L’economia non è una cosa che riguarda solo il singolo individuo, ma anche gruppi ed intere comunità, con tutte le relazioni interne che si possono creare.
Le relazioni ecomomiche sono una componente importantissima di tutte le società, non possiamo ignorarle.
Ecco perché questo secondo corso di economia elementare è dedicato appunto alle relazioni economiche fra esseri umani ed alle comunità.
Ripassiamo insieme alcuni concetti fondamentali:
bene = tutto ciò che è idoneo a soddisfare un bisogno
risorsa = tutto ciò da cui si ricava un qualche bene
Inoltre sappiamo che ognuno di noi in una comunità è circondato da una rete di beni che è come una rete di canali che parte dalle risorse naturali per giungere fino a noi.
La comunità stessa è una risorsa poiché è da essa che in genere riceviamo quello che proviene dalle risorse naturali; è nella comunità che i beni presi dalla natura sono lavorati e preparati per noi, inoltre tantissime attività che noi svolgiamo sono attività collettive che non eseguiamo da soli, bensì ci appoggiamo ad un gruppo, cioè una parte della comunità. Dovendo parlare di comunità, di azioni collettive e di gruppi organizzati è bene introdurre qualche altro semplice concetto.
Rapporto economico: una qualunque relazione fra esseri umani o fra esseri umani e l’ambiente che coinvolge la gestione di beni e servizi.
Sistema: qualcosa composto da più parti che sono in relazione fra loro.
Modello mentale (o ideale): rappresentazione mentale di qualcosa, che può essere sia una cosa reale e concreta, sia immaginaria.
Un sistema economico è un sistema le cui parti sono legate fra loro da rapporti economici. Quando qualcuno esamina la propria economia personale in genere ha in testa un modello che è un sistema composto da due parti: se stesso e l’ambiente che lo circonda (la comunità, la natura, lo Stato, l’azienda dove di lavora). L’uomo ha delle esigenze e prende dall’ambiente ciò che gli serve per soddisfarle (i beni).
Ovviamente si tratta di un modello semplificato della realtà. Tale modello si può applicare ad ogni uomo, ad ogni animale e ad ogni cosa abbia bisogno di un qualcosa di esterno per funzionare. Se consideriamo un’automobile infatti, essa necessita di regolari rifornimenti di carburante dal mondo a lei esterno; senza di essi si deve fermare, inoltre se vogliamo che un pieno di benzina duri il più a lungo possibile dobbiamo progettarla in modo che consumi il meno possibile, ovverosia deve fare economia di benzina.
Abbiamo considerato fino ad ora un sistema molto semplice con due soli elementi: l’ambiente che fornisce i beni e qualcosa che li consuma. Spesso è necessario considerare sistemi più complicati, ovvero con più elementi. Immaginiamo due villaggi che consumano l’acqua proveniente dallo stesso fiume; avremo tre elementi: il fiume e i due villaggi.
Da notare che in questo caso l’ambiente è rappresentato dal solo fiume, perché a noi interessava solo il consumo dell’acqua. Inoltre non abbiamo considerato ogni singolo abitante dei villaggi poiché evidentemente volevamo studiare il consumo generale di ognuno dei due villaggi. In altre parole si usa rappresentare il mondo con dei sistemi economici diversi secondo l’uso che vogliamo farne. Inoltre la nostra conoscenza del mondo è sempre limitata, quindi non possiamo fare un modello identico alla realtà. Si tratta dunque sempre di modelli semplificati secondo le nostre necessità.
Un sistema viene detto chiuso quando non ha contatti con il mondo esterno, in caso contrario viene detto aperto. Sempre in base al tipo di studio che vogliamo fare, possiamo vedere un insieme di elementi come un sistema aperto oppure come parte di un sistema più grande. Ad esempio l’Italia può vedersi come un sistema economico aperto in quanto ha rapporti economici con il resto d’Europa, oppure come parte del sistema economico europeo (fra l’altro aperto a sua volta). Secondo la nostra comodità nello studio economico che dobbiamo fare, sceglieremo il punto di vista più appropriato. Dato un sistema chiuso, questo dovrà avere al suo interno tutte le risorse naturali necessarie ad alimentare la distribuzione di beni e servizi all’interno del sistema. Se invece consideriamo un sistema aperto, alcune risorse possono anche mancare ed al loro posto troveremo dei contatti commerciali con l’ambiente esterno, spesso indicato come “resto del mondo”.
