cosa facile, spesso comporta uno sforzo enorme, ma è necessario per non rimanere chiusi in un gretto dogmatismo.
I principi fondamentali del metodo scientifico possono dunque essere utilizzati anche in altri ambiti ed integrare la nostra naturale attitudine alla conoscenza, aumentando le nostre capacità di avvicinarsi alla verità.

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3.c.12 – La storia è una forma importante di conoscenza?

11 Luglio 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

La storia è una forma importante di conoscenza?

La nostra conoscenza e le esperienze su cui si basa devono essere conservate per poter essere utilizzate; la memoria ha appunto questa funzione, in essa ritroviamo tutti gli avvenimenti importanti della nostra vita, cioè la nostra storia personale. Quello che siamo oggi dipende dal nostro passato e quindi anche la nostra capacità di affrontare il futuro dipende da esso.
Sappiamo bene che, grazie alla cultura, noi possiamo fare tesoro anche dell’esperienza altrui, possiamo imparare non solo dai nostri errori, ma anche da quelli degli altri e quindi, a fianco della nostra storia personale, assume una fondamentale importanza anche la nostra storia collettiva, che può essere intesa come storia dell’umanità intera, del nostro popolo o solo della nostra famiglia, a seconda dei casi.
Cosa merita di essere ricordato come evento storico? Si possono seguire due scuole di pensiero principali: la prima sostiene che è bene tramandare il più possibile poiché una cosa che oggi appare insignificante in futuro potrebbe rivelarsi di grande importanza; la seconda afferma che è bene concentrarsi sugli eventi che ci aiutano di più a ricostruire il passato e i suoi cambiamenti, soprattutto in alcuni aspetti principali come politica, economia e tecnologia, fattori strettamente legati sia fra loro, sia alla vita dell’uomo.
La storia è uno strumento prezioso per capire il presente ed imparare dagli errori del passato, il suo fine è dunque quello di aiutarci sia a vivere nel mondo attuale, sia ad affrontare meglio il futuro grazie a secoli di esperienza. Partendo da questo punto di vista la storia deve essere considerata come un insegnamento con applicazioni anche pratiche che, come per ogni altra fonte di sapere, sono difficilmente prevedibili; non potendo conoscere in anticipo la reale importanza degli eventi storici, sembra corretto cercare di tramandarli indistintamente il più possibile; come abbiamo visto è lo stesso principio su cui si basa la curiosità umana, siamo curiosi un po’ di tutto poiché tutto potrebbe poi rivelarsi utile. Questo tipo di approccio è sicuramente giusto da parte di un ricercatore, di uno storico professionista e soprattutto da parte della collettività in generale; quest’ultima deve infatti cercare di non perdere nulla del suo patrimonio storico così come un bambino deve trarre il massimo profitto dalle sue esperienze per prepararsi alla sua vita futura. Da parte di un singolo individuo, che non sia uno storico, questo metodo è però improponibile, sia perché troppo impegnativo, sia perché una grande massa di eventi, che si rivelerà poi di nessuna importanza per il singolo, toglierebbe spazio a quelli per lui veramente utili e l’esperienza del passato diverrebbe inutilizzabile; analogamente a quanto abbiamo già visto per la cultura, una selezione degli eventi storici è dunque necessaria.
Il singolo utente della storia deve trarre da essa un insegnamento utile; è quindi logico concentrarsi su eventi la cui utilità è già nota; le nozioni di storia più importanti sono dunque quelle che più ci aiutano a capire il presente e ad evitare di ripetere gli errori del passato o almeno quelli che oggi riteniamo tali. Lo studio della storia deve allora partire dal presente più che da un lontano passato, attraverso la scelta di argomenti in qualche modo attuali.
Purtroppo tutti possiamo constatare che nei programmi scolastici di tutte le epoche la selezione e la presentazione degli argomenti non mira tanto a far capire il presente quanto a giustificarlo da un punto di vista politico, a rendere omaggio alla classe dominante e ad educare gli studenti a fare altrettanto; altre volte invece si mantiene semplicemente la scelta fatta secoli prima dagli educatori del passato.