Per definizione dentro un sistema economico dobbiamo trovare elementi legati fra loro da rapporti economici, ovvero legami che implicano la gestione di beni e servizi. Ci dobbiamo aspettare quindi di trovare una o più risorse naturali che producono altrettanti beni, detti anche “materie prime”, in quanto non derivano dalla lavorazione di altri beni. Un esempio è la sorgente che produce acqua. Poi troveremo chi utilizza questi beni, chiamati “consumatori” poiché consumano i beni prodotti. Nel caso della sorgente avremo tutti quelli che vi si recano e bevono subito oppure riempiono bottiglie e contenitori vari per portarli a casa. Molto spesso, tuttavia, ci troviamo davanti a sistemi più complicati, infatti prima di arrivare ai consumatori molti beni subiscono vari tipi di lavorazioni che avvengono in genere nelle industrie o nelle botteghe artigiane. Anche l’acqua di una sorgente può essere prelevata e indirizzata in uno stabilimento in cui viene imbottigliata e spedita magari in una città lontana. Allo stesso modo il legname viene preso da una foresta, poi subisce una prima lavorazione nella segheria, da questa giunge al falegname che poi realizza porte, sedie e tavolini. Ecco che si forma quella catena di lavorazione detta filiera, che dalle risorse naturali porta fino a noi, cittadini comuni nel ruolo di consumatori. In un sistema economico quindi possiamo trovare almeno tre tipologie di elementi: le risorse naturali, le attività produttive (industrie e artigianato), i consumatori.”.
Proseguiamo la nostra esplorazione all’interno di un sistema economico. In base a quanto detto prima fra le sue parti vi devono essere dei rapporti economici; ne possiamo individuare diversi tipi: uno di essi è la condivisione. Per esempio all’interno di una singola famiglia, all’interno di molte comunità religiose, in alcune comunità tribali, molti beni sono infatti condivisi. Ciò vuol dire che lo stesso bene è usato da più persone: ad esempio la stessa penna può essere usata da tutti i membri di una famiglia, ovviamente in tempi diversi, così come allo stesso modo si può condividere una bicicletta o un vestito. Una casa o un televisore sono invece beni che possono essere usati da più persone allo stesso tempo; vi sono però anche beni a consumo immediato come i fazzoletti di carta, una pizza o una bibita, non possono essere consumati da più persone. In questo caso si condivide la risorsa, infatti tutti possono prendere un fazzoletto dallo stesso pacchetto, una fetta dalla stessa pizza ed un bicchiere dalla stessa bottiglia. La ripartizione del bene condiviso implica che ad ognuno spetta una parte a suo uso e consumo esclusivo, quella parte è sua. Da qui possiamo allora introdurre il concetto di proprietà: il diritto di usare in modo esclusivo un bene.
Per quanto possano apparire concetti banali, la condivisione e la proprietà sono state oggetto storicamente di infinite discussioni e contrasti da parte di filosofi, religiosi ed economisti. In nocciolo del problema è “come” eseguire la ripartizione ovvero come distribuire i beni comuni, quali la terra ed i suoi prodotti, nella società. Infatti se qualcuno rimane escluso dalla distribuzione non ha più senso parlare di condivisione bensì piuttosto di esclusione, prepotenza o furto. La proprietà può infatti derivare tanto dalla condivisione quanto dalla sopraffazione che dona diritti esclusivi a qualcuno escludendo gli altri.
Eseguire la ripartizione vuol dire anche distribuire la proprietà, quindi si pone il problema di riconoscerla e tutelarla con leggi opportune e di difenderla nella pratica dai ladri. Riassumiamo, per concludere, dicendo che un bene, come una torta alla panna, può essere condiviso, ripartito e posseduto ma anche rubato. La condivisione è una relazione fra quelli che mangiano la torta, la ripartizione è una relazione fra la torta ed i commensali, la proprietà è una relazione fra la singola fetta ed il suo possessore. Il furto (da un punto di vista economico) invece è una relazione fra un proprietario e uno che non lo è.
Donare vuol dire dare un proprio bene a qualcun altro rinunciando ad usarlo per sé, quindi la proprietà del bene passa a questa seconda persona senza che si riceva qualcosa in cambio. Si tratta dell’esatto contrario del furto. Si può donare anche un servizio: ad esempio, se sono un meccanico ed eseguo una riparazione per un amico senza chiedere un pagamento, ho donato il mio lavoro. Quando il servizio è considerato di piccola entità viene in genere chiamato favore. Fare un favore a qualcuno vuol dire prendersi cura di lui, occuparsi delle sue esigenze. Qualcuno potrebbe domandarsi per quale motivo uno dovrebbe attuare un comportamento simile. All’interno di una famiglia è normalissimo prendersi cura l’uno dell’altro; inoltre, per tutti gli animali sociali è abbastanza normale adottare un simile comportamento anche all’interno della propria comunità, che si può vedere come una sorta di famiglia estesa. All’interno delle comunità tribali, dove tutti i membri sono legati da vincoli di parentela più o meno stretti, è scontato che nei rapporti siano frequenti condivisioni e favori. A questo punto, però, possiamo notare un fenomeno molto importante: data la frequenza dei favori all’interno di una piccola comunità questi diventano reciproci, cioè prima o poi, se Tizio fa un favore a Caio, capiterà anche che Caio farà un favore a Tizio. In una famiglia, in un gruppo di amici, in una società tribale, le occasioni di prendersi cura l’uno dell’altro capitano in continuazione, confermando tutte le volte i legami di amicizia, parentela e appartenenza sociale. Si arriva quindi ad un continuo scambio di favori che assume il ruolo di collante sociale: è il segno che si appartiene alla stessa tribù, famiglia o gruppo di amici; lo stesso si può dire anche per gli scambi di doni. Per ovvi motivi il furto ha il significato opposto come pure la mancata condivisione poiché anche la condivisione è tipica dei rapporti di parentela o amicizia. Lo scambio di favori e quello di doni sono rapporti economici? In base alla definizione che abbiamo dato in precedenza possiamo dire di sì. Da notare che il fine non è un ragionato profitto, bensì soddisfare l’istinto e la tradizione di aiutarsi l’un l’altro. Tuttavia possiamo immaginare un guadagno più grande di questo? Tale comportamento basato sui buoni sentimenti e valori quali la famiglia e la piccola comunità risulta certo economicamente molto vantaggioso, permettendo la collaborazione, la specializzazione ed una equa distribuzione dei beni disponibili. Essendo un processo continuo all’interno della vita quotidiana non ha molto senso domandarsi se un favore fatto sarà restituito: doni, condivisioni e favori vanno e vengono di continuo con le persone con cui si condivide la casa, il villaggio e quindi la vita.
Se passiamo ad esaminare gli scambi fra villaggi diversi, con persone quasi estranee o con le quali ci si vede due volte l’anno, troviamo significative differenze nei rapporti economici. In questo caso ciò che viene donato non può tornare indietro in tempi brevi quindi si rimarrebbe a lungo con qualcosa in meno e per giunta a vantaggio di qualcuno che per noi è in pratica un estraneo. I rapporti economici interni al villaggio non sono altrettanto convenienti all’esterno, infatti da sempre sappiamo che gli scambi fra villaggi diversi avvenivano secondo lo schema del baratto: io do una cosa a te e tu dai una cosa a me. Questo tipo di scambio economico viene detto scambio commerciale: anche tale scambio porta dei vantaggi sia al singolo che alla comunità. Sia l’uno che l’altra infatti in questo modo possono disporre di beni che altrimenti non avrebbero. Vanno comunque notate alcune importanti differenze: il baratto si può eseguire anche con perfetti estranei che si vedono una sola volta nella vita senza impoverirsi anzi guadagnandoci; può non avere alcuna influenza nei rapporti personali, cioè essere estremamente “freddo”; può essere vantaggioso imbrogliare; vi è una nettissima distinzione fra ciò che è mio e ciò che è dell’altro. In conclusione sia il dono che il baratto portano vantaggi economici ma funzionano in contesti diversi.