La storia dunque si presenta come una disciplina assai preziosa, ma gestita molto male, tanto da renderla diseducativa in casi estremi; ciò ad esempio avviene quando si esaltano lunghe dinastie di sovrani con le loro guerre di conquista, oppure quando si celebra l’espansione coloniale occidentale come un avanzamento della civiltà contro le barbarie dei selvaggi, ecc..
La storia ha molto da insegnare all’uomo comune di oggi e deve far parte della cultura di base di ciascuno; se essa si ripete anche negli errori è perché la gente non ha capito la lezione, non ne ha tratto il giusto insegnamento. Si ricordi poi che da un punto di vista genetico non vi è sostanziale differenza fra il cervello degli uomini di oggi e quello degli antichi Egizi, Babilonesi e Romani; la differenza è puramente culturale e se la cultura, attraverso la storia, non ci aiuta ad evitare gli errori (e gli orrori) del passato è ovvio che questi saranno ripetuti, come in effetti è già avvenuto tante volte.
La storia fra l’altro ci insegna che le conquiste culturali non possono considerarsi acquisite per sempre, benché diffuse e scritte a futura memoria. Il Medio Evo occidentale per esempio, come tutte le epoche storiche avrà avuto anche degli aspetti positivi, ma viene ricordato come un’epoca buia, di regresso culturale, economico, civile e morale; non è un caso che proprio in questo periodo sia andata perduta una notevole parte di memoria storica delle epoche precedenti; questo fatto non è stato la causa del regresso, ma certamente ha contribuito a renderlo stabile e ad aumentare così le difficoltà per il superamento dello stesso.
Innumerevoli testi antichi sono stati persi o dimenticati e con essi millenni di esperienza, non solo tecnologica, accumulata dal susseguirsi di diverse civiltà (Egizia, Persiana, Greca, Romana); in epoca rinascimentale molto è stato recuperato, ma una parte notevole è rimasta nell’oblio. Si tratta di una perdita della quale ancora oggi subiamo le conseguenze perché riduce il numero di modelli di comportamento a cui ci possiamo ispirare, facilitando così l’adesione a false credenze assai poco valide per mancanza di alternative.
Nell’epoca delle conquiste spaziali, del consumismo di massa e del suffragio universale non è facile convincersi di vivere, per certi aspetti, ancora nel Medio Evo e meno che mai di poter regredire fino ai momenti peggiori dello stesso. Cosa succedeva nei momenti peggiori di quell’epoca che consideriamo superata? Proviamo a ricordare insieme:
• si combatteva per anni nelle crociate in medio oriente; atroci e reiterati conflitti molto simili alle finora due guerre del golfo;
• il potere religioso era assoluto e induceva le masse a comportamenti uniformi; un diffuso plagio mentale che ricorda molto quello della pubblicità commerciale o della propaganda politica;
• la classe dominante opprimeva la popolazione con balzelli di ogni tipo; uno stillicidio continuo che ancora oggi si rinnova ad ogni manovra di politica economica;
• la popolazione aveva un atteggiamento di sudditanza rispetto alla classe dominante, lasciandosi pilotare dalla sua demagogia ed accettando il suo ruolo di subordinazione; una situazione ancora largamente diffusa;
• la popolazione era socialmente frammentata in singoli nuclei familiari privi di una struttura sociale superiore che consentisse una forma di diretta organizzazione politica; proprio come oggi dunque era necessario che venisse governata dall’alto;
• venne imposto il celibato al clero; una regola contro natura e come tale puntualmente disattesa, ma ancora oggi in vigore;
• era diffuso il nepotismo; una selezione fra i protetti piuttosto che fra i meritevoli che attualmente non sembra dimenticata;
• era facile morire per carestie, epidemie e morte violenta, tali eventi erano giustamente accettati come inevitabili; oggi allo stesso modo vengono accettate le morti per incidenti stradali, infortuni sul lavoro e criminalità anche se non sono affatto inevitabili, dimostrando così una consapevolezza inferiore a quella del medioevo;
• i potenti potevano esercitare un diritto di veto rispetto a decisioni di autorità collegiali; una prerogativa poco democratica, ma tutt’ora presente anche nell’Organizzazione delle Nazioni Unite.
A parte le suddette considerazioni, il più grande pericolo di regresso dei nostri giorni non è rappresentato dalla perdita di conoscenze culturali, bensì dalla perdita dei valori, una perdita non meno grave che può minare la convivenza sociale. Ecco allora che il valore della conoscenza, con riguardo alla consapevolezza circa la natura e il ruolo dei valori umani, assume oggi un’importanza fondamentale.