Nella nostra società, fittamente popolata da estranei, ecco che gli scambi commerciali divengono dominanti: sono infatti usati a volte anche con amici e conoscenti con i quali in effetti non possiamo condividere la vita come ai tempi del villaggio tribale; lo scambio di favori rimane quindi limitato alle piccole cose e tutto il resto avviene per via commerciale, perdendo molta della sua funzione di rafforzamento dei rapporti sociali. Infatti il baratto fra amici, sia pure importante e vantaggioso, appare sempre più freddo di un piccolo dono. Il vero problema comunque non è tanto quale sia migliore fra dono e baratto, poiché sono entrambi migliori nel loro giusto contesto; il vero problema è usarli male, fuori della loro natura, come per esempio far pagare un piccolo favore ad un amico o farsi sfruttare da un estraneo che non ci vuole bene ma ci considera solo dei polli da spennare.
Condividere, donare e barattare sono comportamenti che risultano vantaggiosi per tutti; inoltre favoriscono i buoni rapporti sociali e la collaborazione in quanto ciascuno diventa fonte di guadagno per gli altri. Tuttavia che cosa succede quando le risorse sono insufficienti a soddisfare le esigenze di tutti? La condivisione lascia scontenti tutti: c’è assai poco da donare e non si può barattare ciò che non si ha. Da quando esiste la vita sulla Terra sappiamo che oltre alle forme di collaborazione esistono anche forme di competizione e di sfruttamento. Nella competizione i beni vengono usati da chi riesce a prenderli e mantenerli in suo possesso, quindi chi è più bravo ne avrà di più e gli altri ne avranno di meno o niente. Anche fra gli animali sociali, per loro natura collaborativi, troviamo varie forme di competizione, persino all’interno dei nuclei familiari: spesso i cuccioli si contendono il cibo, i bambini si contendono i giocattoli; i grandi si contendono il cibo, le femmine, il territorio, il rango sociale. Le stesse comunità entrano in competizione per il territorio od altre risorse economiche. Anche nelle antiche società tribali erano frequenti guerre fra tribù confinanti per contendersi i territori di caccia o altre risorse. Questi comportamenti li abbiamo ereditati dalla nostra storia evolutiva insieme alla nostra natura animale.
I meccanismi competitivi permettono in una comunità oppressa da una eccezionale carestia che alcuni si mantengano in buona salute e rimangano competitivi con le altre comunità o con le avversità dell’ambiente, mentre altri sono destinati invece a soccombere o comunque a rischiare di più degli altri. Se gradualmente la disponibilità dei beni aumenta, la competizione sarà meno intensa, se infatti ognuno riesce ad avere una parte sufficiente il risultato finale sarà simile a quello della condivisione. Non sempre però i nostri istinti sono in grado di autoregolarsi in base alla situazione e non è raro trovare meccanismi estremamente competitivi anche dove non sarebbe necessario.
Da notare che nella competizione alcuni vincono ed altri perdono, quindi risulta vantaggiosa solo per alcuni e dannosa per altri, quindi è intrinsecamente iniqua. Tuttavia la sua disparità dipende, caso per caso, dall’abbondanza delle risorse e dal livello più o meno esasperato con cui si manifesta. Se le risorse sono abbondanti e la differenza fra ciò che ottiene chi arriva primo e chi arriva ultimo è poca, allora possiamo dire che non vale la pena accanirsi più di tanto per vincere la gara, essendo minimo sia il danno per chi perde che il guadagno per chi vince. Nella situazione opposta, portata alle estreme conseguenze, troviamo invece che chi arriva ai primi posti sopravvive e chi arriva agli ultimi soccombe; il danno è gravissimo per alcuni come il guadagno è di inestimabile valore per altri: la competizione sarà elevatissima.
La competizione si può manifestare in diverse forme: a volte vi sono dei “concorrenti” che si confrontano fra loro superandosi in prove dello stesso tipo, come gli atleti alle olimpiadi che si contendono il podio. Alcuni vincono e altri perdono tuttavia tutti devono superare lo stesso tipo di prova, che sia la corsa, il nuoto od il salto con l’asta. In tal caso parleremo di “concorrenza”. Ma se uno ruba da mangiare, di nascosto, al proprio vicino di casa, certo è in atto una competizione per il cibo ma non ha nulla di “sportivo”. Il derubato non può realmente “competere” con il ladro, a meno che non sappia chi è e lo derubi a sua volta. Certo può difendere la sua proprietà con porte, catene e lucchetti ma si tratta di comportamenti totalmente diversi da quelli del ladro. Queste forme di competizione mirano a danneggiare chi non si può difendere come fanno i lupi con gli agnelli. Ecco che dalla concorrenza si passa alla predazione oppure, volendo usare un termine più delicato, allo sfruttamento. Oltre a furti, rapine ed estorsioni vi sono innumerevoli forme di sfruttamento, e non tutte dichiarate illegali: basti pensare che un tempo la schiavitù era perfettamente legale, fu abolita ufficialmente negli USA nel 1865 ed in Mauritania nel 1981, tanto per fare due esempi abbastanza recenti.
Nei grandi insediamenti urbani che si sono diffusi nel mondo in seguito alla diffusione dell’agricoltura, la circolazione e distribuzione dei beni si basa principalmente sugli scambi commerciali come il baratto. Questo perché nei grandi insediamenti i rapporti sociali sono molto stretti solo con una piccola parte della popolazione (amici e parenti), mentre con gli altri i rapporti sono molto più freddi anche quando non sono dei perfetti estranei. Nel tempo il baratto è stato soppiantato quasi ovunque dallo scambio basato sulla moneta, che è per convenzione un bene di scambio che va bene per tutti. In questo modo chi ha i soldi potrà comprare ciò che vuole, senza cercare per ogni bene qualcosa da scambiare di interesse del proprietario come invece avverrebbe con il semplice baratto. Allo stesso modo chi vuole vendere qualcosa la potrà cedere a tutti gli interessati che hanno del denaro e non solo a quei pochi con una particolare merce a disposizione. La moneta rese quindi gli scambi commerciali molto più comodi ed agevoli nelle grandi città con grande numero e quantità di merci.
Il mercato è il luogo dove avvengono gli scambi commerciali. Può essere un luogo fisico, come il mercato di frutta e verdura nella piazzetta dietro l’angolo di casa, oppure un luogo ideale: per esempio, volendo considerare insieme tutte le vendite di automobili in Italia, che avvengono in tanti posti diversi, si parlerà di mercato automobilistico italiano, che non è un luogo preciso: è tutta l’Italia vista come se fosse un unico mercato. Un bene che può essere comprato o venduto, quindi inserito in un mercato, è detto merce. Gli scambi commerciali sono dei rapporti economici di tipo collaborativo, in quanto offrono un mutuo vantaggio per le parti che effettuano lo scambio. Anche in questo caso, però, si inseriscono dei rapporti di tipo competitivo fra coloro che vendono lo stesso tipo di merce: questi infatti entrano in concorrenza fra loro, disputandosi i clienti. Anche i clienti possono entrare in concorrenza fra loro quando la merce è scarsa: ciò può realizzarsi arrivando al mercato prima degli altri oppure pagando per un bene più degli altri. Quest’ultimo fenomeno può causare un aumento del prezzo. Il prezzo è la quantità di denaro (o di merce nel caso del baratto) che è necessaria ad acquistare un bene. Possiamo trovare tuttavia anche una forma più insidiosa di concorrenza, che è quella fra venditore e compratore. Abbiamo detto che lo scambio commerciale deve essere vantaggioso per entrambe le parti per svolgere bene la sua funzione. Entro questi limiti, però, tanto meno riesco a pagare e meglio è (se compro) oppure tanto più riesco a farmi pagare per la stessa merce e tanto più ho guadagnato (se vendo): si entra quindi in concorrenza sul guadagno che si può generare nello scambio. Nel baratto il fenomeno è meno evidente ma comunque presente: dovendo scambiare zucchero con riso ognuno dei due è interessato allo scambio tuttavia cercherà di dare il meno possibile all’altro per avere il massimo vantaggio. Ecco che nel commercio vi è una componente di collaborazione e una di concorrenza difficilmente separabili. Tale comportamento può degenerare in un vero e proprio atto predatorio nel momento in cui, imbrogliando, una delle parti riesce ad annullare il guadagno per l’altra e magari, andando anche oltre, danneggiandola seriamente. Un classico esempio è quando si vende un prodotto apparentemente integro ma non funzionante o addirittura falso senza che l’altra parte ne sia a conoscenza.