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pillola n. 31 – L’IMPORTANZA DELLA STORIA pillole_slide_31
 
 

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3.c.13 – Quale è la nuova sfida nel campo dell’educazione?

12 Luglio 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

Quale è la nuova sfida nel campo dell’educazione?

La conoscenza ovviamente non deve solo essere ricordata, ma anche tramandata; un valore inseparabile da essa è pertanto quello dell’educazione intesa come insegnamento, come formazione nel senso più ampio del termine. In precedenza abbiamo detto che gli interessi culturali non sono stabiliti razionalmente, essi si sviluppano secondo tendenze naturali che, in quanto tali, non sono eliminabili, ma allo stesso tempo sono sempre integrabili da un’opportuna e razionale educazione.
I programmi scolastici e le tecniche di insegnamento però non considerano molto le tendenze naturali e preferiscono basarsi su delle tradizioni, talvolta antiquate, che pertanto possono e devono essere eliminate.
L’evoluzione culturale non si ferma mai e in un mondo che cambia velocemente il problema di un aggiornamento costante diviene sempre più rilevante. Un tempo i genitori crescevano e vivevano in un mondo assai simile a quello dei figli e l’insegnamento ricevuto dai nonni poteva essere trasmesso ai nipoti in modo integrale senza grandi modifiche. Come sappiamo oggi la situazione è molto cambiata, i figli crescono in un mondo sensibilmente diverso da quello dove sono cresciuti i genitori e profondamente diverso da quello dei loro nonni tanto che oggi sono i nonni che chiedono consiglio ai nipoti e non viceversa. L’evoluzione è divenuta così rapida che lo stesso individuo vive la propria infanzia in un’epoca diversa da quella in cui invecchierà e già nell’età adulta avrà notato notevoli cambiamenti.
Per nostra fortuna l’uomo da sempre sopravvive grazie ad un ingegno creativo ottenuto dall’estensione all’età adulta della vivace intelligenza dei bambini, dal punto di vista intellettuale rimaniamo infatti sempre notevolmente giovani rispetto al corpo; questo ci consente di continuare ad apprendere sempre con una certa facilità, una facoltà che è sempre stata utile, ma che oggi siamo costretti a sfruttare in modo molto più intenso. Diventano sempre più numerose le attività lavorative che prevedono regolari corsi di aggiornamento e si sta affermando l’idea che nella vita adulta sia necessaria una formazione permanente che affianchi le normali attività.
La sfida del presente e dell’immediato futuro sembra dunque essere quella di un’educazione degli adulti in un continuo aggiornamento, impresa che presenta notevoli difficoltà: un tempo gli adulti insegnavano ai bambini i quali, raggiunta la maturità, apprendevano principalmente per esperienza diretta; la prima gioventù era il periodo dedicato all’apprendimento e la maturità quello riservato al lavoro applicando quanto appreso; oggi il periodo di apprendistato prosegue fino alla vecchiaia ed è lecito chiedersi chi debba insegnare agli adulti. Certo i bambini non sono in grado di farlo e lo stesso vale per gli anziani, poiché nessuno li ha preparati per questo; dunque gli adulti devono arrangiarsi da soli, producendo nuova conoscenza. Una tale attività di autoformazione è in effetti naturale per gli esseri umani, ma in misura limitata e tendenzialmente individuale; le conoscenze complesse richiedono molto tempo per formarsi e diffondersi, a volte è necessaria più di una generazione, procedendo passo dopo passo grazie al contributo di diversi individui.
Nel tempo presente il numero di persone impegnato nell’innovazione tecnologica è molto superiore rispetto al passato e per sfruttare la collaborazione di tanti individui si sono sviluppati anche nuovi modelli di organizzazione; tutto questo ha portato ad una notevole accelerazione dell’evoluzione tecnologica e tale successo ha portato all’estensione degli stessi principi alla gestione aziendale, con particolare riferimento alla formazione dei dipendenti.
Una componente fondamentale della formazione degli adulti è un’organizzazione che consenta di riunire le nuove idee che sorgono in un grande numero di individui, selezionarle e ridistribuirle a tutti. Si tratta di un nuovo modo di applicare l’antica strategia del gruppo al fine di produrre una nuova conoscenza che ci permetta di affrontare i nuovi problemi presentati dalla nostra evoluzione. 