Sappiamo che la stima del valore è un giudizio molto personale, basato sulle proprie necessità ed aspettative. In molti mercati venditori e compratori contrattano, ovvero cercano un accordo su quanto si debba pagare il prodotto. In questo caso la competizione è evidente mentre ognuno cerca di tirare il prezzo dalla sua parte, ovvero cercare quello più conveniente per sé senza arrivare al punto indurre l’altro a rinunciare allo scambio. Da notare che, in questo caso, il prezzo viene stabilito in base alla forza contrattuale, favorendo magari il più tenace o il più testardo, non compare alcun criterio di giustizia o di equità. Solo nel caso di due avversari di pari livello il prezzo si fisserebbe al centro fra i due estremi ripartendo in modo equo il vantaggio dello scambio. Se il commercio ha una sua natura profondamente collaborativa, la contrattazione di cui sopra è estremamente competitiva. Quando per la stessa merce vi sono diversi venditori e diversi compratori sorgono anche altri punti di riferimento: ad esempio chi compra non rinuncerà allo scambio quando il suo ipotetico guadagno sarà prossimo allo zero bensì quando riterrà abbastanza facile trovare un prezzo migliore presso un altro venditore. Allo stesso modo il venditore rinuncerà allo scambio quando riterrà facile trovare un altro cliente disposto a pagare di più. I prezzi alla fine tenderanno ad oscillare attorno ad un valore medio che riesce ad accontentare la maggioranza dei partecipanti a questa competizione. Tale valore medio è detto valore di mercato e nel nostro caso corrisponde al prezzo massimo con cui si riesce a vendere la maggior parte della propria merce. Da notare che questo prezzo non è stato stabilito da un singolo individuo ma dalla collaborazione del tutto involontaria di tutti, sia venditori che compratori. La capacità del singolo di strappare il miglior prezzo perde di importanza. Ecco perché si dice che il prezzo lo stabilisce “il mercato”, che assume quindi anche il significato di insieme di persone che partecipa agli scambi. Quanto detto vale nei mercati dove si contratta ad ogni vendita con numerosi venditori e compratori in libera concorrenza fra loro, negli altri casi il valore di mercato, sempre inteso come prezzo medio, sarà stabilito con meccanismi diversi.
Il valore di mercato di cui sopra, come abbiamo visto, è un valore stabilito collettivamente, ed è da tutti accettato, questo comporta che il singolo individuo tenda a considerarlo giusto perché lo dice la comunità, considerandolo quindi una sorta di valore oggettivo. In altre parole quel vestito, quella penna o quel computer hanno quel valore perché lo dice “il mercato” e quindi vale la pena comprarlo a quel prezzo dimenticandosi che il loro vantaggio invece si basa sul valore personale che deriva dalle proprie esigenze. Quindi facciamo attenzione: un buon prezzo non è quello “basso” rispetto a quello di mercato ma quello basso rispetto al nostro valore personale che attribuiamo a quel bene, valore che va da noi stabilito di volta in volta ponderando la sua utilità per noi. In caso contrario è facile fare acquisti sconvenienti.
Un mercato viene detto libero quando chi vi partecipa compete liberamente con tutti gli altri: sia che si tratti dei concorrenti che vendono la stessa merce cercando di superarli in qualità o con prezzi più bassi, sia con i clienti contrattando liberamente sul prezzo, sia ancora fra compratori che competono offrendosi di pagare di più. Sotto queste condizioni il prezzo di mercato si forma grazie al meccanismo visto nel paragrafo precedente. Il risultato, come abbiamo visto, è un prezzo stabilito con il contributo di tutti e non viene imposto da nessuno, il contributo di un singolo individuo è infatti insignificante. Anche il prezzo quindi è detto libero di oscillare secondo la “volontà” impersonale del mercato.
Questa situazione di libera concorrenza presuppone che vi sia piena libertà di scelta sia per i clienti che per i venditori. Per poter scegliere è ovvio che tutti debbano sapere dell’esistenza di tali scelte e dei relativi prezzi. una informazione carente o ingannevole dunque compromette immediatamente la libertà di scelta e quindi il libero mercato. Altro aspetto fondamentale è la possibilità di variare i prezzi in quanto se i prezzi sono fissi manca uno strumento fondamentale per la competizione fra venditori.
Determinante risulta anche il numero dei partecipanti: il cliente deve poter scegliere fra numerosi venditori e il venditore fra numerosi clienti. Se vi fosse un solo venditore non vi sarebbe concorrenza e questo singolo individuo potrebbe imporre il suo prezzo, i compratori non avrebbero alternative. Se invece fossero in pochi, (per esempio immaginiamone tre) i venditori si condizionerebbero a vicenda in quanto ciascuno di loro avrebbe un peso rilevante sul prezzo medio e potrebbe spostare le preferenze di una parte notevole della clientela. Per evitare una guerra commerciale, instabilità dei prezzi, ed il rischio di rovinare i propri investimenti resterebbero fondamentalmente due alternative: evitare di modificare i prezzi o fare un accordo su come modificarli. In entrambi i casi i clienti perdono il loro potere di influire sul prezzo. Un discorso perfettamente speculare si può fare nel caso in cui vi fossero solo un compratore o comunque molto pochi, come ad esempio nel caso di poche grandi aziende che acquistano materie prime da numerosi fornitori. Il mercato dunque non sarebbe più libero ma condizionato da pochi partecipanti, quindi tornerebbe a valere la legge del più forte, la formazione del prezzo perderebbe la sua imparzialità.
Per questo motivo affinché un mercato possa dirsi libero è essenziale che il numero dei venditori e dei compratori sia molto grande, tanto da impedire accordi o condizionamenti fra gli appartenenti alla stessa categoria. Tanto più il numero è grande tanto meno è probabile che si verifichino i temuti accordi, ecco perché in genere si dice che deve essere il più grande possibile, tendente all’infinito.
Abbiamo detto che il mercato non è più libero se l’informazione non è adeguata o quando i venditori o i compratori sono pochi, tanto da poter accordarsi fra loro prima della contrattazione. Tuttavia c’è un altro ostacolo alla libera concorrenza che vale la pena citare: l’intervento delle autorità politiche, a cominciare dallo Stato. Per secoli infatti il commercio internazionale si è basato sulle licenze ovvero i permessi che il Re concedeva ad una impresa commerciale di lavorare con una determinata merce o in una determinata zona. Questo ovviamente impediva che numerosi concorrenti si presentassero sul mercato. In altri casi invece l’intervento era quello di “fissare” i prezzi ovvero stabilire d’autorità quanto si doveva pagare per una data merce. Altro intervento possibile è quello di comprare grandi quantità di merci in modo da influire sul prezzo. Se infatti lo Stato acquista grano come riserva in grandi quantità ad un dato prezzo, ciò equivale ad un acquisto a quel prezzo da parte di tantissimi clienti ordinari. Questo fatto da solo già sposterebbe il prezzo di mercato verso quello praticato dallo Stato ma c’é di più, i clienti ordinari ora avranno una quantità minore di grano da spartire, il quale sarà più difficile da trovare e questo farà salire ulteriormente il prezzo. I metodi di intervento sono numerosi ma tutti comportano per definizione che il prezzo non è più stabilito dal mercato ma da qualcun altro. Ora si deve considerare che il libero mercato si presenta nella realtà solo in casi particolari, nella cospicua maggioranza dei casi il prezzo medio che si può riscontrare non è quello stabilito dal mercato ma solo un valore medio imposto o favorito da qualcuno che è in grado di farlo.
Ma chi è in grado di farlo? Abbiamo appena detto le autorità politiche ma non solo. Nel caso invece in cui vi sia un unico venditore per una merce, si parla di monopolio, ed il venditore è detto monopolista. Ovviamente in tale situazione non si può parlare di concorrenza e il prezzo medio è anche l’unico cioè quello presentato dal monopolista, che quindi da solo è una figura determinante. Ricordiamo invece che nel libero mercato l’azione di un singolo è poco rilevante.
Se invece i venditori sono pochi si parla di oligopolio, in tal caso se si accordassero fra loro avremmo un cartello e la situazione sarebbe praticamente identica al caso precedente, unica differenza è che al posto del monopolista avremo gli oligopolisti. Da notare che anche in assenza di un accordo ognuno di loro, modificando il suo prezzo, sarebbe in grado di incidere sul prezzo medio. Anche il singolo oligopolista quindi è una figura di rilievo.
In modo analogo se vi fosse un singolo compratore, per esempio lo Stato, si avrebbe una situazione di monopsonio, dominata dal monopsonista. Se invece fossero pochi avremo un oligopsonio e possiamo fare considerazioni perfettamente simmetriche rispetto alle precedenti.