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3.c.14 – La scuola ha ancora un ruolo educativo?

13 Luglio 2009 — Riccardo Sabellotti - Giacinto Sabellotti

La scuola ha ancora un ruolo educativo?

Dagli studi sulla formazione dei dipendenti si è scoperto che insegnare agli adulti non è proprio la stessa cosa che insegnare ai bambini; vi sono notevoli differenze psicologiche che influenzano profondamente la capacità di apprendimento e quindi certi metodi funzionano meglio con gli adulti, altri con i bambini.
È curioso notare come nell’antichità, ad esempio nelle scuole filosofiche del mondo greco-romano, insegnare a degli adulti fosse cosa piuttosto comune e che venisse fatto in modo diverso rispetto ai bambini; sembra che in questo campo fossero più avanzati rispetto alla quasi totalità delle istituzioni scolastiche del ventesimo secolo, strutturate secondo il modello tipico dell’insegnamento ai piccoli. Insegnare ai grandi è un’arte caduta in disuso dal medioevo e, come tante altre tradizioni culturali, non è stata più recuperata, tuttavia si è cercato di ricostruirla ripartendo da zero su basi scientifiche ed oggi, sebbene poco diffusi, sono disponibili nuovi modelli di insegnamento, alternativi a quelli tradizionali.
Uno dei più importanti risultati raggiunti è l’aver capito che i metodi di apprendimento di un singolo individuo variano con il suo grado di maturità e quindi anche i metodi di insegnamento devono fare altrettanto per ottenere la massima efficacia. I ragazzi devono dunque essere seguiti nel loro sviluppo dalla scuola, che passerà gradualmente da un approccio da scuola elementare a quello di un corso di formazione per adulti.
Questo cambiamento coinvolge certamente anche il ruolo dell’insegnante, che è sempre stato importante, ma che ora deve essere valorizzato ancora di più, sia perché è diventato più complicato e difficile, dovendo cambiare strategie secondo il tipo di alunno, sia perché è aumentata la sua importanza per la società: chi più degli insegnanti deve essere sempre aggiornato per preparare i giovani ad un mondo in perenne cambiamento? Il valore di un servizio ovviamente deve essere riconosciuto dal cliente, cioè dagli allievi e, nel caso dei bambini, dalla famiglia che deve educare i piccoli al valore della conoscenza cominciando proprio dal rispetto da portare all’insegnante; tale figura deve essere, dopo i genitori, il punto di riferimento educativo più importante e, proprio come i genitori, deve seguire gli allievi nel loro sviluppo aiutandoli a divenire più maturi ed indipendenti fino ad essere allievi adulti e, nei limiti delle proprie possibilità, produttori di nuova conoscenza. La scuola deve dunque mantenere il suo ruolo educativo ancor più di quello istruttivo poiché l’istruzione continuerà anche da adulti, mentre per preparare una nuova generazione a seguire un percorso di formazione permanente è necessaria fin dall’inizio un’opportuna educazione, basata sul valore della conoscenza, della ricerca, dell’innovazione e di un continuo aggiornamento.

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