I rapporti economici sono anche rapporti fra esseri umani, quelli di tipo essenzialmente collaborativo come il dono e la condivisione presentano solo vantaggi per tutti ed in genere quindi sono accettati da tutti come eticamente giusti. Quelli invece dove è presente una forte componente competitiva, prevedono per loro natura che qualcuno vinca ed altri perdano, ne segue che qualcuno viene danneggiato e la cosa diventa moralmente discutibile. Infatti se emerge un conflitto interno alla società, se in una comunità l’uno danneggia l’altro ecco che si può minare la convivenza. Una riprovazione sociale e collettiva appare quindi opportuna. Non deve sorprendere che filosofie e religioni si siano interessate a tale tipo di rapporti per dare dei giudizi morali. Come ogni atto umano infatti possono e devono essere giudicati eticamente come giusti o sbagliati, sebbene non sia sempre una impresa facile. Inoltre, a complicare le cose, accade che i criteri di giudizio morale normalmente accettati varino con il tempo ed il luogo, ovvero con la cultura dominante, ragion per cui ci si trova spesso davanti a giudizi contrastanti. In base quindi al modo di pensare, avremo varie forme di economia etica ovvero insieme di attività economiche rispettose o compatibili con i criteri di giudizio dominanti. Valutare tali attività eticamente è compito di tutti, ovvero della filosofia morale di ognuno ed in particolare delle autorità che devono proteggere la comunità dai pericoli che ne minano l’unità o la stabilità. Appare logico pensare infatti che tanto più accesa ed esasperata sarà la competizione economica e tanto maggiori le ingiustizie e la possibilità di conflitti interni. Ecco che abbiamo trovato un modo per passare dallo studio dell’economia delle comunità, ad altri ambiti culturali come la religione, la filosofia e la politica.
Ogni comunità si regge per il suo sostentamento su delle attività economiche; da queste dipende la sua sopravvivenza. Ogni società ha pertanto una sua economia che è di fondamentale importanza e che non può essere separata da essa. Dall’economia della comunità dipende lo stato di ricchezza o povertà dei suoi membri, quindi anche l’economia individuale è fortemente legata a quella collettiva. Ovviamente non è l’unico fattore da tenere in considerazione: all’interno della stesso sistema economico infatti troviamo sia ricchi che poveri, tuttavia la scomparsa di attività economiche nel sistema si ripercuote sempre in modo negativo su quelli che ne traevano benificio (a meno che non sia stata sostituita da un’altra migliore ovviamente), inoltre talvolta si tratta di larghe fasce della popolazione: basti pensare alla chiusura di un’azienda con un grande numero di operai e impiegati posta in un piccolo centro. Molte famiglie di quel paese andrebbero in crisi, avendo perso la loro risorsa principale.
Rientra quindi di norma nell’interesse economico individuale mantenere in buona salute anche l’economia collettiva. Esattamente come ci si preoccupa della pulizia della casa e della salubrità dell’ambiente, è opportuno avere cura anche della propria comunità ed in particolare delle sue condizioni economiche.
Un ragionamento analogo va fatto anche per la cura dell’ambiente naturale, che oltre ad essere una premessa fondamentale per la nostra vita è la fonte di tutte le risorse naturali, quindi va tutelato anche per sostenere l’economia sia individuale che collettiva.
Lo studio dell’economia delle comunità è stata la prima forma di scienza economica che è apparsa nelle università, con il nome di economia politica (dal greco polis= città, Stato). L’oggetto di studio era l’amministrazione dei beni e risorse delle nazioni, non vi sono difficoltà però ad estendere il campo di studio ad ogni genere di comunità. Per brevità oggi spesso la si indica semplicemente con il termine “economia” sebbene la vecchia dizione sia ancora in uso. In tale ambito inoltre, anche a livello popolare per economia si intende pure l’andamento delle attività economiche della comunità, nazione o sistema economico che si vuole considerare. A tale significato si fa riferimento quando ci si domanda: “Come va l’economia?”. Abbiamo dunque introdotto due nuove sfumature di significato alla parola economia che dobbiamo aggiungere alle tre precedenti del primo corso:
economia = risparmio
economia = buona gestione dei beni
economia = scienza che studia la buona gestione dei beni
economia = economia politica, studio dell’economia delle comunità
economia = insieme di attività economiche di una comunità
Ovviamente in base al contesto dovrebbe essere chiaro a quale significato si fa riferimento, ciò nonostante a volte si verificano delle ambiguità ed è bene fare attenzione, sia quando si parla che quando si ascolta.